Hannah Arendt. Il film, i documentari, gli articoli, gli scritti








Da Hannah Arendt, La banalità del male

[Eichmann] non ebbe il tempo, e nemmeno il desiderio, d’informarsi bene; non conosceva il programma del partito, non aveva mai letto Mein Kampf. Kaltenbrunner gli disse: “Perché non entri nelle SS?”, e lui rispose: “Già, perché no?”. Andò così. 
Naturalmente non era tutto qui.
...

Adolf Eichmann andò alla forca con grande dignità. Aveva chiesto una bottiglia di vino rosso e ne aveva bevuto metà. Rifiutò l’assistenza del pastore protestante, reverendo William Hull, che si era offerto di leggergli la Bibbia: ormai gli restavano appena due ore di vita, e perciò non aveva “tempo da perdere”. Percorse i cinquanta metri dalla sua cella alla stanza dell’esecuzione calmo e a testa alta, con le mani legate dietro la schiena. Quando le guardie gli legarono le caviglie e le ginocchia, chiese che non stringessero troppo le funi, in modo da poter restare in piedi. “Non ce n’è bisogno”, disse quando gli offersero il cappuccio nero. Era completamente padrone di sé, anzi qualcosa di più: era completamente se stesso. Nulla lo dimostra meglio della grottesca insulsaggine delle sue ultime parole. Cominciò col dire di essere un Gottgläubiger, il termine nazista per indicare chi non segue la religione cristiana e non crede nella vita dopo la morte. Ma poi aggiunse: “Tra breve, signori, ci rivedremo. Questo è il destino di tutti gli uomini. Viva la Germania, viva l’Argentina, viva l’Austria. Non le dimenticherò.” Di fronte alla morte aveva trovato la bella frase da usare per l’orazione funebre. Sotto la forca la memoria gli giocò l’ultimo scherzo: egli si sentì “esaltato” dimenticando che quello era il suo funerale. Era come se in quegli ultimi minuti egli ricapitolasse la lezione che quel suo lungo viaggio nella malvagità umana ci aveva insegnato – la lezione della spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male.








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Muore Hannah Arendt la filosofa de "Le origini del totalitarismo"

Hannah Arendt la filosofa del "male"














Alcune pagine della filosofa tedesca
Brani sul tema della "banalità del male"




  • Da una lettera a Gershom Scholem Da una lettera a Gershom Scholem (69,49 KB)
  • Da <em>La banalità del male</em>, cap. VII - La conferenza di Wannsee, ovvero Ponzio Pilato (Feltrinelli, pp. 120-123) Da La banalità del male, cap. VII - La conferenza di Wannsee, ovvero Ponzio Pilato (Feltrinelli, pp. 120-123) (88,34 KB)
  • Da <em>La banalità del male</em>, cap. VIII - I doveri di un cittadino ligio alla legge (Feltrinelli, pp. 142-144; 156-157) Da La banalità del male, cap. VIII - I doveri di un cittadino ligio alla legge (Feltrinelli, pp. 142-144; 156-157) (93,71 KB)
  • Da <em>La banalità del male</em>, appendice - Le polemiche del caso Eichmann (Feltrinelli, pp. 290-291) Da La banalità del male, appendice - Le polemiche del caso Eichmann (Feltrinelli, pp. 290-291) (72,27 KB)







ARTICOLI








«Come tanti piccoli Eichmann, evitiamo di pensare, per questo il totalitarismo ha vinto». Intervista a Margarethe von Trotta
La regista di “Hannah Arendt” fa i conti con il suo essere femminista. E con la tecnica che «farà perdere importanza alle donne»

Margarethe von Trotta


«Oggi siamo tutti dei piccoli Eichmann. Come il criminale nazista di cui Hannah Arendt ha saputo cogliere l’intima essenza, evitiamo di pensare. Il totalitarismo ha vinto anche se ha perso come sistema politico. Per reazione ha prodotto un individualismo che è vuoto di pensiero». Margarethe von Trotta è stata molto chiara e non ha lasciato dubbi sulle motivazioni che l’hanno spinta, due anni fa, a girare il film Hannah Arendt. Il Centro culturale di Milano, che come Tempi aveva organizzato visioni del film all’inizio del 2014, venerdì scorso ha pure offerto ai milanesi l’occasione di incontrare la regista, che ha dialogato sul tema “La persona tra potere e libertà”. Nel corso della serata l’autrice de Gli anni di piombo ha evocato i temi dell’indipendenza, dei legami affettivi e di sangue, della scoperta della parentela stretta fra comunismo e nazismo a motivo della comune natura totalitaria. Si è detta d’accordo che oggi solo esperienze di amicizia possono aiutare i singoli a ricominciare a pensare e a cercare il vero se stesso. Tempi l’ha intervistata su questi temi, ma ha anche ceduto alla tentazione di provare a farle fare i conti con la sua esperienza di femminista storica. Infatti, Margarethe von Trotta sta al femminismo cinematografico come Roberto Rossellini sta al neorealismo o Sergio Leone allo spaghetti western. Chi legge quel che segue è in grado di giudicare come è andata.



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Praticamente tutti i suoi film sono centrati su figure di donne che lottano per la propria libertà e la propria indipendenza. E il problema sta nel fatto che vivono in una società dominata dagli uomini. Ma che cosa intende per libertà? Il senso di questa parola è cambiato per lei nel corso del tempo? E in che relazione stanno indipendenza e libertà? Coincidono, secondo la sua opinione?

Non so se la mia opinione intorno alla libertà e all’indipendenza sono cambiate molto rispetto ai miei primi film. Io credo di essere ancora sulla strada che ho intrapreso anni fa. Forse in Europa la libertà e l’indipendenza delle donne sono un po’ cresciute in confronto ai tempi in cui ho iniziato a fare la regista, ma se si guarda al mondo, in Africa e nel Medio Oriente la condizione della donna è ancora terribile. Un po’ di indipendenza per la donna significa sempre anche un certo grado di libertà nella società. E un certo grado di democrazia nella società è sempre segno che si è realizzata una certa indipendenza della donna. Perché il punto è che le donne non vogliono il potere, ma l’indipendenza. Sono gli uomini che cercano sempre il potere. Noi vogliamo semplicemente avere la libertà di scegliere quello che è bene per noi, per la nostra vita, per il nostro sviluppo.

Guardando il suo film Hannah Arendt si giunge alla conclusione che il prezzo dell’indipendenza è la solitudine. Lei intendeva trasmettere questo concetto di ordine generale o ha voluto comunicare un’esperienza personale che ha ritrovato nella figura di Hannah Arendt?

Io non sono certo all’altezza di Hannah Arendt, una pensatrice che ha avuto grandi idee e che le ha difese con grande coraggio. Ma certamente quando si vuole affrontare il mondo con le proprie forze e guardarlo coi propri occhi, bisogna mettere in conto l’isolamento. E se scopri una verità, hai il dovere di dirla anche correndo il rischio di restare isolata.


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Che cosa ammira di più in Hannah Arendt come pensatrice e donna del suo tempo?

Proprio questo coraggio di pensare con la propria testa, senza legarsi a una teoria o a una verità costruita da altri. Guarda coi suoi occhi e pensa con la sua testa. Va a Gerusalemme per il processo a Eichmann, pensando come tutti che si tratti di un mostro, di un criminale terribile. Lo guarda, e scopre che questa idea di lui che tutti avevano non corrisponde alla verità. Matura tutta un’altra concezione di questo criminale di guerra. Per me come regista è importante far partecipare lo spettatore alla sua osservazione, fargli vedere Eichmann come lo vede la Arendt, e permettergli di arrivare alla stessa conclusione.

Anche i legami sono un tema ricorrente nei suoi film. Penso a Sorelle, a Gli Anni di Piombo, al rapporto fra Ildegarda e Richardis in Vision. I legami sono un contrappeso al peso della solitudine che è il prezzo da pagare per l’indipendenza?

All’inizio le mie erano storie di sorelle e di amicizie. Non erano mai relazioni facili, fatte solo di gratificazioni. Soprattutto fra le sorelle si notavano sempre i contrasti. I legami nascono dalla ricerca di calore dentro al contatto con un essere umano, uomo o donna. Ma io credo che anche in questi casi si deve avere il coraggio di lasciare una persona se il rapporto non funziona più. Anche nel caso di un matrimonio, trovo giusto che una persona lasci l’altra se non possono più svilupparsi entrambi in modo giusto e adeguato alla loro personalità e al loro talento. Al prezzo della solitudine, appunto.

Secondo lei il tema del potere è ancora la questione centrale del rapporto uomo-donna nel mondo di oggi? Ci sono temi altrettanto importanti che noi dobbiamo scorgere nei suoi film?

La ricerca di se stessi. Non c’è solo il tema del potere nei rapporti fra i sessi e nei rapporti sociali nei miei film. Per me il punto è che cosa uno è pronto ad affrontare e a sopportare per questa ricerca di sé. E così si torna al tema della solitudine. Si torna sempre lì!

Solitudine e legami sono temi forti di Vision, il suo film su Ildegarda di Bingen. Che cosa ammira in particolare di questa santa medievale?

Quello che più mi interessava mostrare, era come una donna nel Medio Evo, che viveva sotto certe regole – regole della religione e della società – era riuscita a trovare la strada adatta a lei e al suo talento. Lei è suora in un monastero dove c’è un abate che detiene l’autorità, e lei deve essere obbediente, umile, modesta. Sente che ha dentro di sé delle cose che in quelle condizioni non può esprimere. Allora ha delle visioni che vengono da dentro di lei. Io non credo alla natura divina di quelle visioni. Io credo che sia tutto dentro di lei, che sia il suo inconscio che le viene in aiuto. Lei le esterna, e questo le permette di salire al rango di visionaria, profetessa accettata come tale dal Papa, da san Bernardo di Chiaravalle. Questo la mette in grado di scegliere la sua strada. Perfino di lasciare il suo convento, cosa totalmente proibita, per fondarne un altro. L’autorità che le viene dalle visioni le permette di lasciare il primo convento e di fondarne lei altri due. E lì ha la possibilità di studiare le scienze, praticare la musica, fare ricerche sulle piante, sulla fisiologia umana, eccetera. Il suo inconscio le dà lo slancio vitale per soddisfare il suo talento, che è poliedrico. Forse oggi sarebbe diventata una scienziata.

In quello che mi è sembrato il momento più drammatico del film, Ildegarda dice: «Richardis è mia figlia, e io sono la figlia di Richardis». Cosa intende dire?

È una frase che si trova in una delle sue lettere, indirizzata proprio alla giovane monaca Richardis subito dopo che era stata trasferita in un altro monastero. Dobbiamo pensare che Ildegarda è stata lasciata dalla madre in un certo senso due volte: la prima volta dalla sua vera madre, che l’ha portata in convento senza chiedere il suo parere; la seconda madre che perde è la monaca che si prende cura di lei nel convento, e che era anche un’amica. Quando muore, è come se perdesse la madre una seconda volta. Poi diventa lei madre, quando arriva in convento la giovane Richardis, che la ammira sconfinatamente e che diventa la sua prediletta e la sua figlia spirituale. Ma avendo perso la madre, allo stesso tempo cerca in lei anche quest’altra figura. Quando lei se ne va, per volontà del fratello, lei perde contemporaneamente una figlia e una madre! Io l’ho interpretata così.

Col sostegno della lettera in cui Ildegarda scrive quella frase.

Molta corrispondenza scritta da Ildegarda riguarda Richardis: lettere scritte al Papa, alla famiglia della monaca, e sempre per riavere nel suo convento quella ragazza. Si comporta come una pazza, emerge una passione fortissima che la lega a Richardis.

C’è un potere che le donne hanno e che gli uomini non hanno mai avuto: quello di ospitare dentro al proprio corpo un altro essere umano e di farlo nascere. Oggi è evidente che la tecnologia si sta sviluppando in una direzione che prevede l’esproprio di questo potere della donna. L’utero artificiale è dietro l’angolo. Lei considera questa evoluzione come una perdita di potere da parte della donna, oppure la considera un’opportunità che permetterà alle donne di acquistare più potere in altri ambiti della vita?

Io sono abbastanza vecchia, e forse retrograda. Ho avuto un figlio. Poter avere un figlio, far nascere un bambino dal tuo grembo dopo averlo cresciuto dentro di te, per me è stata un’esperienza fondamentale. Che non contraddice la mia idea di indipendenza: si può essere indipendenti e avere figli. Ma forse per una nuova generazione di donne l’utero artificiale rappresenterà una nuova possibilità per avere più autorità sulla propria vita. Senza dimenticare che il prezzo sarà una perdita di importanza delle donne, perché le macchine e la tecnologia potranno sostituirle e creare la vita.

Infatti le biotecnologie stanno tecnologizzando la nascita. Gli esseri umani sono sempre più dei prodotti e sempre meno dei nati. La nascita come inizio totalmente nuovo che fa irruzione nel mondo è uno dei temi più importanti del pensiero della Arendt. Ma quando la nascita è totalmente pianificata, nessuna novità può entrare nel mondo come un nuovo inizio. Lei cosa ne pensa?

Certo, ci si può lamentare di questa tendenza, ma sappiamo bene che una volta che una cosa è stata inventata, non si torna più indietro. Questo è un fatto. Anche se ci lamentiamo, un fatto è irreversibile. Vorrei ricordare che la nascita è anche la nascita della tua coscienza, della tua visione di te stessa. E questa è la vera nascita. Non è solo una questione fisica, del corpo. È quando tu capisci che devi cercare te stesso.

Ma se tu sai che sei nato come un prodotto, che gran parte di te è stata pianificata da altri, non diventa problematico il prendere coscienza di sé? Quando l’alienazione comincia sin dall’embrione?

Sì, ma non c’è una differenza così grande fra l’essere prodotto dalla tecnologia oppure no: si tratta sempre di te, che ti trovi su questa terra. Anche chi è nato da un padre e da una madre spesso non conosce il padre. Nella misura in cui hai un corpo, una mente e un’anima per cercare te stessa, l’importante è quello. L’essere umano è capace di trascendenza. Puoi sempre trascendere quello che gli altri volevano per te, pretendevano da te.

Lo psichiatra e filosofo Jacques Lacan ha scritto che l’uomo e la donna sono troppo diversi per essere definiti complementari. Possono almeno capirsi e camminare fianco a fianco nella vita?

Sì, ma ci vuole una gran volontà. La volontà di capire se stessi deve essere tanto grande quanto quella di capire l’altro. Qualche volta succede che la gente lotta tutta la vita per essere se stessa e per capirsi, dimenticando di allargare il campo fino ad includere l’altro. È difficile avere per l’altro lo stesso interesse che hai per te stesso. Entrare dentro l’altro come un attore o un’attrice entrano dentro a un personaggio, si identificano con lui. Per capire le sue sensazioni ma anche le sue debolezze. Un uomo e una donna che agiscono così, questa sarebbe per me la coppia ideale. Quella di chi vuole entrare nell’altro per capire, non solo per criticare e per distruggere.

Dopo tanti anni come regista che ha girato soprattutto film sulle donne, come risponde alla semplice ma terribile domanda: «Che cos’è una donna? Che cosa fa di una donna una donna?».

Non lo so. Quello che so è che essere donna è una cosa che non si sceglie. Si può solo accettare. Sei nata donna, devi accettarlo. Ma non è poi così difficile. È molto più difficile diventare un essere umano, un essere completo.






Hannah Arendt, l’ebrea laica che confidava nel «miracolo» perfino nel secolo della Shoah e del pensiero ateo


Così la filosofa tedesca-statunitense illuminò con la sua attitudine realista e positiva l’epoca del rancore, del dubbio, della disperazione. E delle catastrofi

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Il successo del film Hannah Arendt di Margarethe von Trotta sta superando ogni aspettativa. Programmato inizialmente nei cinema italiani per due soli giorni (27 e 28 gennaio, memoria della Shoah), continua a essere replicato in tutto il paese grazie alle richieste e all’iniziativa del pubblico. Riproponiamo questo articolo sulla filosofa tedesca-statunitense apparso nel numero di marzo 1997 di Tracce, mensile di Comunione e Liberazione.
Nel 1947, in una lettera all’amico Kurt Blumenfeld, capo di una organizzazione sionista con cui Hannah si era attivamente coinvolta, prima a Berlino favorendo la fuga di ebrei e di oppositori al nazismo e poi a Parigi organizzando il trasferimento di giovani della comunità ebraica in Palestina, scrive: «Io in realtà sono molto felice, perché non si può andare contro la propria vitalità naturale. Il mondo, così come Dio l’ha creato, mi sembra buono». È all’apparenza paradossale che una filosofa ostinatamente laica riecheggi le parole del libro della Sapienza: «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per la vita; le creature del mondo sono sane, in esse non c’è veleno di morte, né gli inferi regnano sulla terra, perché la giustizia è immortale». Il carattere fiducioso di Hannah è tanto più miracoloso se si tiene conto che questo giudizio viene espresso al cospetto dell’immane tragedia che aveva appena strappato dal mondo sei milioni di ebrei.

Il “tipo ebraico”

Nonostante la catastrofe, nell’ebrea Hannah Arendt resiste la certezza del «miracolo» come «stoffa della realtà», come il fondo azzurro del cielo che non può essere cancellato da nessun uragano (e che uragano era stato il nazismo!). Questa attitudine realista e positiva è, a giudizio della Arendt, anche il tratto caratteristico di una «sorta di “tipo ebraico”». Un “tipo” che in una lettera del 7 settembre 1952 al filosofo Karl Jaspers delinea così: «È un tipo umano in cui c’è molto di positivo, e cioè tutto ciò che io faccio rientrare nel concetto di “qualità dei paria” e che Rachel (intellettuale ebrea berlinese di epoca romantica, ndr) chiamava “le vere realtà della vita: amore, alberi, bambini, musica”. C’è uno straordinario sentimento d’insofferenza delle ingiustizie; domina un’assoluta mancanza di pregiudizi e una grande magnanimità».

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Esattamente l’opposto della disposizione affettiva caratteristica dell’uomo moderno, che la Arendt designa con il termine «rancore». Rancore contro «tutto ciò che gli è donato, compreso la sua propria esistenza»; rancore contro «il fatto che egli non è il creatore dell’universo, né di lui medesimo». Spinto da questo rancore fondamentale «a non vedere né senso né ragione nel mondo tal quale esso si dona a noi» l’uomo moderno «proclama apertamente che tutto è permesso ed egli crede segretamente che tutto è possibile».

Come ha notato Alessandro Dal Lago, curatore delle traduzioni italiane degli scritti arendtiani, l’atteggiamento filosofico della Arendt riposa sull’assunto che il mondo «non sia una proiezione del pensiero, ma una datità irriducibile». Di qui «l’esaltazione del common sense» (da intendere nella sua originale accezione di «senso condiviso della realtà») contro «il postulato filosofico di un io puro, mero artificio retorico, una robinsonata (da Robinson Crusoe, ndr), uscita dalla condizione comune dell’esistenza» (Dal Lago) e tradimento della ragione frutto di una storia in cui «la realtà e la ragione umana hanno sciolto l’alleanza».

In un saggio sull’età moderna la Arendt scrive: «Nella filosofia e nel pensiero moderni, il dubbio occupa la stessa posizione centrale che occupò per tutti i secoli prima il thaumazein dei greci, la meraviglia per tutto ciò che è in quanto è» (Vita activa). Tale pregiudiziale sospensione dell’assenso sulle cose sembrerebbe all’origine anche di quella immoralità che la Arendt rimproverò ad esempio agli intellettuali tedeschi della sua generazione, da Heidegger a Adorno, che tentarono di ingraziarsi il regime nazista («Tra gli intellettuali l’allineamento – Gleichschaltung – era la regola, mentre non avveniva in altri ambienti. E non l’ho mai dimenticato». La lingua materna).

Scrivendo la biografia di Rachel Varnhagen (1771-1833), intellettuale ebrea protagonista della Berlino romantica (nel cui salotto si riunivano personalità del rango dei fratelli von Humboldt e August e Friedrich von Schlegel) Hannah Arendt osserva: «L’autonomia dell’uomo diventa vittoria delle possibilità che respinge ogni realtà. La realtà non può portare niente di nuovo, la riflessione ha già anticipato tutto». Dove Rousseau appare come il prototipo del «ricordo malinconico» che è «lo strumento migliore per dimenticare del tutto il proprio destino» e in cui «il potere e l’autonomia dell’anima sono assicurati. A prezzo però della verità che, senza realtà, realtà condivisa con altri uomini, perde ogni senso». Ecco allora la fondamentale slealtà dell’intellettuale moderno: «I fatti reali non mi tangono proprio» scrive Rachel a Veit «perché, che siano veri o no, li si può negare».


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Il vero nemico del cristianesimo

Anche il concetto di “secolarizzazione” assume agli occhi della Arendt un contenuto affatto diverso da quello comunemente inteso. «A minare la fede cristiana non fu l’ateismo del XVIII secolo o il materialismo del XIX (…) ma piuttosto l’atteggiamento di sfiducia di uomini genuinamente religiosi, agli occhi dei quali il contenuto e la promessa tradizionali del cristianesimo erano diventati “assurdi”». I responsabili vanno cercati all’interno della stessa tradizione religiosa. «Comunque si voglia intendere nell’uso corrente la parola “secolare”, storicamente non può essere fatta coincidere con l’essere-nel-mondo; a ogni modo l’uomo moderno non guadagnò questo mondo quando perse l’altro mondo, e neppure la vita ne fu favorita. Egli fu proiettato in se stesso, proiettato nella chiusa interiorità dell’introspezione, dove tutt’al più poteva sperimentare i processi vuoti del meccanismo mentale, il suo gioco con se stesso». Profezia straordinaria: «È perfettamente concepibile che l’età moderna – cominciata con un così eccezionale e promettente rigoglio di attività umana – termini nella più mortale e nella più sterile passività che la storia abbia mai conosciuto».

Si provi a rileggere il bilancio di una vita di due illustri intellettuali italiani, il laico Norberto Bobbio (De senectute) e il cattolico Carlo Bo (intervista al Giornale, 12 febbraio). E poi li si compari a questo brano della Arendt: «La speranza induce a esplorare il mondo alla ricerca di una piccola, minuscola crepa che potrebbero aver lasciato rapporti e legami; una fessura – sia pur sottilissima – che aiuti a ordinare e centrare il mondo indefinito perché l’inatteso desiderato dovrà infine uscirne fuori come felicità definitiva. La speranza porta alla disperazione se la convinzione non fa trovare nessuna fessura, nessuna possibilità di essere felice. Questa è la situazione di Rahel a ventiquattr’anni; non ha ancora vissuto nulla, in una vita che non ha ancora contenuto personale. “Sono sfortunata; non mi lascio convincere del contrario; il che ha un brutto effetto”. La convinzione diventa definitiva; non si preoccupa del fatto che continui a sperare nella felicità per quasi tutta una vita; Rahel sa in segreto che in tutto quello che accadrà, la condizione della sua giovinezza aspetta solo di essere confermata».

Postilla apparsa in calce a questo articolo: «Come siamo d’accordo con Hannah Arendt! … Forse perché da cristiani cerchiamo di essere partecipi della vita di una eredità ebraica?». Naturalmente l’autore di questa postilla è don Luigi Giussani, all’epoca capo di Cl e “revisore-editore” di Tracce.





Il mio viaggio nel male

Alessandra Stoppa
RILETTURE - HANNAH ARENDT


La sua «banalità del male» è una delle espressioni più usate (e abusate) davanti alle notizie di ogni giorno. Ma che cosa voleva dire davvero la filosofa tedesca??A cinquant’anni esatti dai suoi articoli sul processo ad Adolf Eichmann, riscopriamo quello che lei vide in quell’uomo. E nella nostra coscienza

Un ragazzino solare, dai modi perbene, che ammazza i genitori. «È la banalità del male», si dice. La lite in strada, uno screzio per il taxi o uno sguardo di troppo e altre cose da niente che finiscono per uccidere. «È la banalità del male». Lo stesso nome che si dà all’abitudine con cui passano sotto gli occhi i massacri quotidiani. O allo scandalo di veder affiorare un gesto qualunque, che è familiare, in chi è stato capace di qualcosa di atroce. Ci togliamo dal precipizio in fretta: «È la banalità del male», e abbiamo detto tutto.
Ma tutto cosa?
Ancora oggi, a cinquant’anni esatti dalla sua formulazione, l’espressione con cui Hannah Arendt cercò di definire quello che vide nelle centoquattordici udienze del processo di Gerusalemme, che portarono alla condanna a morte del criminale nazista Adolf Eichmann, ricorre frequente sui giornali, nei commenti ai fatti di cronaca. Usata, e abusata. Il più delle volte diventa il karma per convincerci di ciò che non vorremmo: quel male che ci spaventa ci riguarda. In questo, qualcosa si avvicina a ciò che la Arendt vide in quell’uomo di mezza età, magro, con un’incipiente calvizie, «rinchiuso nella gabbia di vetro» dove per tutta la durata del processo se ne starà «con lo scarno collo incurvato sul banco». Ma per lei non è la normalità di Eichmann ad essere banale. Per capire cosa intendesse basta rileggere la serie di articoli che la filosofa tedesca, allieva di Heidegger e Jaspers, scrisse come inviata a Gerusalemme per il settimanale The New Yorker, e pubblicati tra il febbraio e il marzo del 1963. La sua definizione di male è più profonda del modo con cui viene usata. Più profonda, perché interroga la profondità del male. Senza trovarla.
Eichmann nasce nella città austriaca di Solingen, nel 1906. Lo stesso anno della Arendt. Mentre lei, ebrea-tedesca, emigra in Francia e poi negli Stati Uniti per sfuggire alla persecuzione, lui finisce nelle colonne in marcia sotto le bandiere del Terzo Reich. A 26 anni, perde il lavoro in una compagnia petrolifera e si arruola: di lì a poco, «annoiato dal servizio militare», su suggerimento di un conoscente fa domanda per entrare nelle SS. «Fui inghiottito dal partito senza avere il tempo di decidere. Fu una cosa così rapida e improvvisa!», dirà al processo. Eichmann diventerà il responsabile della sezione per “gli affari concernenti gli ebrei” dell’Ufficio centrale per la sicurezza del regime. Con un ruolo chiave: gestire i trasferimenti ai campi di concentramento e sterminio. L’11 maggio 1960, in un sobborgo di Buenos Aires dove si costruì una seconda vita dopo la guerra, sarà rapito dal Mossad, per essere giudicato davanti al Tribunale distrettuale di Israele.

La scorciatoia. Il rapimento è anche l’inizio del film di Margarethe von Trotta, uscito di recente in Germania e dedicato all’esperienza della Arendt in quei quattro mesi di processo davanti a un imputato che la sciocca, perché «tutto questo contraddice le nostre teorie di male». Innanzitutto la sua teoria, quella del «male radicale», introdotta con Le origini del totalitarismo: con il nazismo sarebbe apparso nella storia un male «assoluto», mai visto e fine a se stesso. Mentre le azioni di Eichmann erano sì «mostruose», ma lui non era «né demoniaco né mostruoso». Non era paranoico o infermo di mente. Una mezza dozzina di diagnosi psichiatriche lo confermavano. «Non era uno Iago, né un Macbeth», annota la Arendt. Era ordinario, senza intenzione di fare il male. E, al contempo, conosceva le conseguenze delle sue azioni.
È per questa voragine - il problema della coscienza - che la Corte cercherà tutto il tempo una scorciatoia: convincersi che quell’uomo stesse mentendo.
Invece Eichmann diceva la verità. Non odiava gli ebrei, anzi fu il primo ad essere «scontento» della “soluzione finale”. Eppure fu uno dei principali esecutori dell’Olocausto, e lo guardò in faccia. Fece trasportare centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini alla morte. «Con grande zelo e cronometrica precisione». E per questo è stato impiccato, il 31 maggio 1962, colpevole di «crimini contro il popolo ebraico, crimini contro l’umanità e crimini di guerra». Ma senza che la Corte, né il pubblico, in fondo, gli avesse creduto. Avesse creduto che il suo male non era radicato, né nel fanatismo, né nell’inconsapevolezza. Credergli voleva dire stare di fronte ad un dilemma che sembrava insolubile. E qui sta lo scarto della Arendt: decise di guardare quel dilemma.
È facile che la banalità sia fraintesa come l’azione piccola di un uomo, di un mero burocrate in un gigantesco ingranaggio infernale. Di certo, la vicenda umana di Eichmann è stata anche questo, lui stesso ne ha fatto la sua difesa, ha detto e ripetuto di aver obbedito a degli ordini. Meglio, ad «azioni di Stato». Ma non è per questo che la Arendt sceglie la sua definizione di male. C’è qualcosa che lei scorge nella capacità di quell’uomo di esaltarsi per cose vuote, finte. Non era indottrinato: l’adesione al partito era stata senza convinzione, non ne conosceva il programma, mai letto Mein Kampf. Dell’8 maggio 1945, data ufficiale della sconfitta della Germania, dirà: «Sentivo che la vita mi sarebbe stata difficile, senza un capo; non avrei più ricevuto direttive da nessuno, non avrei più potuto consultare regolamenti. In breve, mi aspettava una vita che non avevo mai provato».
Perché non aveva mai provato a vivere. Il giudice istruttore lo interrogò per più di un mese, registrò 76 nastri magnetici, in cui Eichmann racconta la sua vita. Sono pieni di frasi fatte. Con una «quasi totale incapacità di vedere le cose dal punto di vista degli altri», si appunta la Arendt. Eichmann trova consolazione nel ricordo di «piccoli trionfi», ispirati alla buona società o al successo, ha «la mania di dire cose grosse», ma che restano concetti vuoti. Come le parole insulse pronunciate l’istante prima di morire. Disse di essere Gottgläubiger, il termine nazista per chi rifiuta la religione cristiana e la vita eterna, poi aggiunse: «Tra breve, signori, ci rivedremo. Questo è il destino di tutti gli uomini. Viva la Germania, viva l’Argentina, viva l’Austria. Non le dimenticherò». Davanti a queste parole la Arendt vede il ricapitolarsi di tutto quello che aveva avvertito durante il lungo processo: «La lezione della spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male».
Il male di quell’uomo era banale come la sua memoria, una mente che traboccava di concetti di poco conto mentre faceva fatica a ricordare i fatti. Il pensiero, che è fatto per cercare le radici delle cose, quando si occupa del male «viene frustrato, perché non trova nulla. Il male è banale perché non ha radice», scriverà la Arendt davanti alle polemiche per il resoconto del processo. La banalità è, dunque, questa «assenza di pensiero». Non che Eichmann fosse uno stupido («era senza idee, una cosa molto diversa dalla stupidità»). Il male di cui lei parla è «lontananza dalla realtà». Innanzitutto, da se stessi. È un vuoto di ragione per un mancato rapporto con i fatti. Eichmann li aveva davanti, vide come si moriva a Minsk, a Treblinka, a Lublino, vide bene fino a non riuscire più a guardare: «Era troppo. Ero finito. Avrei voluto sparire». Ma non bastava.
È questo che farà dire alla Arendt: «Ho cambiato idea. Oggi il mio parere è che il male non sia mai “radicale”, ma che sia solo estremo». Estremo e superficiale. Come la sistematica menzogna in cui vivevano tutti intorno a lui: la realtà era stata svuotata fin dei suoi connotati più evidenti, con parole innocue: le modalità di sterminio erano «la carità di una morte pietosa», «questioni mediche». Del resto, altrove, definirà così l’ideologia: «Non è ingenua accettazione del visibile, ma la sua intelligente destituzione».
Se la realtà diventa insignificante per il pensiero, il male non ha più limiti di gravità, perché non è legato a niente. «Il nulla diventa un sostituto globale della realtà, poiché il nulla apporta sollievo», scrive ne La vita della mente: «Sollievo, beninteso, senza realtà. Meramente psicologico, sedativo per l’ansia e la paura». È il sollievo che diceva di provare Eichmann. Senza mai conoscere e giudicare, e perdendo il livello umano del vivere. Era come se la sua vita non avesse mai raggiunto la singolarità. Non era mai stata veramente sua.
«L’insistenza della Arendt sui fatti è sottovalutata. Ciò che è più acuto in lei è invece proprio il desiderio di comprendere la realtà. Fu il suo assillo fin da bambina», dice a Tracce Giorgio Torresetti, docente di Filosofia del diritto all’Università di Macerata: «La banalità è questo disabituarsi dell’uomo al pensiero come incapacità di lasciarsi interrogare dai fatti. Il pensiero si chiude in se stesso, non ascolta la realtà. L’uomo smette di ascoltare per primo se stesso, come dialogo interiore». Come coscienza.

«Tutto oggi sarebbe diverso». Una delle cose che più colpisce la Arendt è proprio la scarsa «resistenza» al nazismo, la rarità di uomini coscienti. Sbuca spesso nel suo resoconto. In certi ricordi di Eichmann («Nessuno venne a rimproverarmi per il modo in cui eseguivo il mio dovere»), o nella deposizione di un sopravvissuto, che racconta di essersi salvato con altri grazie ad un sergente tedesco, Anton Schmidt, che per questo fu giustiziato: «Un silenzio di tomba calò nell’aula del tribunale. In quei due minuti che furono come un improvviso raggio di luce in mezzo ad una fitta, impenetrabile tenebra, un pensiero affiorò alle menti, chiaro, irrefutabile, indiscutibile: come tutto oggi sarebbe stato diverso se ci fossero stati più episodi del genere». In un altro passo, affonda:?«Il regime cercava di creare dei vuoti di oblìo in cui scomparisse ogni differenza tra il bene e il male. Ma i vuoti di oblìo non esistono. Nessuna cosa umana può essere cancellata. Sotto il terrore la maggioranza si sottomette, maqualcuno no».
La Arendt spera in queste eccezioni, rinascite di coscienza. E nel fatto che la realtà non può essere ridotta a nulla. La banalità del male svela la profondità del bene. Così scriverà in una lettera del luglio ’63: «Solo il bene è radicale».

Hannah Arendt e la pluralità come risorsa contro il male
Il saggio di Torresetti ripercorre il vissuto tormentato e giudicato della Arendt da cui nasce l’insistenza sul valore dei fatti. La mancanza di attenzione «consente la formazione e la diffusione del male»

Nel 1961 Hannah Arendt assisteva, per conto di un giornale newyorkese, al processo ad Adolf Eichmann, l’ufficiale delle SS che si occupò di distribuire logisticamente gli ebrei nei diversi campi di concentramento. È in quell’occasione che la Arendt approda al famoso concetto di “banalità del male”. Un male, come scrive Giorgio Torresetti (La legge della terra in Hannah Arendt, Giappichelli editore, 249 pagine, 25 euro) che «si afferma in modo pervasivo e devastante non perché sia particolarmente radicato e profondo, anzi, proprio perché non ha affatto radici, è solo superficiale, è del tutto privo di spessore e consistenza, si forma e si diffonde nel vuoto, per una mera dinamica ripetitiva di luoghi comuni, come un’onda che proviene da una massa indistinta nella quale si è immersi, la cui caratteristica più rilevante è l’assenza di pensiero».

È da quel concetto generato da un vissuto tormentato e giudicato che nasce l’insistenza sul valore dei fatti da parte della Arendt. E definirla filosofa o pensatrice appare inevitabilmente riduttivo, quando non addirittura scorretto, se si considera che una delle cifre del suo lavoro fu proprio il rifiuto e la critica della filosofia. I fatti, scrive ancora Giorgio Torresetti, «con il loro semplice accadere, avanzano una continua pretesa di attenzione e riflessione nei confronti del pensiero». Quella mancanza di attenzione è ciò che «consente la formazione e la diffusione del male in modo tanto inavvertito quanto pervasivo».
La Hannah Arendt che critica ferocemente la filosofia è quella che, da giovane universitaria, vede tanti maestri (lo stesso Heidegger) coinvolgersi, anche se marginalmente, col nazismo. Quello fu per lei il segno che quel mondo intellettuale aveva fallito. E con esso falliva una filosofia in cui i fatti fossero ostaggi del pensiero e un’impostazione intellettuale che anteponesse non solo il pensiero ai fatti ma anche l’Uomo agli uomini. È questa la pluralità, che la stessa Arendt definisce legge della terra, e che Giorgio Torresetti usa come chiave riassuntiva del suo pensiero. «In altre parole – scrive Hannah Arendt ne La vita della mente – nulla di ciò che è, nella misura in cui appare, esiste al singolare: tutto ciò che è, è fatto per essere percepito da qualcuno. Non l’Uomo, ma gli uomini abitano questo pianeta. La pluralità è la legge della terra».

Sulle tracce di Hannah Arendt


Marburg. Dalla finestra più alta della Alten Universitaet di Marburg, uno splendido palazzo medioevale sul limitare del centro storico, s’innalza una bandiera, bianca e blu, con l’immagine di una ragazza, il volto intenso, due profondi occhi scuri. “Hannah Arendt, studente qui, 1924-1925”
Sì, qui a Marburg Hannah Arendt arrivò diciottenne, piena di curiosità e di passione per la conoscenza. Arrivava da Koenigsberg, dove si era diplomata con un anno di anticipo. Già l’anno prima aveva fatto in tempo a seguire, a Berlino, le lezioni di Romano Guardini su Kierkegaard. Ma fu arrivando a Marburg che la sua vita cambiò. «A Marburg, nell’autunno del 1924 – scrive la sua biografa Elisabeth Young Bruehl – le toccò di trovarsi nel bel mezzo di una rivoluzione che l’appassionò profondamente, e che sarebbe stata decisiva per il suo sviluppo personale e intellettuale. Una rivoluzione non politica ma filosofica, che segnò la fine di un epoca. Il capo di questa rivoluzione era un giovane di trentacinque anni, già molto conosciuto tra gli studenti pur non avendo pubblicato nulla di veramente importante: Martin Heidegger. “Il re nascosto che regnava nel reame del pensiero”, scriverà la Arendt nel 1969, ricordando quegli anni».

I tesori parlano

«Le voci che attiravano gli studenti a Marburg dicevano che qui c’era finalmente chi era capace di toccare le cose che Husserl (padre della fenomenologia, ndr) aveva proclamato» ricorderà la Arendt. «Qualcuno che sapeva che queste cose non erano questioni accademiche, ma preoccupazioni di tutti gli uomini di pensiero, e non preoccupazioni di oggi e di ieri, ma da tempo immemorabile. Qualcuno che, precisamente perché sapeva che le vie della tradizione erano interrotte, stava scoprendo da capo il passato. Queste voci su Heidegger dicevano una cosa assai semplice: il pensiero è rinato a nuova vita, i tesori della cultura del passato, che si credevano morti, sono fatti parlare, e in questo processo si scopre che essi ci propongono qualcosa di totalmente diverso dalle banalità familiari e consunte che si presumeva dicessero. Perché qui c’è un maestro, e ora forse si può imparare a pensare».

Hannah, la musa di “Essere e tempo”

Hidegger era come il personaggio di una leggenda romantica: dotato di un talento al confine del genio, poetico, sdegnosamente in disparte nel mondo accademico e indifferente all’adulazione studentesca, bello in un suo modo severo, portava spesso i pantaloni alla zuava e d’inverno non vedeva l’ora di sciare.
Messa di fronte a questa unione di vitalità e di pensiero, Hannah fu “presa alla sprovvista”. E si innamorò, ricambiata. 
Le biografie raccontano di un incontro nello studio di Heidegger, nel quale il professore rimase affascinato dalla sua giovane allieva. E poi di incontri furtivi (Heidegger era sposato e padre di due figli), segnali segreti, come una finestra aperta o una lampada accesa, concordati per preparare gli appuntamenti. Ma anche di un’intensa passione intellettuale: Heidegger confidò ad Hannah che non avrebbe mai potuto scrivere il suo capolavoro, Essere e tempo, senza di lei. Hannah, dal canto suo, non dimenticò mai ciò che aveva imparato da Heidegger, neanche quando vi andò oltre. E non rinnegò mai il suo maestro, neanche quando – lei ebrea – lui aderì al nazismo.

Dimenticata

Probabilmente qui a Marburg, in quell’unione di vita e pensiero, Hannah Arent imparò, riconobbe, quello che la sua biografa, sintetizzando una vita in tre parole, chiama “l’amore per il mondo”. La capacità di stupirsi delle cose, di contemplare la bellezza, come origine del pensiero.
Oggi Marburg ricorda la Arendt con una bandiera sulla finestra più alta della Facoltà di Teologia; con un paio di citazioni sui libri che raccontano la storia dell’Ateneo; con un pannello all’interno di una mostra sulle donne famose dell’università, curata dalla locale commissione pari opportunità.
Con una targa sulla casa dove trovò una mansardina in affitto (sulla strada per il castello, da cui si gode di un magnifico panorama sulla cittadina).
Gli studenti di filosofia di oggi, però, (ci spiega Anna, milanese che qui a Marburg sta iniziando una tesi proprio su Hannah Arendt), sembrano preferire il neokantismo. E si trovano al Flw, locale di tendenza di ispirazione no global, tra una festa reggae e un concerto di gruppi stile Marilyn Manson. Intanto passando accanto al cimitero ebraico, a pochi passi dall’università in un sabato di pioggia, si vedono due tombe spezzate. Ed è un immagine che non lascia tranquilli.

Mai più a Marburg

Hannah Arendt partì da Marburg per fare un semestre di studio con Jaspers. Probabilmente la relazione stava diventando troppo pericolosa. E del resto anche Hannah (come scrisse in un testo intitolato Le ombre) da un lato non riusciva a sottrarsi alla dipendenza da Heidegger, dall’altro non riusciva, in questa relazione, ad essere veramente felice. A Marburg non sarebbe più ritornata. Ma la sua vita era cambiata, per sempre. Il destino ha voluto che Marburg e Heildelberg, entrambe teatro degli studi di Hannah Arendt dal ‘24 al ‘27 siano state entrambe salvate dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. E così, i paesaggi che vediamo sono gli stessi che vide Hannah. «Qui attorno molte città sono state rase al suolo», ci spiega Francesco, a Marburg per specializzarsi in chirurgia. E sono state ricostruite, quasi da zero. Te ne accorgi visitando il centro storico. Marburg no: il centro è ancora quello del medioevo, con le case asimmetriche, colorate, arrampicate sulla collina.
Stesso discorso per Heidelberg, salvata dalle bombe per la presenza di molti studenti americani (tuttora numerosi sulle rive del Neckar). A Marburg sono rimasti intatti i luoghi che fecero da sfondo agli studi della Arendt: intatto lo splendido castello, ai piedi del quale Hannah aveva trovato una stanza in affitto; intatta la chiesa gotica di S. Elisabetta, la santa regina d’Ungheria che a Marburg visse e fondò un ospedale; (Ora S. Elisabetta è una chiesa luterana); intatta la sede dell’Università, anch’essa, fondata nel 1527 in un ex convento domenicano, e nei cui chiostri hanno studiato, oltre alla Harendt, Gertrude von Le Fort (prima studentessa femmina a Marburg), Boris Pasternak, Josè Ortega Y Gasset, Emile von Bohering (premio Nobel per la medicina nel 1901).
E ad Heldelberg, dove Hannah si trasferì per laurearsi con Jaspers con una tesi sul concetto di amore in S. Agostino, il castello che domina la città è sì malridotto, ma per le cannonate francesi. Ed è lo stesso che Hannah ammirava quando passeggiava, ancora innamorata di Heidegger, per la romantica Philosphenweg la camminata dei filosofi.

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