1 ottobre Santa Teresa di Lisieux. Storia di un'anima. Preghiere


STORIA DI UN’ANIMA
di SANTA TERESA DI LISIEUX




L'AUDIO COMPLETO






SCRITTO AUTOBIOGRAFICO A
diretto a madre Agnese di Gesù (la sorella Paolina)



1. INFANZIA RADIOSA AD ALENCON (1873-1877)

Preambolo - Dolce clima domestico - Temperamento felice - L'inseparabile Celina - Gesto rivelatore - Diavoletti in sogno - In sintonia con la natura.


J.M.J.T. Gesù+ Gennaio 1895


STORIA PRIMAVERILE DI UN FIORELLINO BIANCO SCRITTA DA LUI STESSO E DEDICATA ALLA REVERENDA MADRE AGNESE DI GESÙ.


1 - A lei, Madre mia cara, a lei che mi è due volte madre confido la storia dell'anima mia... Quando lei mi chiese di far­lo, pensai: il cuore si dissiperà, occupandosi di se stesso; ma poi Gesù mi ha fatto sentire che, obbedendo con semplicità, avrei fatto piacere a lui; del resto, faccio una cosa sola: comin­cio a cantare quello che debbo ripetere eternamente: “Le mise­ricordie del Signore!”.
2 - Prima di prendere la penna, mi sono inginocchiata davanti alla statua di Maria (quella che ci ha offerto tante prove delle materne premure da parte della Regina del Cielo verso la nostra famiglia), l'ho supplicata che mi guidi la mano: nemmeno un rigo voglio scrivere che non piaccia a lei! Poi ho aperto il Vangelo, e lo sguardo è caduto su alcune parole: «Gesù salì sopra una montagna, e chiamò a sé quelli che volle: e andarono a lui» (s. Marco, cap. III, v. 13).
3 - Questo, proprio questo il mistero della mia vocazione, della mia vita tutta, e in particolare il mistero dei privilegi di Gesù sull'anima mia. Gesù non chiama quelli che sono degni, bensì chivuole lui, o, come dice san Paolo: «Dio ha pietà di chi vuole lui, ed usa misericordia a chi vuole lui. Non è dun­que opera di chi voglia né di chi corra, bensì di Dio che usa misericordia» (Ep. ai Rom., cap. IX, vv. 15-16).
4 - Per tanto tempo mi sono chiesta perché Dio abbia delle preferenze, perché tutte le anime non ricevano grazie in grado uguale, mi meravigliavo perché prodiga favori straordi­nari a Santi che l'hanno offeso, come san Paolo, sant'Agostino, e perché, direi quasi, li costringe a ricevere il suo dono; poi, quando leggevo la vita dei Santi che Nostro Signore ha carez­zati dalla culla alla tomba, senza lasciare sul loro cammino un solo ostacolo che impedisse di elevarsi a lui, e prevenendo le loro anime con tali favori da rendere quasi impossibile che esse macchiassero lo splendore immacolato della loro veste battesimale, mi domandavo: perché i poveri selvaggi, per esempio, muoiono tanti e tanti ancor prima di avere inteso pronunciare il nome di Dio?
5 - Ma Gesù mi ha istruita riguardo a questo mistero. Mi ha messo dinanzi agli occhi il libro della natura, ed ho capito che tutti i fiori della creazione sono belli, le rose magnifiche e i gigli bianchissimi non rubano il profumo alla viola, o la sem­plicità incantevole alla pratolina... Se tutti i fiori piccini voles­sero essere rose, la natura perderebbe la sua veste di primave­ra, i campi non sarebbero più smaltati di infiorescenze. Così è nel mondo delle anime, che è il giardino di Gesù. Dio ha voluto creare i grandi Santi, che possono essere para­gonati ai gigli ed alle rose; ma ne ha creati anche di più piccoli, e questi si debbono contentare d'essere margherite o violette, destinate a rallegrar lo sguardo del Signore quand'egli si degna d'abbassarlo. La perfezione consiste nel fare la sua volontà, nell'essere come vuole lui.
6 - Ho capito anche un'altra cosa: l'amore di Nostro Signore si rivela altrettanto bene nell'anima più semplice la quale non resista affatto alla grazia, quanto nell'anima più sublime; in realtà, è proprio dell'amore umiliarsi, e se tutte le anime somigliassero ai santi Dottori, i quali hanno rischiarato la Chiesa con i lumi della loro dottrina, parrebbe che Dio misericordioso non discendesse abbastanza per raggiungerli; ma egli ha creato il bimbo il quale non sa nulla e si esprime sol­tanto con strilletti deboli deboli; ha creato il selvaggio il quale, nella sua totale miseria, possiede soltanto la legge naturale per regolarsi; e Dio si abbassa fino a loro! Anzi, sono questi i fiori selvatici che lo rapiscono perché sono tanto semplici.
7 - Abbassandosi fino a questo punto, Dio si mostra infi­nitamente grande. Allo stesso modo in cui il sole illumina i grandi cedri ed i fiorucci da niente come se ciascuno fosse uni­co al mondo, così Nostro Signore si occupa di ciascuna anima con tanto amore, quasi fosse la sola ad esistere; e come nella natura le stagioni tutte sono regolate in modo da far sbocciare nel giorno stabilito la pratolina più umile, così tutto risponde al bene di ciascun'anima.
8 - Certamente, Madre cara, lei si domanda dove io voglia arrivare, perché finora non ho detto parola che somigli alla storia della mia vita, ma lei mi ha chiesto di scrivere libera­mente quello che mi viene al pensiero, perciò io non raccon­terò la mia vita vera e propria, bensì i miei pensieri riguardo alle grazie che Dio mi ha concesse. Mi trovo a un punto della mia esistenza dal quale posso guardare il passato; l'anima mia si è maturata tra prove esterne e interne, ora, come un boccio rafforzato dalla tempesta, mi risollevo, e vedo che in me si verificano le parole del Salmo XXII «il Signore è il mio Pastore, nulla mi può mancare. Mi fa riposare nelle pasture fresche e ricche. Mi guida dolcemente lungo il fiume. Conduce l'anima mia senza stancarla... E quand'anche scenderò nella valle ombrosa della morte, non temerò danno, perché tu sarai con me, Signore!».
9 - Sempre il Signore è stato pieno di compassione per me, e di dolcezza... Lento a punire e abbondante in misericor­die! (Salmo CII, v. 8). Così, Madre mia, sono felice di cantare vicino a lei la misericordia del Signore. Per lei sola scriverò la storia del frore umile colto da Gesù, e parlerò abbandonandomi, senza preoccuparmi dello stile, o delle tante digressioni che farò. Un cuore di mamma capisce sempre il suo bimbo, anche se questo balbetta soltanto, e perciò sono sicura di esse­re capita, indovinata da lei: è lei che mi ha formato il cuore, e l'ha offerto a Gesù!
10 - Mi pare che, se un fiorellino potesse parlare, direb­be, con gran semplicità, ciò che il Signore ha fatto per lui e non cercherebbe di nascondere i benefici divini. Per falsa modestia, non direbbe: «Sono sgraziato, non ho profumo, il sole ha portato via il mio splendore, la bufera ha infranto il mio stelo» quando riconoscesse in sé tutto il contrario.
11 - Il fiore che racconta qui la sua storia si rallegra per­ché farà conoscere le premure tutte gratuite di Gesù; non ha niente lui - e lo sa bene - che possa attrarre lo sguardo di Dio, ed anche sa che la sola misericordia divina ha fatto tutto il buono esistente in lui. L'ha fatto nascere in una terra santa, e quasi permeata da un profumo verginale. L'ha fatto precedere da otto gigli sfolgoranti di candore. Nel suo amore, ha voluto preservare il fiore umile dal soffio velenoso del mondo; stava­no appena per aprirsi i petali, e il Salvatore l'ha trapiantato sulla montagna del Carmelo, ove già olezzavano due gigli: proprio quei due che l'avevano avvolto e cullato dolcemente al suo primo germogliare… Sette anni sono trascorsi da quando il fiore si è radicato nel giardino dello Sposo dei vergini, ed ora vicine a lui ondulano tre corolle fragranti; non lontano, un'altra si apre allo sguardo di Gesù, ed i due steli benedetti che le hanno prodotte sono riuniti per sempre nella Patria divina. Là hanno ritrovato i quattro gigli che la terra non ha visti fiorire. Oh, che Gesù voglia non lasciare a lungo sulla riva straniera coloro che sono rimaste nell'esilio: che ben pre­sto tutto il cespo bianco sia completo nel Cielo!
12 - Madre mia, ho riassunto in poche parole ciò che il Signore ha fatto per me, ora mi addentrerò nella mia vita di bimba; so che là, dove chiunque altro non vedrebbe se non una tiritera noiosa, il suo cuore di mamma troverà un fascino. E poi, i ricordi che evocherò sono anche i suoi, perché l'infanzia mia è trascorsa vicina a lei, ed io ho la fortuna d'appartenere ai genitori ineguagliabili i quali ci hanno avvi­luppate delle stesse premure e di uguale tenerezza. Benedicano essi la minima delle loro figlie e l'aiutino a cantare le miseri­cordie di Dio!
13 - Nella storia dell'anima mia fino a quando sono entrata nel Carmelo, distinguo nettamente tre periodi: il pri­mo, nonostante la brevità, non è il meno fecondo di ricordi: dall'iniziale destarsi della mia mente al transito della nostra Mamma amata.
14 - Per tutta la mia vita è piaciuto a Dio circondarmi d'amore, i primi ricordi sono sorrisi e carezze tenerissime: ma, se egli mi aveva messo intorno tanto amore, me ne aveva posto anche nel cuore, creandolo amante e sensibile; così amavo gran­demente Papà e Mamma e dimostravo il mio affetto in mille modi, perché ero molto espansiva. Soltanto i mezzi che usavo erano talvolta strani, come lo prova questo passo di una lettera di Mamma: «La piccina è un furicchio impagabile, mi ha carezzata augurandomi la morte: "Oh, come vorrei che tu morissi, povera Mammina mia!..."; la rimbrottano e lei mi fa: "Ma è perché tu possa andare in Cielo, giacché tu dici che bisogna morire per andarci!". E in modo simile augura la mor­te al Babbo, quand'è nei suoi trasporti d'amore».
15 - Il 25 giugno 1874, avevo appena diciotto mesi, ecco ciò che Mamma diceva di me: «Papà ha installato un'altalena, Celina è felice a più non posso, ma bisogna vedere la piccina quando si dondola: è buffissima, si regge come una bimba grande, non c'è pericolo che lasci la corda, poi quando non va abbastanza forte, grida. L'attacchiamo davanti con un'altra corda e, nonostante questo, non sono tranquilla quando la vedo issata lì sopra.
16 - M'è accaduta un'avventura curiosa ultimamente con la piccina. Ho l'abitudine di andare alla Messa delle cinque e mezzo, nei primi giorni non osavo lasciarla, ma vedendo che non si svegliava mai, ho finito per decidermi. La metto nel let­to mio, e accosto la culla in modo che lei non possa cadere. Un giorno dimentico di avvicinare la culla. Ritorno, la piccina non c’è più: nello stesso attimo odo uno strilletto, guardo, la vedo seduta sopra una seggiola accanto al letto, con la testina appoggiata al traversino, e dormiva agitata per la posizione scomoda. Non ho ancora capito come abbia potuto cadere seduta su una seggiola, dal momento che era distesa. Ho rin­graziato Iddio che non le sia capitato nulla, è un fatto provvi­denziale davvero, avrebbe dovuto ruzzolare per terra, il suo Angelo ha vegliato, e le anime del purgatorio, che invoco per lei tutti i giorni, l'hanno protetta: io lo accomodo così, questo fatto... Voi accomodatelo come vi pare!...».
17 - Alla fine della lettera, Mamma aggiungeva: «Ecco la piccina, che mi mette le manotte su' viso e mi abbraccia. Povera bimba, non mi vuole lasciare, sta sempre con me; le piace tanto andare in giardino, ma se non ci vado anch'io, non ci rimane, e piange fino a quando me la riportano». Ecco un altro tratto di un'altra lettera: «L’altro giorno Teresa mi domanda se andrà in Cielo: le dico di si, se è proprio buona; mi risponde: "Sì, ma se non fossi proprio buona buona, andrei all'inferno... ma io lo so cosa farei: scapperei su con te, che saresti in Cielo, come fareb­be il buon Dio per prendermi? Tu mi reggeresti forte tra le braccia...". Ho letto nei suoi occhi: è convinta che il buon Dio non le può fare nulla se è tra le braccia della Mamma».
18 - «Maria ama molto la sorellina, la trova deliziosa e la piccolina ha un gran timore di farle dispiacere. Ieri le volli dare una rosa perché sapevo che lei ne è felice, ma si è messa a supplicarmi di no, diceva: "Maria ha proibito di tagliarle", era rossa per il gran sottosopra, nonostante ciò gliene ho date due, non osava più tornare a casa. Avevo un bel dirle che le rose sono mie, "ma no - diceva lei -, sono di Maria".
19 - È una bambina che si emoziona facilmente. Appena ha fatto un piccolo malestro, bisogna che lo sappiano tutti. Ieri aveva fatto cadere senza volere un pezzetto di tappezzeria, era in uno stato da far pietà, poi bisognava dirlo subito a Papà; lui arrivò quattr'ore dopo, nessuno ci pensava più, ma lei corse da Maria: "Svelta, dì a Papà che ho strappato la carta". Rimane lì come un criminale in attesa della sentenza, ma ha nella sua testolina l'idea che le sarà perdonato più facilmente se lei stes­sa si accusa».
20 - Amavo tanto la mia Madrina. Senza parere, stavo attentissima a tutto quello che dicevano e facevano intorno a me, mi pare che giudicavo le cose come adesso. Ascoltavo con grande premura ciò che Maria insegnava a Celina, per fare come lei; dopo che uscì dalla Visitazione, ero buona buona e facevo tutto quello che voleva lei, per ottenere la grazia d'esse­re ammessa nella stanza durante le lezioni che dava a Celina; e lei mi faceva tanti regalini che, pur essendo di poco valore, mi davano gran contentezza.
21 - Ero fierissima delle mie sorelle grandi, ma quella che era il mio ideale di bimba, era Paolina... Quando cominciai a parlare, se Mamma mi domandava: «A che pensi?» la risposta non cambiava mai: «A Paolina». Un'altra volta lasciavo scorrere il ditino sui vetri e dicevo: «Scrivo: Paolina! ...». Spesso udi­vo dire che Paolina certamente si sarebbe fatta religiosa: allora pensavo, senza sapere bene di che si trattasse: “Sarò religiosa anch’io”. Quello è uno dei miei primi ricordi, e da allora non ho cambiato mai risoluzione. Fu lei, Madre cara, che Gesù scelse per fidanzarmi con lui; lei a quel tempo non era presso me, ma già un legame si era formato tra le nostre anime: era il mio ideale, volevo somigliare a lei, e fu il suo esempio che dall'età di due anni mi attirò verso lo Sposo delle vergini. Oh, quante dolci riflessioni vorrei confidarle! Ma debbo continua­re la storia del fiorellino, la sua storia completa e generale, per­ché se volessi parlare minutamente delle mie relazioni con Paolina, dovrei tralasciare tutto il resto!
22 - La mia cara Leonia occupava anche lei un gran posto nel cuore mio. Mi voleva molto bene. La sera era lei che mi custodiva quando tutta la famiglia andava a passeggiare. Mi pare di ascoltare ancora le belle canzoncine che cantava per addormentarmi... in tutte le cose cercava il modo per farmi piacere, cosicché sarei stata ben triste se l'avessi contrariata.
23 - Ricordo distintamente la sua prima Comunione, soprattutto il momento in cui mi prese in braccio per farmi entrare nel presbiterio; mi pareva meraviglioso di essere porta­ta così da una sorella grande tutta bianca come me! La sera mi misero a letto per tempo, ero troppo piccola per restare al gran pranzo, ma vedo ancora Papà che, dopo il dolce, venne a portarne un pezzetto alla sua reginetta... Il giorno dopo, o pochi giorni dopo, andammo con Mamma dalla piccola com­pagna di Leonia; mi pare fosse quel giorno che la nostra Mam­ma tanto cara ci condusse dietro un muro per farci bere un pochino di vino dopo il pranzo (che ci aveva allestito la povera signora Dagoran) perché non voleva mortificare la buona donna, ma anche voleva che non ci mancasse niente. Com'è delicato il cuore di una mamma, e come traluce la sua tenerez­za in mille premure alle quali nessuno penserebbe!
24 - Ora mi resta da parlare di Celina cara, la mia compa­gnetta d'infanzia, ma ecco i ricordi in tanta folla che non so quale scegliere! Caverò qualche brano dalle lettere che Mam­ma scriveva alla Visitazione, ma non copierò tutto, sarebbe troppo lungo... ll 10 luglio 1873, anno della mia nascita, dice­va: «Giovedì la balia ha portato qui Teresina, la quale non ha fatto che ridere, soprattutto le piaceva Celina, faceva gran risa­te con lei; si direbbe che abbia già voglia di giocare, e presto lo farà, sta ritta sulle gambette, rigida come un palettino. Credo che camminerà presto e che sarà di buon carattere, pare molto intelligente e ha un visino da predestinata. Ma soprattutto dopo che da balia tornai a casa, rivelai il grande affetto per la mia Celina. C'intendevamo a meraviglia, soltanto io ero assai più vivace e meno ingenua di lei; benché avessi tre anni e mezzo di meno, mi pareva di essere della stes­sa età.
25 - Ecco un brano di una lettera di Mamma che le mostrerà Celina dolce e me cattiva: «La mia Celina è proprio disposta alla virtù, è il sentimento intimo del suo essere, ha un'anima candida ed ha orrore del male. Quanto al furicchio, non si sa come butterà. E un cosino tanto piccino e tanto stor­dito! E anche più intelligente di Celina, ma meno dolce assai, e soprattutto di un'ostinazione quasi invincibile; quando dice no, niente da fare; la metti in cantina tutta una giornata, lei ci dorme piuttosto che dire "sì"
26 - Però ha un cuore d'oro, ed è tanto carezzevole e molto franca; è curioso vederla quando mi corre dietro per far­mi le sue confessioni: - Mamma, ho dato una spinta a Celina, una sola, e le ho dato un colpetto, ma non lo faccio più. (Così per tutto quel che fa). Giovedì sera andammo a passeggiare verso la stazione, in tutti i modi volle entrare nella sala d'aspet­to per cercare Paolina, mi correva avanti con una gioia che metteva l'allegria anche a me, ma quando vide che bisognava tornarsene a casa senza salire in treno per andare a cercare Paolina, pianse per tutta la strada...».
27 - Queste ultime righe mi ricordano la felicità di quan­do la vedevo tornare dalla Visitazione: lei, Madre, prendeva in braccio me, Maria prendeva Celina; allora io le facevo cento carezze, e mi sporgevo dietro per ammirare la sua grande trec­cia, poi mi dava una tavoletta di cioccolata che aveva conserva­ta per tre mesi. Pensi un po' che reliquia era per me! Ricordo anche il viaggio che feci a Le Mans, era la prima volta che andavo in treno. Che gioia viaggiar sola con Mamma! Però, mi misi a piangere, non so più perché, e la povera Mamma mia non poté presentare alla zia di Le Mans altro che un cosino brutto e tutto rosso dalle lacrime versate in viaggio. Non mi è rimasto nessun ricordo del parlatorio, ma soltanto del momen­to in cui la zia mi porse un topino bianco e un panierino di carta bristol pieno di dolcini e sui quali troneggiavano due anelli di zucchero, proprio grossi come il mio dito; gridai subi­to: «Che bellezza! C'è un anello anche per Celina». Oh, scia­gura! prendo il panierino per il manico, do l'altra mano a Mamma, e partiamo; dopo qualche passo, guardo il paniere e vedo che i dolci sono tutti seminati per la via, come i Sassetti di Puccettino... Guardo meglio, e vedo che uno dei due anelli ha subito il destino tragico dei dolci: non c'è più nulla per Celina! Allora il dolore erompe, chiedo di tornare indietro, Mamma non mi dà retta, e questo è troppo, alle lacrime succe­dono i gridi... non capivo come mai non condividesse il mio dolore e per questo soffrivo molto di più!...
28 - Ritorno alle lettere nelle quali Mamma le parla di Celina e di me, è il miglior modo per farle conoscere il mio carattere. Ecco un brano nel quale i miei difetti brillano di vivo splendore: «Celina si diverte con la piccina al gioco dei cubi, bisticciano di quando in quando, Celina cede per avere una perla alla sua corona. Sono costretta a correggere quella povera piccolina che va in furie paurose; quando le cose non vanno secondo le sue idee, si rotola per terra come una dispe­rata credendo tutto perduto, ci sono momenti in cui è più for­te di lei, ne è come soffocata. E una bambina molto nervosa, eppure è deliziosa e intelligentissima, si ricorda di tutto».
29 - Vede dunque, Madre mia, quant'ero distante dall'esse­re una bambina senza difetti! E nemmeno potevano dire di me che stessi buona quando dormivo, perché la notte era ancor piu movimentata che il giorno, buttavo via tutte le coperte, e poi (sempre dormendo) battevo dei colpi contro il legno del mio let­tino, il dolore mi risvegliava. Allora dicevo: «Mamma, sono "pic­chiata"»Povera Mamma, era costretta ad alzarsi e costatava che davvero avevo dei bernoccoli alla fronte, ero “picchiata”; mi copriva bene, poi tornava nel suo letto, ma dopo un minuto io ricominciavo ad essere «picchiata», tanto che dovettero legarmi nel lettino. Sera per sera, Celina veniva ad annodare i numerosi cordoni destinati ad impedire al furicchio di farsi i bernoccoli e di svegliare Mamma, e questo mezzo riuscì bene, diventai saggia dormendo.
30 - Ma c'era un altro difetto che avevo (da sveglia) e di cui Mamma parla nelle sue lettere, era un grande amor pro­prio. Ne do due esempi soli per non allungare troppo il rac­conto. Un giorno Mamma mi disse: «Teresina, se tu baci la ter­ra, ti do un soldo». Un soldo! Era la ricchezza per me! Per impadronirmene mi bastava abbassare la mia altezza, giacché la mia statura minima non frapponeva gran distanza tra me e la terra, e tuttavia la mia fierezza si ribellò all'idea di baciar la terra: dritta indomita dissi a Mamma: «Oh no, Mammina mia, preferisco fare a meno del soldo».
31 - Un'altra volta dovevamo andare a Grogny dalla signora Monnier. Mamma disse a Maria di mettermi un bel vestitino azzurro-cielo ornato di trine, ma di non lasciarmi le braccia nude affinché il sole non me le brunisse. Mi feci vestire con l'indifferenza che dovevano avere le bimbe dell'età mia, ma intimamente pensavo che sarei stata molto più carina con le mie braccine nude. Con una natura come la mia, se fossi sta­ta educata da genitori privi di virtù, oppure se, come Celina, fossi stata viziata da Luisa, sarei diventata un cattivo arnese, e, forse, mi sarei perduta.
32 - Ma Gesù vegliava sulla sua piccola fidanzata, ha volu­to che tutto volgesse al bene di lei; perfino i difetti che, repressi per tempo, le sono serviti per crescere nella perfezione... Poiché avevoamor proprio ed anche amor del bene, appena cominciai a pensare seriamente (e ho cominciato piccina piccina), bastava che mi dicessero: questo non è bene, che io non me lo facevo ripetere due volte. Vedo con piacere dalle lettere di Mamma che, crescendo, le davo più consolazione. Avevo soltanto buoni esempi intorno a me: naturalmente, volevo seguirli. Ecco ciò che scriveva nel 1876: “Perfino Teresa vuol prender parte a fare delle "pratiche". E’ una bimba incantevole, fina come l'ombra, molto vivace, ma il cuore è sensibile.
33 - Celina e lei si vogliono un gran bene, si bastano reci­procamente per non annoiarsi: tutti i giorni, appena abbiamo finito il pranzo, Celina va a prendere il suo galletto, poi acchiappa a un tratto la gallinella di Teresa; io non ce la faccio, ma lei è così svelta che al primo balzo la piglia; poi arrivano tutt'e due al cantuccio del fuoco, e si divertono così per un gran tempo. [Era la Rosina che mi aveva regalato gallina e galletto, io avevo regalato il gallo a Celina]. L'altro giorno Celi­na ha dormito con me. Teresa ha dormito al piano di sopra nel letto di Celina, ha supplicato Luisa di portarla giù perché la potessimo vestire. Luisa sale per prenderla, trova il letto vuoto. Teresa ha inteso Celina ed è discesa con lei. Luisa le dice: "Non vuoi venire a farti vestire?". "Oh, no, povera Luisa, sia­mo come i due polli, non ci possiamo separare!,,. E mentre dicevano così, si abbracciavano. Poi, la sera, Luisa, Celina e Leonia sono andate al circolo cattolico e hanno lasciato a casa questa povera Teresa la quale si rendeva conto benissimo di esser troppo piccola per andare anche lei; e diceva: "Oh, basterebbe che mi mettessero nel letto di Celina!". Ma no, non ce l'hanno messa... non ha detto più nulla, è rimasta sola col suo lumino e dopo un quarto d'ora se ne dormiva d'un sonno profondo».
34 - Un altro giorno Mamma scriveva: «Celina e Teresa sono inseparabili, non si possono vedere due bimbe che si vogliano più bene. Quando Maria viene a prendere Celina per darle lezione, Teresa, più piccina, è tutta in lacrime. Ahimè che sarà di lei, l'amichetta se ne va! Maria si muove a compassione, prende anche lei, e la povera bimba rimane issata sopra una seggiola per due o tre ore; le danno delle perline da infilare o un pezzetto di stoffa da ricamare, lei non osa muoversi e spes­so fa dei gran sospironi. Quando l'ago si sfila, fa di tutto per rinfilarlo, è curioso vederla mentre non le riesce, e che non osa disturbar Maria; poco dopo due lacrimoni grossi scendono sulle gotine. Maria la consola subito, rinfila l'ago, e il povero angiolino sorride attraverso le lacrime...».
35 - Infatti, ricordo che non potevo restare senza Celi­na, preferivo uscir da tavola prima d'aver finito il dolce piut­tosto che non seguirla, appena lei si alzava. Mi dibattevo sul mio seggiolone chiedendo che mi mettessero giù, e poi: via, a giocare insieme; qualche volta andavamo dalla piccola «pre­fetta», ciò che mi piaceva molto a causa del parco e di tutti i bei giocattoli che ci faceva vedere, ma in realtà ci andavo più che altro per far piacere a Celina, perché avrei preferito restare nel nostro giardinetto a grattare i muri, dai quali stac­cavamo tutte le pagliuzze brillanti che vi si trovavano per poi andare a venderle a Papà nostro, e lui le comperava con gran­de serietà.
36 - La domenica, essendo troppo piccola per andare alle funzioni, Mamma rimaneva per badarmi; ero buona buona e camminavo in punta di piedi durante il tempo della Messa, ma appena vedevo la porta che si apriva, era una esplosione di gioia senza pari; mi precipitavo incontro alla mia bella sorelli­na, che ritornava «ornata a festa come una cappella» e le dice­vo: «Oh Celinetta mia, svelta, dammi il pane benedetto!». A volte non ce l'aveva perché era arrivata tardi... Come si fa, allora? Impossibile rinunciarvi: era la «mia messa»! Il rime­dio è trovato subito: «Non hai pane benedetto! Ebbene, fan­ne!». Detto, fatto: Celina prende una seggiola, apre l'armadio, acchiappa il pane, ne taglia un boccone e molto seriamente ci recita sopra un'Ave Maria poi me l'offre, e io, dopo fatto il segno della Croce, lo mangio con grande devozione e scopro proprio il sapore del pane benedetto... Spesso facevamo insie­me delle conferenze spirituali. Ecco un esempio, anche questo preso dalle lettere di Mamma: «Le nostre due care bimbe Celi­na e Teresa sono angeli di benedizione, nature di paradiso. Teresa è la gioia, la felicità di Maria, e la sua gloria, è incredibi­le come Maria ne è fiera. È vero che ha delle uscite rare alla sua età, supera Celina che ha il doppio di anni. L'altro giorno Celina diceva: "Ma come può essere che il buon Dio sia in una Ostia tanto minuscola?". La piccina: "Non è tanto strano, poi­ché Dio è onnipotente". "Che vuol dire onnipotente?". "Ma che può fare tutto quello che vuole!"».
37 - Un giorno Leonia, pensando di essere troppo grande per giocare con la bambola, venne da noi due con un paniere pieno di vestiti e di pezzetti belli di stoffa per farne altri; su queste ricchezze stava distesa la bambola. «Prendete, sorelline, scegliete, vi do tutto». Celina allungò la mano e prese un pac­chetto di gale che le piacevano. Io riflettei un attimo, poi anch'io allungai la mano e dissi: «Io scelgo tutto!», e presi il paniere senza tanti complimenti; quelli che assistevano alla scenetta trovarono la cosa molto giusta, e la stessa Celina non si sognò di protestare (bisogna dire che i giocattoli non le mancavano, il suo padrino la colmava di regali, e Luisa tro­vava il modo di procurarle tutto quello che desiderava). Questo minimo tratto della mia infanzia è il riassunto di tutta la vita mia; più tardi, quando la perfezione mi apparve, capii che, per diventare una santa, bisognava soffrir molto, cer­car sempre il più perfetto e dimenticar se stessi; capii che ci sono molti gradi nella perfezione, e che ciascun'anima è libera di rispondere agli inviti di Nostro Signore, di far poco o molto per lui, insomma di scegliere tra i sacrifici che egli chiede. Allo­ra, come ai giorni della mia prima infanzia, esclamai: «Dio mio, scelgo tutto. Non voglio essere una santa a metà, non ho paura di soffrire per Voi, temo una cosa sola, cioè di conservare la mia volontà: prendetela, perché scelgo tutto quello che Voi volete...».
38 - Bisogna che mi fermi, non devo ancora parlarle della mia giovinezza, bensì del furicchio di quattro anni. Mi ricordo di un sogno che mi capitò verso quell'età e che si incise profon­damente nella mia immaginazione. Una notte sognai che uscivo per andare a spasso, in giardino, sola. Giunta agli scalmi che bisognava salire per arrivarvi, mi fermai spaventata. Davanti a me, vicino alla pergola c'era un barile di calce, e su questo barile due orribdi diavolini ballavano con agilità sorprendente nono­stante i ferri da stiro che avevano ai piedi; a un tratto lanciarono verso di me i loro sguardi fiammeggianti, poi, nello stesso momento, parvero assai più spaventati di me, si precipitarono giù dal barile, e andarono a nascondersi nella lavanderia ch'era di faccia. Vedendoli così poco coraggiosi volli vedere cos'anda­vano a fare, e mi avvicinai alla finestra. I diavolini erano li, corre­vano sulle tavole e non sapevano come fare per fuggire il mio sguardo; a momenti si avvicinavano alla finestra, guardavano inquieti se ero ancor li, e, vedendomi, ricominciavano a correre come disperati. Certo, questo sogno non ha nulla di straordina­rio, eppure io credo che il Signore mi abbia permesso di ricor­darmene per provarmi che un'anima in stato di grazia non ha nulla da temere dai demoni i quali sono vigliacchi, capaci di fug­gire davanti allo sguardo di una bambina.
39 - Ecco un altro passo di una lettera di Mamma. Già quella povera Madre presentiva la fine del suo esilìo: «Le due piccole non mi preoccupano, sono tanto care tutte due, sono nature scelte, certamente saranno buone. Maria e tu potrete educarle perfettamente. Celina non commette mai la minima colpa volontaria. La piccina sarà buona anche lei, non direbbe una bugia per tutto l'oro del mondo, e ha spirito come non ne ho visto a nessuna di voi. L’altro giorno era dal pizzicagnolo, con Celina e Luisa, parlava delle sue "pratiche" e discuteva a voce alta con Celina; la padrona ha detto a Luisa: "Ma che vuol dire, quando gioca in giardino, non si sente parlar che di 'pratiche'? La signora Gaucherin allunga la testa dalla finestra per cercar di capire quel che vuol dire questa discussione sulle pratiche...". Cara piccina! Forma la nostra gioia, sarà buona, gia si vede il germe; non parla che di Dio, non mancherebbe alle sue pre­ghiere per niente al mondo. Vorrei che tu la vedessi recitare una favoletta, non ho visto mai cosa tanto gentile, trova da sé l'espressione e il tono, ma soprattutto quando dice: "Bimba pic­cina dalla testa bionda, dove credi che sia Dio?", quando è a: "Lassù nel Cielo blu" volge in alto lo sguardo con una espres­sione di angelo. Non ci stanchiamo di farglielo dire, tanto è bel­lo, c'è nello sguardo di lei un che di celeste che rapisce...».
40 - Oh, Madre mia! Come ero felice a quella età! Già cominciavo a godere della vita, la virtù aveva un fascino per me, ed ero, mi pare, nelle medesime disposizioni nelle quali mi trovo ora, avendo già una grande padronanza sulle mie azioni. Ah, come sono passati rapidi gli anni solatii della prima infan­zia, ma che impronta dolce mi hanno lasciata nell'anima! Ricordo con gioia i giorni in cui Papà ci conduceva al «padi­glione», ho ancora scolpiti nel cuore i minimi particolari... Ricordo soprattutto le passeggiate della domenica: Mamma ci accompagnava sempre. Rivivo ancora i sentimenti profondi e poetici che nascevano nell'anima mia alla vista dei campi di grano smaltati di frordalisi e di fiori campestri. Già amavo gli orizzonti lontani; lo spazio e gli abeti giganti i cui rami toccavano terra mi lasciavano un impressione simile a quella che anco­ra oggi provo contemplando la natura... Spesso durante quelle lunghe passeggiate incontravamo dei poveri, ed era sempre Teresa piccina a ricevere l'incarico di portare l'elemosina, e come ne era felice! Ma spesso Papà pensava che il cammino fosse troppo lungo per la reginetta, e la riconduceva a casa prima delle altre (con grande dispiacere per lei). Allora, per con­solarla, Celina riempiva di margherite un bel panierino, glielo dava al ritorno; senonché, ecco la povera Nonnina, la quale trovava che la nipote ne avesse fin troppe, e ne prendeva lei una buona parte per la sua Madonna. Questo non piaceva a Teresa, ma lei si guardava bene dal dirlo perché aveva preso la gran buona abitudine di mai lamentarsi, nemmeno quando le togliessero le cose sue o l'accusassero ingiustamente. Non era merito da parte sua, bensì virtù naturale. Che peccato che questa buona disposizione sia svanita!
41 - In verità, tutto mi sorrideva sulla terra. Trovavo un fiore sotto ciascun passo, e il mio carattere felice contribuiva a rendermi gradevole la vita; tuttavia un nuovo periodo comin­ciava per l'anima mia. Sarei passata attraverso la prova; avrei sofferto fin dall'infanzia per potere essere offerta più presto a Gesù. Al modo stesso in cui i fiori di primavera cominciano a germogliare sotto la neve e sbocciano ai primi raggi, così il fio­re umile del quale scrivo i ricordi ha dovuto passare attraverso l'inverno della sofferenza.


2. L'OMBRA CUPA DELLA SOFFERENZA (1877-1881)

Malattia e morte della mamma - Perdita della naturale vivacita' - Trasferimento della famiglia a Lisieux - Serena vita ai Buissonnéts - Saggia educazione e prima istruzione scolastica - Visione misteriosa - Il mare.

42 - Tutti i particolari della malattia della nostra Madre tanto cara sono presenti al mio cuore, ricordo soprattutto l'ulti­ma settimana che passò sulla terra; eravamo, Celina e io, come povere piccole esiliate, tutte le mattine la signora Leriche veni­va a prenderci, e passavamo la giornata da lei. Un giorno non avevamo avuto il tempo di fare la nostra preghiera prima di uscir di casa e durante il tragitto Celina mi disse piano: «Dob­biamo dire che non abbiamo fatto la nostra preghiera?». - «Oh, si!» le risposi: allora lo raccontò molto timidamente alla signora Leriche, e questa concluse: «Ebbene, figliette mie, ora la dire­te». Poi ci mise tutte due in una grande stanza e se ne partì... Celina mi guardò e dicemmo: «Ah! non è come Mamma. Lei ce la faceva fare sempre la nostra preghiera!». Quando giocavamo con i bimbi, ci perseguiva il pensiero della nostra Mamma cara, una volta Celina aveva avuto una bella albicocca, si chinò verso di me, e mi disse piano: «Non la mangiamo, la do alla Mamma». Ahimè! Povera Mamma tanto cara, era già troppo malata per mangiare i frutti della terra, non doveva più saziarsi se non in Cielo della gloria divina ebere con Gesù il vino misterioso del quale parla nell'ultima sua Cena, quando dice che lo condivi­derà con noi nel regno del Padre suo. Il rito commovente della Estrema Unzione mi si im­presse nell'anima, vedo ancora il posto mio accanto a Celina, eravamo tutte e cinque per ordine d'età e c'era il caro povero Babbo: singhiozzava.
43 - Il giorno stesso, o l'indomani, del transito di Mamma egli mi prese tra le braccia e mi disse: «Vieni a dare un ultimo bacio alla tua povera Mamma»; senza dir nulla accostai le lab­bra alla fronte di mia Madre tanto amata. Non ricordo d'aver pianto molto, non parlavo con nessuno dei sentimenti profon­di che provavo. Guardavo e ascoltavo... nessuno aveva tempo per occuparsi di me, perciò vedevo bene le cose che avrebbero voluto nascondermi; una volta mi trovai di fronte al coperchio della bara; mi fermai lungamente ad osservarlo, non ne avevo mai visti, e tuttavia capivo... Ero tanto piccina che, nonostante la statura non alta di Mamma, ero costretta ad alzar la testa per vedere la parte superiore, e mi pareva tanto grande. tanto trt­ste... Quindici anni dopo mi trovai dinanzi a un'altra bara, di Madre Genoveffa, era uguale a quella di Mamma e io mi cre­detti ancora ai giorni dell'infanzia! Tutti i ricordi sciamarono in folla, era pur la stessa Teresina di allora che guardava, ma nel frattempo era cresciuta e la bara le pareva piccola; non occorreva più sollevare la testa per vederla. Ora alzava il viso soltanto per contemplare il Cielo che le appariva pieno di gioia, perché tutte le sofferenze di lei erano finite e l'inverno dell'anima sua era passato per sempre.
44 - Il giorno in cui la Chiesa benedisse le spoglie mortali della nostra Mammina del Cielo, il buon Dio volle darmene un'altra sulla terra, e volle che la scegliessi liberamente. Erava­mo tutte e cinque riunite, ci guardavamo con tristezza, c'era anche Luisa, e vedendo Celina e me, esclamò: «Povere piccine, non avete più Mamma...!». Allora Celina si gettò nelle braccia di Maria, dicendo: «Ebbene sarai tu la mia mamma!». Io ero avvezza a fare come lei, e tuttavia mi volsi a lei, Madre, e quasi già si fosse diradato il velame dell'avvenire, mi gettai nelle sue braccia: «Ebbene, sarà Paolina la mia mamma!...».
45 - Come ho già detto, da quel tempo entrai nel secondo periodo della mia esistenza, il più doloroso dei tre, soprattutto dopo l'ingresso nel Carmelo di colei che avevo scelta come mia seconda mamma. Questo periodo va dai miei quattro anni e mezzo fino ai quattordici, cioè fino a quando ritrovai il mio carattere di bimba pur entrando nel periodo serio della vita. Bisogna che le dica, Madre mia, che il mio carattere felice mutò totalmente dopo la morte di Mamma; vivace ed espansiva com’ero, divenni timida e dolce, sensibile fin troppo. Basta­va uno sguardo per farmi piangere, bisognava che nessuno si occupasse di me perché fossi contenta, non sopportavo la compagnia degli estranei e ritrovavo la mia gaiezza soltanto nell'intimità della famiglia... Eppure, ero avviluppata ancora dagli affetti più delicati. Il cuore così ricco di Papà aveva unito all'amore che già mi dava, un amore veramente materno. E lei, Madre mia, e Maria, le mamme più tenere,più disinteressate! Ah, se il Signore non avesse profuso i suoi benefici raggi al suo fiore umile, questo non si sarebbe acclimatato sulla terra: trop­po debole era ancora per sopportare pioggia e tempeste, aveva bisogno di calore, di guazza fresca, di respiro primaverile. Non gli mancarono mai questi doni, Gesù glieli fece trovare fin sot­to il ghiaccio della prova.
46 - Non soffrii lasciando Alencon. I bimbi gradiscono i cambiamenti; e io venni a Lisieux con piacere. Ricordo il viag­gio, l'arrivo, a sera, presso la zia, vedo ancora Giovanna e Maria sulla porta, ad aspettarci. Ero felice di avere delle cugi­nette tanto care, e volevo un gran bene a loro, alla zia, allo zio, soltanto che lui mi faceva un po' paura e non mi sentivo pro­prio tranquilla e confortata quando gli ero vicina, come, inve­ce, mi sentivo ai Buissonnets; lì, ai Buissonnets, la mia vita diventava felice davvero... Di mattina, lei veniva da me, mi domandava se avevo offerto il cuore al Signore, poi mi vestiva parlandomi di Dio; e poi ancora, accanto a lei, dicevo le pre­ghiere. Dopo, imparavo a leggere. La prima parola che riuscii a compitare fu «Cieli». La mia Madrina prese cura d'insegnar­mi a scrivere, e lei, Madre, mi dette le altre lezioni; non impa­ravo molto facilmente, avevo però gran memoria. Prediligevo il Catechismo, soprattutto la Storia Sacra, li studiavo con gioia; invece, la grammatica... ho pianto spesso, per la grammatica! Si ricorda, il maschile e il femminile?...
47 - Appena finito lo studio, salivo al belvedere e por­tavo quaderno e voti a Papà. Com'ero felice quando gli potevo dire: «Ho avuto 10 senza riserve, Paolina me l'ha detto da sé!». Perché accadeva questo: quando le domandavo io se avevo 10 senza riserve, e che lei mi diceva di sì, agli occhi miei era un tantino meno. Così lei mi dava dei buoni voti, e quando ne avevo messi insieme un certo numero, mi toccava un prernio e un giorno di vacanza. Quei giorni lì mi parevano più lunghi assai degli altri, e ciò faceva piacere a lei perché dimostrava che non mi garbava il dolce far niente.
48 - Tutti i pomeriggi facevo una passeggiatina con Papà; insieme facevamo la visita al Santissimo, cambiando chiesa ogni giorno, e così mi accadde di entrare per la prima volta nella cappella del Carmelo. Papà mi fece vedere la grata del coro, e disse che là dietro stavano le religiose. Ero ben lontana dal pensare che nove anni dopo ci sarei stata anch'io! Durante le passeggiate, Papà mi comprava sempre un regalino da un soldo o due: dopo, rientravamo a casa; allora facevo i compiti, poi, per tutto il tempo rimanente, me ne sta­vo in giardino a saltellare intorno a Papà, perché non sapevo giocare con la bambola. Era una gran gioia per me preparare bevande con granelli e scorze d'albero che raccattavo per ter­ra, le portavo poi a Papà in una bella tazzina, e il mio povero caro Babbo interrompeva il suo lavoro, e sorridendo faceva finta di bere. Prima di restituirmi la tazza mi domandava (come di sfuggita) se dovesse versare il contenuto; qualche vol­ta dicevo di sì, ma per lo più riportavo via la mia preziosa tisa­na affinché mi servisse per varie occasioni.
49 - Mi piaceva coltivare fiori nel giardino che Papà m'aveva dato; mi divertivo a erigere minuscoli altari nella spe­cie di nicchia che si trovava a metà del muro; quando avevo finito, correvo da Papà e, trascinandolo, gli dicevo di chiudere bene gli occhi e di non riaprirli se non nel momento che glielo avrei detto io; lui faceva tutto quello che volevo e si lasciava condurre davanti al mio giardinetto, allora gridavo: «Papà, apri gli occhi!». Li apriva e si estasiava per farmi piacere, ammirando quello che a me pareva un capolavoro! Non finirei mai se volessi raccontare mille episodietti simili a questo che si affollano alla memoria... Ah, come potrò ridire tutte le tene­rezze che Papà prodigava alla sua reginetta? Ci sono cose che il cuore sente, ma che la parola e il pensiero stesso non possono rendere.
50 - Erano giorni belli per me quando il mio «caro re» mi conduceva con sé a pescare, mi piaceva tanto la campagna, mi piacevano i fiori, gli uccelli! Qualche volta anch'io m'ingegnavo di pescare con la mia piccola lenza, ma preferivo sedermi sola sull'erba in fiore, allora i pensieri si facevano profondi e l'anima mia, senza sapere che cosa fosse meditare, s'immergeva in una vera orazione... Ascoltavo brusii lontani. Il murmure del vento ed anche la musica indefinita dei soldati, la cui risonanza arriva­va fino a me, mi riempivano il cuore di malinconia dolce. La ter­ra mi pareva un luogo d'esilio, sognavo il Cielo... Il pomeriggio passava rapido, bisognava ben presto rientrare ai Buissonnets, ma prima di partire prendevo la merenda che avevo portata in un canestrino: il bel crostino di marmellata che lei mi aveva pre­parato aveva mutato aspetto, invece del colore vivo non vedevo più che una scialba tinta rosa, tutta stantia e svanita. Allora la terra mi pareva ancora più triste, e capivo che soltanto in Cielo la gioia sarebbe stata senza nembi...
51 - A proposito dei nembi, ricordo che un giorno il bel cielo azzurro dell'aperta campagna si coprì, e che poco dopo la tempesta si annunciò con il suo brontolìo, i lampi solcavano la nuvolaglia cupa, e vidi cadere la folgore a poca distanza; lungi dall'aver paura, ero rapita. Mi pareva che il buon Dio mi fosse tanto vicino! Papà non era altrettanto contento, non gia che il temporale gli facesse paura, ma l'erba e le grandi mar­gherite (più alte di me...) scintillavano di gemme, e noi doveva­mo attraversare parecchi prati prima di trovare una strada; intanto, il mio babbo caro temette che i diamanti bagnassero la sua bimba e la prese sulle spalle nonostante il bagaglio delle lenze.
52 - Durante le passeggiate con Papà, gli piaceva di farmi portare l'elemosina ai poveri che incontravamo; un giorno ne vedemmo uno che si trascinava a fatica sulle stampelle, mi avvicinai per dargli un soldo, ma lui non si considerò abba­stanza povero da ricevere l'elemosina; mi guardò sorridendo con tristezza, e rifiutò di prendere ciò che gli offrivo. Non pos­so dire ciò che accadde in me, avrei voluto essergli di sollievo, consolarlo; invece mi pareva di avergli dato un dispiacere e senza dubbio quel poveretto indovinò il mio pensiero perché si voltò e mi sorrise. Papà mi aveva comprato un dolce; avevo gran voglia di darglielo, ma non osai, e tuttavia gli volli dar qualcosa che non potesse rifiutare, perché sentivo tanta simpa­tia verso lui. Allora mi ricordai d'avere inteso dire che il giorno della prima Comunione si ottiene tutto ciò che si chiede: quel pensiero mi consolò e, benché non avessi ancora sei anni, dissi a me stessa: «Pregherò per il mio povero nel giorno della pri­ma Comunione». Mantenni la promessa cinque anni dopo, e spero che il Signore abbia esaudito la preghiera che gli avevo rivolta per uno dei suoi membri sofferenti.
53 - Amavo molto Dio e gli offrivo spesso il cuore secon­do la piccola preghiera che Mamma mi aveva insegnata, e tut­tavia un giorno, o piuttosto una sera del bel mese di maggio, commisi una colpa che vale la pena di raccontare e che mi det­te un grande spunto per umiliarmi: credo di averne provato una contrizione perfetta. Ero troppo piccola per' andare al mese di Maria, perciò restavo con Vittoria e facevo con lei le mie devozioni davanti al piccolo mese di Maria che accomoda­vo a modo mio; erano tanto piccoli i candelieri, i vasi da fiori... che due fiammiferifunzionanti da candele illuminavano tutto perfettamente; qualche volta Vittoria mi faceva la sorpresa di darmi due mozziconi di lucignolo, ma di rado. Una sera era tutto pronto per iniziare la preghiera; le dissi: «Vittoria, per favore, cominciate il "memorare", io accendo». Fece finta di cominciare, ma non disse nulla, e mi guardò ridendo; io vede­vo i miei preziosi fiammiferi che si consumavano rapidamente e la supplicai di dire le orazioni, ma lei silenzio; allora mi alzai e le dissi forte che era cattiva, e uscendo dalla mia dolcezza con­sueta, battei il piedi con tutte le forze... La povera Vittoria non aveva più voglia di ridere, mi guardò stupefatta e mi fece vede­re il lucignolo che mi aveva portato... Dopo aver sparso lacri­me di stizza, versai quelle del pentimento sincero, col fermo proposito di non ricominciare mai più.
54 - Mi accadde un'altra avventura con Vittoria, ma di questa non ebbi pentimento, perché avevo mantenuto perfetta­mente la calma. Volevo un calamaio che si trovava sul camino della cucina, ero troppo piccina per prenderlo e lo chiesi molto gentilmente a Vittoria, ma lei rifiutò dicendomi di salire sopra una sedia. Io non fiatai, presi una seggiola, e intanto pensavo tra me che lei era poco amabile; volendo farglielo sentire, cercai nella mia minuscola testa ciò che mi offendeva di più; lei spesso mi chiamava, quando era stanca di me, «piccola mocciosa», e questo mi umiliava molto. Allora, prima di saltar giù dalla seg­giola mi voltai con dignita' e le lanciai: «Vittoria, siete una moc­ciosa! ». Poi fuggii, lasciandola a meditare sulla profonda parola che le avevo detto... Il risultato non tardò: ben presto la intesi che chiamava: «M’a’zelle Mari... Thérasse m'ha detto che sono una mocciosa!». Maria arrivò e mi fece chiedere perdono, ma io lo feci senza contrizione, pensando che Vittoria non aveva voluto allungare il suo grande braccio per farmi un piccolo favore, perciò meritava il titolo di «mocciosa».
55 - Tuttavia, mi voleva un gran bene e anch'io gliene volevo molto; un giorno mi cavò da un grande pericolo in cui ero caduta per colpa mia. Vittoria stava stirando e aveva accanto un secchio con dell'acqua, io la guardavo dondolan­domi, come facevo spesso, sopra una seggiola; a un tratto, la seggiola mi manca e io casco, non per terra, ma nel fondo del secchio! I piedi mi toccavano la testa ed io riempivo il secchio come il pulcino riempie l'uovo... Quella povera Vittoria mi guardava con uno stupore sommo, mai aveva visto cosa simile. Quanto a me, avevo ben voglia di uscire dal mio secchio, ma impossibile, la prigione era così aggiustata che non potevo fare un movimento. Con un po' di fatica mi salvò dal mio grande pericolo, ma non salvò il mio vestito e tutto il resto che bisognò cambiare perché ero bagnata come una minestra.
56 - Un'altra volta caddi nel caminetto. Per fortuna il fuoco era spento. Vittoria non ebbe altro guaio che rialzarmi e scuotermi da dosso la cenere di cui ero coperta. Accadevano il mercoledì, quando lei era a lezione di canto con Maria, tutte queste avventure. Similmente, un mercoledì venne Don Ducel­lier per fare una visita, Vittoria gli disse che non c'era nessu­no in casa, fuorché Teresa, la più piccina; lui entrò in cucina per vedermi, e guardò i miei compiti; ero fiera di ricevere il mio confessore, perché poco prima mi ero confessata da lui per la prima volta. Che bel ricordo per me!
57 - Madre mia cara, con quanta cura lei mi aveva prepa­rata! Mi aveva detto che non a un uomo avrei rivelato i miei peccati, bensì al buon Dio; ne ero veramente convinta, e per­ciò feci la mia confessione con grande spirito di fede, e doman­dai a lei perfino se dovevo dire a Don Ducellier: «Padre, io la amo con tutto il cuore», visto che avrei parlato col Signore nel­la persona di lui. Bene istruita di tutto quello che dovevo dire e fare, entrai nel confessionale e m'inginocchiai; ma Don Ducellier aprì la grata e non vide nessuno; ero tanto piccina che là mia testa si trovava sotto la tavoletta su cui si appoggia­no le mani; allora mi disse di stare in piedi. Ubbidii subito, mi alzai e volgendomi proprio a lui per vederlo bene in faccia, gli feci la mia confessione come una ragazza grande e ricevetti la benedizione con molta devozione, perché lei mi aveva detto che in quel momento le lacrime di Gesù Bambino avrebbero purificato l'anima mia. Ricordo che la prima esortazione che mi fu rivolta fu l'invito soprattutto alla devozione della Vergi­ne Santa, e io mi ripromisi di raddoppiare di tenerezza per lei. Uscendo dal confessionale ero tanto contenta e leggera, che mai avevo provato una gioia così grande nell'anima mia. Dopo tornai a confessarmi per tutte le feste grandi, ed era una vera festa per me ogni volta che ci andavo.
58 - Le feste! Quanti ricordi, in questa parola! Le feste, le amavo tanto! Lei mi sapeva spiegare così bene, Madre mia cara, tutti i misteri nascosti in ciascuna di esse, che diventava­no davvero per me giorni di Cielo. Amavo soprattutto la pro­cessione del Santissimo. Che gioia spargere fiori sotto i passi del Signore! Ma prima di lasciarli cadere li lanciavo il più in alto possibile, e non ero mai tanto felice come vedendo le mie rose sfogliate che toccavano l'Ostensorio santo.
59 - Le feste! Ah, se quelle grandi erano rare, ogni setti­mana ne conduceva una molto cara al mio cuore: la Domeni­ca! Che giornata era la Domenica! Era la festa di Dio, la festa del rtposo.Prima restavo a nanna più degli altri giorni, poi Mamma Paolina viziava la figlioletta portandole il cioccolato ancora tra le piume ed infine la vestiva come una regina in erba. La madrina veniva a fare i riccioli alla figlioccia che non sempre era buona e dolce quando le venivano tirati i capelli, ma poi era ben contenta d'andare a prendere la mano del suo re, il quale l'abbracciava ancor più teneramente del solito; dopo, tutta la famiglia partiva per la Messa. Lungo tutto il cammino, e perfino in chiesa, la reginetta di Papà gli dava la mano, e aveva posto accanto a lui. Quando scendevamo per la predica, bisognava trovare due seggiole una presso l'altra. Ciò non era difficile, poiché tutti trovavano così gradevole vedere un vecchio tanto bello con una frglioletta così piccina, che le persone si scomodavano per offrire un posto. Lo zio, il quale si trovava sulle panche dei camarlinghi, si rallegrava vedendoci arrivare, diceva che ero il suo piccolo raggio di sole... Io non mi preoccupavo affatto se ero guardata, ascoltavo con grande attenzione le prediche di cui tuttavia non capivo gran che; la prima che capii e che mi commosse profondamente, fu di Don Ducellier, sulla Passione: da allora capli tutte le altre.
60 - Quando il predicatore parlava di santa Teresa, Papà si chinava verso me, e mi diceva piano: «Ascolta bene, reginet­ta mia, parla della Santa tua Patrona». Ascoltavo, realmente, ma guardavo Papà più spesso del predicatore, il suo bel volto mi diceva tante cose! Qualche volta, gli occhi gli si empivano di lacrime, che egli si sforzava inutilmente di trattenere, pareva che già fosse staccato dalla terra, tanto l'anima sua sapeva immergersi nelle verità eterne. E tuttavia il suo corso di vita era ancora ben lungi dal giungere a compimento, dei lunghi anni dovevano trascorrere prima che il Cielo bello si aprisse agli occhi rapiti di lui, e che il Signore asciugasse le lacrime del suo servo buono e fedele!
61 - Ma torno alla Domenica. Quella giornata gioiosa che passava tanto rapida aveva pur la sua velatura di malinconia. Mi ricordo che la mia felicità era senza mescolanze fino a Compieta; durante quell'ufficio, pensavo che il giorno del ripo­so stava per finire, che l'indomani bisognava ricominciare la vita, lavorare, imparare, e il cuore sentiva l'esilio della terra, sospiravo pensando al riposo eterno del Cielo, la Domenica senza tramonto nella Patria… Persino le passeggiate che face­vamo prima di rientrare ai Buissonnets, mi lasciavano un senso di tristezza nell'anima; allora la famiglia non era più completa, giacché, volendo fare piacere allo zio, Papà gli concedeva Maria o Paolina per la serata di domenica; ero ben contenta quando rimanevo anch'io. Anzi, preferivo così piuttosto che essere invitata sola, perché facevano meno attenzione a me. Il piacere più grande per me consisteva nell'ascoltare tutto ciò che lo zio diceva, ma non mi andava a genio che egli mi facesse delle domande, ed avevo paura quando mi faceva far cavallucdo e intonava Barba Blu con una voce formidabile. Con piacere vedevo Papà che ci veniva a prendere.
62 - Sulla via del ritorno, guardavo le stelle che scintillava­no dolcemente, e quella vista mi rapiva. Soprattutto un grappo­lo di perle d'oro che distinguevo con gioia, mi pareva che avesse la forma di una T , lo facevo vedere a Papà e gli dicevo che il nome mio era scritto in cielo, e poi, non volendo più scorgere nulla della brutta terra, gli chiedevo che mi conducesse; allora, senza guardare dove met­tevo i piedi, abbandonavo il viso proprio verso l'alto, senza stancarmi di contemplare il firmamento.
63 - Che potrò dire delle veglie d'inverno, soprattutto di quelle domenicali? Com'era dolce per me, dopo la partita a lama, stare seduta con Celina sulle ginocchia di Papà. Con la sua bella voce cantava delle arie che empivano l'anima di pen­sieri profondi, oppure, cullandoci dolcemente, diceva delle poesie improntate di verità eterne. Dopo, salivamo per fare la preghiera in comune, e la minuscola regina era sola accanto al suo re: non aveva che da guardarlo per sapere come pregano i santi... Finalmente sfilavamo tutte, per ordine di età, a dare la buona notte a Papà e a ricevere un bacio; la regina veniva, naturalmente, per ultima, il re, per abbracciarla, la prendeva per i gomiti, e lei diceva a tutto fiato: «Buona notte, Papà, buona notte, dormi bene!»... Tutte le sere le stesse parole. Finalmente la Mammina mia mi prendeva tra le braccia e mi portava nel letto di Celina, allora dicevo: «Paolina, sono stata proprio buona, oggi? Gli angiolini mi voleranno intornosta­notte?». La risposta era sempre: «sì», altrimenti avrei passato la notte intera a piangere. Dopo avermi abbracciata - e così faceva anche la cara mia Madrina - Paolina discendeva, e la povera Teresa restava sola nel buio; aveva un bel raffigurarsi gli angiolini che le volavano intorno, ben presto lo sgomento la invadeva, le tenebre la impaurivano, perché dal letto non riu­sciva a vedere le stelle che scintillavano con tanta dolcezza.
64 - Considero una vera grazia di essere stata abituata lei, Madre cara, a vincere i miei timori; a volte lei mi mandava sola, di sera, a cercare un oggetto in una stanza lontana; se non fossi stata così ben diretta, sarei diventata pavidissima, mentre ora è proprio difficile che mi spaventi. Mi domando, a volte, come lei abbia potuto educarmi con tanto amore e delicatezza senza viziarmi, perché è vero che lei non mi condonava nem­meno una sola imperfezione: mai mi rimproverava senza ragio­ne, ma altresì mai tornava su cosa decisa; lo sapevo tanto bene che non avrei potuto né voluto fare un passo se lei me l'avesse proibito. Papà stesso era costretto a conformarsi alla volontà di lei, perché senza il consenso di Paolina non andavo a spas­so, e quando Papà mi diceva di andarci, rispondevo: «Paolina non vuole»; allora veniva lui a chiedere grazia per me; qualche volta, per fargli piacere, Paolina diceva di si, ma Teresa capiva bene, dall'espressione di lei, che quel sì non era detto a cuor convinto e si metteva a piangere senza accettar conforto fino a quando Paolina dicesse «sì» l'abbracciasse a cuore convinto.
65 - Quando Teresa si ammalava, ciò che le accadeva tut­ti gli inverni, non si può dire con quanta tenerezza materna veniva curata. Paolina la metteva nel proprio letto (favore incomparabile), e poi le dava tutto quello di cui aveva voglia. Un giorno tirò fuori da sotto il traversino un temperino grazio­sissimo, e lo regalò alla figlioletta, lasciandola immersa in un rapimento indescrivibile. «Ah, Paolina, tu mi vuoi tanto bene, dunque, giacché ti privi per me del tuo bel coltellino che ha una stella di madreperla? Ma poiché mi ami così, lo faresti il sacrificio del tuo orologio per impedirmi di morire?». - «Non soltanto per impedirti di morire darei il mio orologio, bensì soltanto per vederti presto guarita, farei subito tale sacrificio». Ascoltando queste parole di Paolina il mio stupore e la mia riconoscenza erano tanto grandi che non so esprimerli. D'esta­te, qualche volta, avevo mal di stomaco, e Paolina mi curava, come al solito, teneramente; per divertirmi, ciò che era la cura migliore, mi faceva fare il giro del giardino in carriola e poi mi faceva scendere, e metteva al posto mio un bel cespo di mar­gherite che sospingeva con molta precauzione fino al mio giar­dino dove lo deponeva con grande pompa...
66 - Paolina riceveva tutte le mie confidenze intime, e gettava luce su tutti i miei dubbi. Una volta mi meravigliavo che il Signore non dia gloria uguale in Cielo a tutti gli eletti, e temevo che non tutti fossero felici; allora Paolina mi disse di andare a prendere il bicchiere grande di Papà e di metterlo accanto al mio piccolissimo ditale, poi di riempirli di acqua tutti due; e mi domandò: «Quale è più pieno?». Le risposi che erano pieni tutti e due, e che non si poteva mettere più acqua di quanta ne potevano contenere. La mia cara Madre mi fece capire così che il buon Dio dà in Cielo ai suoi eletti tanta glo­ria quanta possono riceverne, e che l'ultimo non avrà niente da invidiare al primo. In tal modo, mettendo alla mia portata le verità più sublimi, lei, Madre, sapeva dare all'anima mia il nutrimento che le occorreva.
67 - Con quanta gioia vedevo ogni anno arrivare la distri­buzione dei premi! In questo, come in tutto, la giustizia era rispettata ed io ottenevo soltanto le ricompense meritate; sola, in piedi in mezzo alla nobile assemblea ascoltavo la sentenza letta dal «Re di Francia e di Navarra»; il cuore mi batteva forte quando ricevevo il premio e la corona... era, per me, come una immagine del Giudizio! Subito dopo la distribuzione, la regi­netta si toglieva il suo abito bianco, poi si affrettavano a trave­stirla affinché potesse prendere parte alla grande rappresenta­zione! Com'erano gioiose quelle feste di famiglia! Allora, veden­do il mio re caro così radioso, com'ero lontana dal prevedere le prove che dovevano visitarlo!
68 - Tuttavia, un giorno il Signore mi mostrò in una visio­ne davvero straordinaria, l'immagine vivente della prova che egli si compiaceva di prepararci Papà era in viaggio da vari giorni, ne dovevano passare ancora due prima che tornasse. Potevano essere le due o le tre del pomeriggio, il sole sfolgorava e tutta la natura pareva in festa. Mi trovavo sola alla finestra d'una soffitta che dava sul giardino grande; guardavo dinanzi a me, avevo lo spirito occu­pato da pensieri ridenti, quando vidi, dinanzi alla lavanderia che si trovava proprio di faccia, un uomo vestito in tutto e per tutto come Papà, medesima statura e identico passo, soltanto molto più curvo. La testa era coperta da una specie di grembiu­le di colore incerto, in modo che non potei vedere il viso. Por­tava un cappello simile a quello di Papà. Lo vidi venire avanti d'un passo regolare, lungo il giardinetto mio. Subito un senti­mento di timore soprannaturale m'invase l'anima, ma in un attimo riflettei che certamente Papà era tornato, e si nasconde­va per farmi una sorpresa; allora chiamai forte forte, con una voce che tremava dall'emozione: «Papà, Papà!... ». Ma il per­sonaggio misterioso non pareva udisse, continuò il suo passo regolare senza neppure voltarsi; seguendolo con gli occhi, lo vidi dirigersi verso il boschetto che tagliava in due il viale gran­de, io mi aspettavo di vederlo rispuntare dall'altra parte dei grandi alberi, ma la visione profetica era svanita! Tutto ciò durò un istante solo, ma mi s'impresse così profondamente nel cuore che oggi, dopo quindici anni... il ricordo è ancora pre­sente come se la visione stesse dinanzi agli occhi.
69 - Maria era con lei, Madre, in una stanza comunicante con quella nella quale mi trovavo io; nel sentirmi gridare «Papà», ebbe un'impressione di paura, intuendo - mi ha detto in seguito - che qualcosa accadeva di straordinario; senza far­mi vedere la sua emozione, accorse a me, mi domandò che cosa mi prendeva di chiamare Papà il quale era ad Alenncon; allora raccontai ciò che avevo visto. Per rassicurarmi Maria mi disse che certamente era Vittoria che, per farmi paura, si era coperta il capo col grembiule; ma Vittoria, interrogata, affermò di non aver lasciato la cucina; d'altra parte, ero ben sicura d'aver visto un uomo e che quell'uomo aveva l'aspetto di Papà, allora andammo tutte tre dietro il folto degli alberi, ma non trovando nessun segno che indicasse il passaggio di qual­cuno, lei mi disse di non pensarci più.
70 - Non pensarci più non era in mio potere; di frequente l'immaginazione mi ripresentava la scena misteriosa che avevo visto, e ben spesso ho cercato di alzare il velo che mi nascon­deva il significato di essa, perché rimanevo convinta in fondo al cuore che quella scena avesse un senso, e che il segreto di essa mi sarebbe stato svelato un giorno... Quel giorno si è fatto attendere lungamente, ma dopo quattordici anni il Signore ha strappato egli stesso il velo misterioso. Trovandomi in «licenza» con suor Maria del Sacro Cuore, parlavamo come sempre delle cose dell'altra vita e delle nostre memorie fanciullesche, quando le ricordai la visione che avevo avuta all'età da sei a sette anni; a un tratto, mentre riferi­vo i particolari di questa scena strana, capimmo insieme ciò che significava. Era proprio Papa che avevo visto, camminare curvo per l'età, proprio lui che portava sul volto venerabile, sulla testa ormai bianca, il segno della sua prova gloriosa. Come il Volto adorabile di Gesù che fu velato durante la Pas­sione, così il volto del suo servo fedele doveva essere velato nei giorni del dolore, per potere poi splendere nella Patria celeste presso il suo Signore, il Verbo Eterno! Dal seno di quella glo­ria ineffabile quando regnava nel Cielo, il nostro Babbo amato ci ha ottenuto la grazia di capire la visione avuta dalla sua regi­netta in una età in cui non si può temere l'illusione. Dall'inti­mo della sua gloria ci ha ottenuto questa dolce consolazione di capire che dieci anni prima della nostra grande prova, il Signo­re ce la mostrava già, come un Padre fa intravedere ai figli l'avvenire glorioso che prepara per essi, e si compiace conside­rando in anticipo le ricchezze inestimabili che apparterranno loro.
71 - Ah! perché il buon Dio ha dato proprio a me quella luce? Perché ha mostrato a una bambina tanto piccola una cosa incomprensibile per lei, una cosa che, se l'avesse capita, l'avrebbe fatta morire di dolore, perché?... Ecco uno dei misteri che senza dubbio capiremo nel Cielo, e che formerà la nostra eterna ammirazione.
72 - Quanto è buono il Signore! Come proporziona le prove alle forze che ci dà! Mai, come ho detto, avrei potuto sopportare nemmeno il solo pensiero delle pene amare che l'avvenire mi riservava. Non potevo nemmeno pensare senza fremere che Papà poteva morire. Una volta era salito sopra una scala e, poiché io rimanevo proprio li sotto, mi gridò: «Allon­tanati, povero cosino, se casco ti schiaccio». All'udir ciò provai una rivolta interiore, invece di allontanarmi mi appiccicai alla scala pensando: «Almeno se papà cade, non avrò il dolore di vederlo morire, perché morrò con lui!». Non posso dire quan­to bene volevo a Papà, tutto, in lui, mi suscitava ammirazione; quando mi spiegava i suoi pensieri (come se fossi stata una bambina grande), gli dicevo ingenuamente che certamente se egli avesse detto quelle cose ai grandi uomini del governo, lo avrebbero preso per farlo re, e allora la Francia sarebbe stata felice come non lo era mai stata... Ma in fondo ero contenta (e me lo rimproveravo come pensiero egoistico) di essere la sola a conoscere bene Papà, perché sapevo che se fosse divenuto re di Francia e di Navarrasarebbe stato infelice: è la sorte di tutti i monarchi e soprattutto non sarebbe stato più il mio re, pro­prio di me sola!
73 - Avevo sei o sette anni quando Papà ci condusse a Trouville. Mai dimenticherò l'impressione che mi fece il mare, non potevo fare a meno di guardarlo continuamente; la sua maestà, il fragore dei flutti, tutto parlava all'anima mia del­la grandezza e della potenza di Dio. Ricordo che, durante la passeggiata sulla spiaggia, un signore e una signora mi guarda­rono mentre correvo gioiosamente intorno a Papà; poi si avvi­cinarono, e gli domandarono se ero sua, e dissero che ero pro­prio una bella bambina. Papà rispose di sì, ma mi accorsi che faceva loro segno di non farmi dei complimenti. Era la prima volta che mi sentivo chiamare carina, mi fece molto piacere, perché non l'avrei creduto; lei, Madre mia, faceva tanta atten­zione a non lasciarmi vicino nessuna cosa che potesse appan­nare la mia innocenza, soprattutto a non lasciarmi udire nessu­na parola capace di farmi scivolare nel cuore la vanità! Poiché non davo retta se non alle parole sue o di Maria (e mai lei mi aveva rivolto un solo complimento), non detti grande impor­tanza alle parole e agli sguardi ammirativi della signora. La sera, all'ora in cui il sole par che si tuffi nell'immensità delle acque, lasciandosi davanti un solco luminoso, andai a sedermi sopra una roccia con Paolina sola. Allora ricordai la storia commovente «del solco d'oro»! Lo contemplai a lungo, quel solco luminoso immagine della grazia che rischiara il cammino su cui passerà la piccola nave dalla vela bianca... Accanto a Paolina presi la risoluzione di non allontanare mai l'anima mia dallo sguardo di Gesù, affinché voghi in pace verso la Patria del Cielo. La mia vita scorreva tranquilla, felice. L'affetto da cui ero circondata ai Buissonnets direi quasi che mi faceva crescere, ma senza dubbio ero già abbastanza grande per cominciare a lottare, a conoscere il mondo e le miserie di cui è pieno.


3. EDUCANDA PRESSO LE BENEDETTINE (1881-1883)

Anni tristi - Le cugine Guérin - Intimità con Celina - Dolorosa sepa­razione da Paolina - Strana matattia - Sorriso incantevole e miracoloso del­la Vergine.

74 - Avevo otto anni e mezzo quando Leonia uscì dal col­legio, e io presi il suo posto all'Abbazia. Spesso ho inteso dire che il tempo passato in collegio è il migliore e il più dolce della vita; per me non fu così; i cinque anni che passai lì furono i più tristi per me; se non avessi avuto accanto la mia Celina cara, non avrei potuto rimanerci un mese solo senza ammalarmi. Povero fiorellino, che era stato abituato ad addentrare le sue radici fragili in una terra scelta, fatta apposta per lui! Gli parve ben duro vedersi in mezzo a fiori di ogni sorta, alcuni dalle radici ben poco delicate! Ed essere costretto a trovare in una terra comune la linfa necessaria per l'esistenza.
75 - Lei mi aveva istruita così bene, Madre mia cara, che arrivando in collegio ero la più avanti tra le bimbe della mia età; mi misero in una classe di scolare tutte più grandi di me, una di loro, fra i tredici e i quattordici anni, era poco intelli­gente, ma si sapeva imporre alle compagne ed anche alle mae­stre. Vedendomi tanto giovane, quasi sempre la prima della classe, e benvoluta da tutte le religiose, dovette provare una gelosia ben perdonabile a una collegiale e mi fece scontare in mille modi i miei piccoli successi. Con la mia natura timida e delicata, non sapevo difender­mi, e mi contentavo di piangere senza parlare, nemmeno con lei mi lamentavo per ciò che soffrivo, ma non avevo abbastan­za virtù per elevarmi al disopra di queste miserie della vita, e il mio povero cuore soffriva tanto. Per fortuna che ogni sera ritrovavo il focolare paterno, allora il cuore si apriva, io saltavo sulle ginocchia del mio re, e gli dicevo i voti che mi erano stati dati, e il suo bacio mi faceva dimenticare tutte le mie pene. Con quale gioia annunciavo il risultato del mio primo componi­mento (un componimento di Storia Sacra), mi mancava un solo punto per avere il massimo, perché non avevo saputo il nome del padre di Mosè. Ero dunque la prima, e avevo conseguito una bella decorazione d'argento. Per premiarmi, Papà mi det­te una monetina da quattro soldi che collocai in una scatola destinata a ricevere quasi ogni giovedì una moneta nuova, sempre della stessa grandezza (pescavo in quella scatola quan­do volevo fare, in certe feste grandi, un'elemosina di tasca mia alla questua, o per la propagazione della Fede, o per opere simili). Paolina, rapita per il successo della sua scolara, le regalò un bel cerchio per incoraggiarla ad essere ben studiosa. La povera piccina aveva un reale bisogno di quelle gioie della famiglia; senza esse, la vita di collegio le sarebbe stata troppo dura.
76 - Ogni giovedì si aveva vacanza nel pomeriggio, ma non era come le vacanze di Paolina, non ero nel belvedere con Papà. Bisognava giocare non con la mia Celina, ciò che mi pia­ceva quand'ero sola con lei, ma con le mie cuginette e le picco­le Maudelonde. Era una vera pena per me, perché non sape­vo giocare come gli altri bimbi, non ero una compagna grade­vole, eppure facevo del mio meglio per imitare le altre senza riuscirci, e mi annoiavo molto, soprattutto quando bisognava passare tutto un pomeriggio a ballare la quadriglia. La sola cosa che mi piaceva era andare al giardino della stella, allora ero la prima dappertutto, cogliendo fiori a profusione, e sapen­do trovare i più belli eccitavo l'invidia delle mie piccole com­pagne.
77 - Mi piaceva anche se per caso restavo sola con la pic­cola Maria, senza che ci fosse più Celina Maudelonde per indurla a giochi comuni; lei mi lasciava libera di scegliere, e io sceglievo un gioco affatto nuovo. Maria e Teresa diventavano due eremiti e non avevano che una povera capanna, un campi­cello di grano e un po' di ortaggi da coltivare. La loro esistenza trascorreva in una contemplazione ininterrotta, cioè a dire che uno dei due solitari sostituiva l'altro nell'orazione quando biso­gnava occuparsi di vita attiva. Tutto veniva fatto con una intesa, un silenzio e dei modi religiosi che erano una perfezione. Quan­do la zia veniva a prenderci per la passeggiata, il nostro gioco continuava anche per la strada. I due romiti recitavano insieme il rosario, servendosi delle dita per non rivelare la loro devozio­ne al pubblico indiscreto; ma ecco che un giorno il solitario più giovane ebbe un istante di distrazione: aveva ricevuto un dolce per merenda e prima di mangiarlo fece un gran segno di croce, al che tutti i profani del secolo si misero a ridere.
78 - Maria ed io eravamo sempre dello stesso parere, ave­vamo a tal segno i medesimi gusti, che una volta la nostra unio­ne di volonta' passò i limiti. Tornando una sera dall'Abbazia, dissi a Maria: «Conducimi tu, io chiudo gli occhi». - «Li chiu­do anch'io», disse lei. Detto fatto, senza più discutere ognuna fece come volle. Eravamo sul marciapiede, non c'era da teme­re le vetture; dopo una gradevole passeggiata di qualche minu­to, e dopo aver assaporato le delizie di camminare senza veder­ci, le due piccole stordite caddero insieme sulle casse deposte alla porta d'un magazzino, o piuttosto le fecero cadere. il bot­tegaio uscì furibondo per rialzare le sue merci, le due cieche volontarie si erano ben rialzate da sé e sgattaiolavano via a grandi passi, con gli occhispalancati, ascoltando i giusti rim­proveri di Giovanna, la quale era arrabbiata non meno del bot­tegaio. Tanto è vero che, per punirci, decise di separarci, e da quel giorno in poi Maria e Celina andarono insieme, mentre io facevo la strada con Giovanna. Questo mise fine alla nostra troppo grande unione di volontà e non fu un male per le due maggiori che invece non erano mai del medesimo parere, e discutevano per tutta la strada. Così la pace fu completa.
79 - Non ho ancora detto nulla delle mie relazioni intime con Celina, ah! se dovessi raccontare tutto, non frnirei mai... A Lisieux le parti erano cambiate, Celina era diventata un furicchio furbetto, e Teresa non era più se non una bimbet­ta dolce, ma piagnucolona fin troppo. Ciò non impediva che Celina e Teresa si volessero sempre più bene; a volte c'erano piccole discussioni, ma non gravi, e in fondo erano tutte due dello stesso parere. Posso dire che mai la mia sorella cara mi ha dato dispiacere e che invece è stata per me un raggio di sole, mi ha rallegrata e confortata sempre. Chi potrà dire con quale intrepidezza mi difendeva all'Abbazia quand'ero accusata? Pren­deva tanta cura della mia salute che talvolta mi dava noia. Quello che non mi tediava affatto era vederla giocare: allineava tutta la squadra delle nostre bambole e le istruiva, da maestra abile; soltanto aveva sempre cura che le figlie sue fossero buo­ne e brave, mentre le mie venivano spesso messe alla porta a causa della loro cattiva condotta... Mi diceva tutte le cose nuo­ve che aveva imparate a scuola, e ciò mi divertiva molto; io la consideravo come un pozzo di scienza. Avevo ricevuto la qua­lifica di «figlioletta di Celina», e perciò quando lei si indispo­neva con me, il più grave segno del suo malcontento era: «Non sei più figlia mia, è finita, me ne ricorderò sempre!». Allora non mi restava che piangere come una Maddalena, sup­plicandola di considerarmi ancora figliolina sua, poco dopo lei mi abbracciava e mi prometteva di non ricordare più nulla! Per consolarmi, prendeva una delle sue bambole e le diceva: «Tesoro, abbraccia la zia». Una volta la bambola mi abbracciò con tanto zelo e tenerezza che m'infilò due braccini nel naso. Celina che non l'aveva davvero fatto apposta mi guarda­va stupefatta. La bambola mi pendeva dal naso; ma ecco, la zia non tardò molto a svincolarsi dalle strette troppo tenere della nipote; e si mise a ridere con tutto il cuore di un'avventura tan­to singolare.
80 - La parte più divertente era di vederci insieme nel bazar a comprare le strenne; ci nascondevamo con gran cura una all'altra. Avevamo dieci soldi da spendere, e ci occorreva-no almeno cinque o sei oggetti diversi, perciò facevamo a chi comprava le cose più belle. Felici dei nostri acquisti, sospiravamo il primo dell'anno per poterci offrire i nostri magnifici regali. Quella che si svegliava prima dell'altra si affrettava ad augurarle il buon anno, poi ci davamo le strenne, e ciascuna si estasiava sui tesori da dieci soldi! Quei regalini quasi ci facevano piacere quanto i bei regali dello zio, e, del resto, era soltanto l'inizio delle gioie. Quel giorno ci vestivano in fretta, e ciascuna di noi stava all'agguato per potersi gettare al collo di Papà; appena usciva dalla camera sua erano gridi di gioia in tutta la casa, e quel povero Babbo caro pareva felice di vederci tanto contente... Le strenne che Maria e Paolina davano alle loro figliolette non erano di gran pregio, ma suscitavano ugualmente una gioia grande.
81 - La verità è che a quell'età non eravamo annoiate del­la vita, le anime nostre in tutta la loro freschezza si aprivano come i fiori alla guazza mattinale. Un medesimo soffio faceva ondeggiare le nostre corolle, e ciò che portava gioia o pena ad una la portava anche all'altra. Indivise erano le nostre gioie, e l'ho ben sentito nel giorno della prima Comunione della mia Celina. Non mi trovavo ancora all'Abbazia perché avevo appena sette anni, ma ho conservato nel cuore il ricordo dol­cissimo della preparazione che lei, Madre cara, aveva fatto fare a Celina; sera per sera la prendeva sulle ginocchia e le parlava del grande atto che stava per compiere; io ascoltavo avida di prepararmi anch'io, ma spesso lei mi diceva di andarmene per­ché ero troppo piccina, allora il cuore mi si gonfiava e io pen­savo che non erano troppi quattro anni per prepararsi a riceve­re il buon Dio... Una sera la intesi che diceva: «Dopo la prima Comunio­ne bisogna cominciare una nuova vita». Subito presi la risolu­zione di non attendere quel giorno, ma di rinnovarmi insieme a Celina. Mai avevo sentito tanto di amarla quanto lo sentii durante il ritiro di tre giorni che ella fece; per la prima volta, mi trovai lontana da lei, non dormii nel suo letto. Il primo giorno avevo dimenticato che non sarebbe tornata, avevo ser­bato un mazzetto di ciliege che Papà mi aveva comperato, per­ché volevo mangiarlo con lei; quando non la vidi arrivare, ebbi un gran dispiacere. Papà mi consolò dicendomi che mi avreb­be condotto all'Abbazia il giomo dopo per vedere la mia Celi­na, e che avrei portato un altro mazzetto di ciliege. il giorno della prima Comunione di Celina mi lasciò una impressione quasi fosse la mia; la mattina, svegliandomi sola sola, mi sentiiinondata di gioia: «É oggi!», non mi stancavo di ripetere que­ste parole. Mi pareva d'essere io a far la prima Comunione. Credo d'aver ricevuto grandi grazie in quel giorno, e lo consi­dero come uno dei più belli della vita.
82 - Ho fatto un passo indietro per rievocare quel dolce, delizioso ricordo, ora debbo parlare della prova dolorosa che venne a spezzare il cuore di Teresa piccina, quando Gesù le prese la sua cara mamma Paolina, amata così teneramente. Un giorno avevo detto a Paolina che sarei stata volentieri eremita, e mi sarebbe piaciuto andarmene con lei in qualche deserto lontano, e lei mi aveva risposto: il mio desiderio è il tuo, attenderò che tu sia abbastanza grande per partire». Senza dubbio, ciò non era stato detto seriamente, ma Teresa, invece, l'aveva preso sul serio; e quale non fu il dolore di lei quando un giorno intese Paolina che parlava con Maria della sua prossima entrata nel Carmelo! Non sapevo che cosa fosse il Carmelo, ma capivo che Paolina mi avrebbe lasciata per entrare in un con­vento, capivo che non mi avrebbe attesa, e che stavo per perdere la mia seconda mamma! Come dire la mia angoscia? In un attimo capii che cosa è la vita; fino allora non l'ave­vo vista così triste, ma ora mi apparve in tutta la sua realtà, vidi che era soltanto sofferenza e separazione continua. Piansi ama­ramente, perché non comprendevo ancora la gioia del sacrifi­cio, ero debole, così debole che considero una grande grazia aver potuto sopportare una prova la quale pareva molto al disopra delle mie forze! Se avessi saputo a poco a poco la par­tenza della mia Paolina carissima, forse non avrei sofferto tan­to, ma avendola saputa di sorpresa, fu come una spada che mi si conficcasse nel cuore.
83 - Ricorderò sempre, Madre mia cara, con quale tene­rezza lei mi consolò. Poi mi spiegò la vita del Carmelo che mi parve così bella! Ripassando nello spirito tutto quello che lei mi aveva detto, sentii che il Carmelo era il deserto nel quale il Signore voleva che mi nascondessi. Lo sentii con tanta forza che non rimase il minimo dubbio in me: non era un sogno di bambina che si lasci trascinare, bensì la certezza d'una chiama­ta divina; volevo andare al Carmelo non per Paolina, ma per Gesù solo... Pensai molte cose che le parole non possono ren­dere, ma che mi lasciarono una grande pace nell'anima. Un giorno dopo confidai il mio segreto a Paolina la quale, considerando i miei desideri come la volontà del Cielo, mi dis­se che ben presto sarei andata a trovare la madre Priora del Carmelo, e che avrei dovuto dirle ciò che il Signore mi faceva sentire. Venne scelta una domenica per questa visita solenne, e il mio impaccio fu grande quando seppi che Maria G. doveva rimanere con me, perché, essendo ancora abbastanza piccola, poteva vedere le carmelitane; bisognava tuttavia che trovassi il modo di rimaner sola, ed ecco che cosa escogitai: dissi a Maria che, avendo il privilegio di vedere la Madre Priora, biso­gnava essere ben gentili e bene educate, per questo dovevamo confidarle i nostri segreti, perciò ognuna di noi doveva uscire un momento e lasciar l'altra sola. Maria mi credette sulla paro­la e, nonostante la sua ripugnanza a confidare dei segreti che non aveva, rimanemmo sole, una dopo l'altra, presso Nostra Madre. Dopo avere ascoltato le mie grandi confidenze madre Maria Gonzaga credette alla mia vocazione, mi disse tuttavia che non si ricevono postulanti di nove anni, e che bisognava attendere i miei sedici anni... Mi rassegnai nonostante il desi­derio vivo di entrare prima possibile, e di fare la mia prima Comunione nel giorno della vestizione di Paolina. In quel giorno ricevetti dei complimenti per la seconda volta. Suor Teresa di Sant'Agostino venne a vedermi, e non si stancava di dire che ero carina... io non contavo di venire al Carmelo per ricevere lodi, e perciò, uscita dal parlatorio non finivo più di ripetere a Dio che volevo farmi carmelitana per lui solo.
84 - Cercai di profittare ben bene della mia cara Paolina durante le poche settimane ch'ella passò ancora nel mondo; ogni giorno, Celina ed io compravamo un dolce e delle caramel­le pensando che ben presto non ne avrebbe mangiati più; eravamo sempre intorno a lei, senza lasciarle un minuto di respiro. Finalmente arrivò il 2 ottobre, giorno di lacrime e di benedi­zioni, nel quale Gesù colse il primo dei suoi fiori, che dove­va divenire la madre di quelle che l'avrebbero raggiunto entro pochi anni. Vedo ancora il luogo preciso in cui ebbi l'ultimo bacio di Paolina, poi la zia ci condusse tutte a Messa mentre Papà andava sulla montagna del Carmelo per offrire il suo primo sacrificio. .. Tutta la famiglia era in lacrime, cosicché le persone che ci vedevano entrare in chiesa ci guardavano con stupore, ma a me importava ben poco e non m'impediva di piangere; credo che se tutto mi fosse crollato intorno, non me ne sarei curata affatto; guardavo il bel cielo limpido e mi meravigliavo che il sole splendesse con tanto fulgore quando l'anima mia era inondata dalla tristezza! Forse, Madre cara, lei trova che io esageri il dolore che ho provato? Mi rendo ben conto che non avrebbe dovuto essere tanto grave, poiché avevo la speranza di ritrovare lei al Carmelo; ma l'anima mia era lungi dall'essere matura, io dovevo passare attraverso molte prove prima di attendere il fine desiderato.
85 - Il 2 ottobre era il giorno fissato per rientrare all'Abba­zia, bisognò dunque andarci, nonostante la mia tristezza. Nel pomeriggio la zia venne a prenderci per condurci al Carmelo, e io vidi la mia Paolina cara dietro le grate... Quanto ho soffer­to in quel parlatorio del Carmelo! Poiché scrivo la storia dell'anima mia, devo dire tutto alla mia cara Madre, e confesso che il mio patire prima che lei entrasse nel Carmelo fu un nulla a paragone di quello che seguì. Tutti i giovedì andavamo, a famiglia riunita, al Carmelo, e io, avvezza a intrattenermi «cuo­re a cuore» conPaolina, ottenevo a mala pena due o tre minuti alla fine della conversazione, e beninteso li passavo a piangere per andarmene poi col cuore a pezzi. Non capivo come per delicatezza verso la zia lei rivolgesse di preferenza la parola a Giovanna e a Maria invece che alle sue figlioline; non capivo, e dicevo nel fondo di me stessa: «Paolina è perduta per me!». E sorprendente vedere quanto il mio spirito si sviluppò nella sof­ferenza; si sviluppò a tal segno che dopo breve tempo mi ammalai.
86 - La malattia che mi colpì veniva certamente dal demo­nio; furioso perché lei era entrata nel Carmelo, volle vendicarsi su me del torto che la nostra famiglia doveva fargli nell'avvenire, ma non sapeva che la dolce Regina del Cielo vegliava sul suo fio­rellino fragile, che gli sorrideva dall'alto del suo trono, e si dispo­neva a far cessare la tempesta proprio nel momento in cui il povero fiore si sarebbe spezzato senza rimedio. Verso la fine dell'anno fui presa da un mal di testa con­tinuo, ma che quasi non mi faceva soffrire; ero in grado di proseguire i miei studi, e nessuno si preoccupava di me; ciò durò fino alla festa di Pasqua del 1883. Papà essendo andato a Parigi con Maria e Leonia, la zia mi prese in casa sua con Celina. Una sera lo zio mi tenne con sé, e mi parlò di Mam­ma, e di tanti ricordi con una bontà che mi commosse profondamente e mi fece piangere; allora disse che ero trop­po sensibile, che mi occorreva molta distrazione, e decise con la zia di procurarci cose piacevoli durante le vacanze di Pasqua. Quella sera dovevamo andare al circolo cattolico, ma, trovando che ero troppo stanca, la zia mi fece andare a letto; mentre mi spogliavo fui presa da un tremito strano; credendo che avessi freddo, la zia mi avviluppò tra le coperte e le bottiglie calde, ma niente poté attenuare la mia agitazio­ne che durò quasi tutta la notte. Lo zio, tornato dal circolo cattolico con le mie cugine e Celina, fu ben sorpreso trovandomi in quello stato che giudicò assai grave, ma non volle dirlo per non spaventare la zia. Il giorno dopo andò a trovare il dottor Notta il quale giudicò, come mio zio, che avevo una malattia molto grave, dalla quale una bambina tanto giovane mai era stata colpita. Tutti erano costernati, la zia fu costretta a tenermi presso di sé, e mi curò con una premura veramente materna. Quando Papà tornò da Parigi con le sorelle più grandi, Amata li ricevette con una faccia così triste che Maria mi credette morta. Ma quella malat­tia non era perché morissi, era piuttosto come quella di Lazza­ro, affinché Dio fosse glorificato. Lo fu realmente, per la ras­segnazione mirabile del mio caro Babbo, il quale credette che «la sua bambina impazzisse o morisse»: e per la rassegnazione di Maria! Ah, quanto ha sofferto per causa mia, quanto le sono grata per le cure che mi usò con tanto sacrificio: il cuore le dettava ciò che mi era necessario, e veramente un cuore di madre è ben più sapiente che quello di un medico, sa indovina­re ciò che conviene alla malattia della sua bimba.
87 - Povera Maria che fu costretta a venire a installarsi presso la zia, perché era impossibile allora di trasportarmi ai Buissonnets. Intanto, la vestizione di Paolina si avvicinava; evitavano di parlarne in presenza mia sapendo la pena che provavo per non poterci andare, ma io ne parlavo spesso, dicendo che sarei stata abbastanza bene per andare a vedere la mia Paolina cara. In realtà il Signore non volle negarmi questa consolazione, o piuttosto volle confortare la sua cara ftdanzata che aveva sofferto tanto per la malattia della figlioletta. Ho notato che Gesù non vuol mettere alla prova le sue figlie nel giorno del fidanzamento, questa festa dev'essere senza nubi, un anticipo della gioia del Paradiso, non l'ha già dimostrato cinque volte? Potei dunque abbracciare la mia cara Mamma, sedermi sulle ginocchia di lei, e colmarla di carezze. Potei contemplarla così incantevole sotto il bianco abito di fidanzata... Ah, fu un giorno bello in mezzo alla mia prova cupa, ma passò rapido. Ben presto dovetti salire sulla carrozza che mi portò ben lungi da Paolina e ben lungi dal mio Carmelo amato.
88 - Arrivando ai Buissonnets mi misero a letto, nono­stante che io affermassi d'essere guarita perfettamente e di non aver più bisogno di cure. Ahimè! Ero soltanto all'inizio delle mie prove! L’indomani fui ripresa dal disturbo che avevo avu­to, e la malattia divenne così grave che non avrei dovuto guari­re, secondo le previsioni umane. Non so come descrivere un malessere tanto strano, sono persuasa ch'era opera del demo­nio, ma per lungo tempo dopo la guarigione ho creduto d'aver fatto apposta ad essere malata, ed è stato, questo, un vero mar­tirio per l'anima mia. Lo dissi a Maria che mi rassicurò come meglio poté con la sua consueta bontà, lo dissi in confessione, e anche il confes­sore tentò di quietarmi dicendo che non era possibile aver fin­to d'essere ammalata al punto in cui lo ero. Dio misericordioso che voleva senza dubbio purificarmi, e soprattutto umiliarmi, mi lasciò questo martirio intimo fino al mio ingresso nel Car­melo, ove il Padre delle nostre anime mi tolse tutti i dubbi quasi con un gesto della mano, e da allora sono perfettamente tranquilla.
89 - Non è sorprendente che io abbia avuto il timore di essere sembrata ammalata senza esserlo veramente, perché dicevo e facevo cose che non pensavo, quasi sempre apparivo in delirio, pronunciavo parole che non avevano senso, e tutta­via sono sicura di non essere stata priva nemmeno un istante dell'uso della ragione. Parevo spesso svenuta, non facevo più il minimo movimento, e allora mi sarei lasciata fare qualsiasi cosa, anche uccidere, e tuttavia udivo tutto quello che veniva detto intorno a me, e mi ricordo ancora di tutto. Mi è accaduto una volta di restare a lungo senza poter aprire gli occhi, e di aprirli un attimo quando mi trovavo sola.
90 - Credo che il demonio avesse ricevuto un potere esteriore su me, ma che non potesse avvicinarsi alla mia ani­ma, al mio spirito se non per ispirarmi certi spaventi forti dinanzi a determinate cose, per esempio, di fronte a medici­ne molto semplici che tentavano inutilmente di farmi accetta­re. Ma se Dio permetteva al demonio di avvicinarsi a me, mi mandava anche degli angeli visibili. Maria era sempre intor­no al mio letto, mi curava e mi confortava con la tenerezza di una madre, senza mai manifestare il minimo senso di noia, eppure io le davo tanto disturbo, non permettendo che si allontanasse da me. D'altra parte, bisognava pure ch'ella andasse a tavola con Papà, ma io non cessavo di chiamarla tutto il tempo ch'era andata via; Vittoria che mi custodiva era costretta, a volte, a cercare la mia cara «mamma», come la chiamavo io. Quando Maria voleva uscire, bisognava che fos­se per andare a Messa, oppure per andare da Paolina, allora non dicevo nulla.
91 - Lo zio e la zia erano tanto buoni anch'essi con noi; cara buona zia, veniva tutti i giorni a trovarmi, e mi portava mille cose buone. Altri amici della famiglia vennero a trovarmi, ma io supplicai Maria di avvertire che non volevo ricevere visi­te: mi dispiaceva di vedere persone sedute intorno al mio letto, file di cipolle, che mi guardavano come una bestia rara. La sola visita che mi piacesse era quella degli zii. Da quella malattia non so dire quanto sia aumentato il mio affetto per loro, capii sempre meglio che per noi non era­no parenti come tutti gli altri. Povero Babbo caro, aveva ben ragione quando ci ripeteva le parole che ho scritte ora. Più tar­di toccò con mano che non si era ingannato, ed ora egli cer­tamente protegge e benedice coloro che gli prodigarono cure tanto affettuose. Io sono ancora nell'esilio, e, non sapendo come dimostrare la mia riconoscenza, ho un mezzo solo per sfogarmi: pregare per i congiunti che amo, e che furono e sono ancora tanto buoni verso me!
92 - Leonia era anche lei molto buona con me, faceva di tutto per distrarmi e divertirmi; io qualche volta le facevo dispiacere perché lei capiva bene che Maria era l'insostituibile per me.
E la mia Celina cara, che cosa non fece per la sua Teresa? La domenica invece di andare a passeggiare veniva a rinchiu­dersi per ore ed ore con una povera ragazzina che somigliava a un'idiota; realmente ci voleva molto amore per non fuggirmi. Ah, care sorelline, quanto vi ho fatto soffrire: nessuno vi ha procurato tanto dolore quanto io, e nessuno ha ricevuto tanto amore quanto voi me n'avete prodigato. Fortunatamente avro il Cielo per vendicarmi, il mio Sposo è ricchissimo e io attin­gerò nei tesori d'amore per restituirvi al centuplo tutto quello che avete sofferto per causa mia.
93 - La mia consolazione più grande quand'ero malata era di ricevere una lettera di Paolina. La leggevo e rileggevo fino a saperla a memoria. Una volta, Madre cara, lei mi mandò una clessidra e una delle mie bambole vestita da carmelitana; dire la mia gioia è cosa impossibile. Lo zio non era contento, diceva che, invece di farmi pensare al Carmelo, bisognava allontanarlo dal mio spirito, ma io sentivo, al contrario, che era la speranza di essere carmelitana a farmi vivere. Il mio piacere era lavorare per Paolina, le facevo delle cosine in carta bristol, e l'occupazione mia più grande era intrecciar corone di mar­gherite e di myosotis per la Vergine Santa; eravamo nel mese bello di maggio, tutta la natura si ornava di fiori e spirava leti­zia, soltanto il «fiorellino»languiva, e pareva appassito per sempre. Eppure avevo un sole presso di me, e quel sole era la statua miracolosa della Santa Vergine che aveva parlato per due volte a Mamma, e spesso, molto spesso, mi volgevo a lei. Un giorno vidi Papà entrare nella camera di Maria ove io ero coricata: a Maria dette parecchie monete d'oro con una espressione di grande tristezza, e le disse di scrivere a Parigi e chiedere delle Messe presso Nostra Signora delle Vittorie affinché facesse guarire la sua povera figlioletta. Ah, come mi commossi vedendo la fede e l'amore del mio re caro! Avrei voluto dirgli: «sono guarita!», ma gli avevo già dato troppe gioie false, e non erano i miei desideri a poter fare un miracolo, perché un miracolo ci voleva per guarirmi. Ce ne voleva uno, e lo fece Nostra Signora delle Vittorie. Una domenica (duran­te la novena delle Messe), Maria uscì in giardino lasciandomi con Leonia la quale leggeva accanto alla finestra; in capo a qualche minuto mi misi a chiamare a bassa voce: «Mamma... Mamma...». Leonia era abituata a intendermi chiamare sempre così, non ci fece caso. La cosa durò a lungo, allora chiamai più forte, e finalmente Maria tornò, vidi perfettamente quando entrò, ma non potevo dire che la riconoscevo, e continuai a chiamare sempre più forte: «Mamma». Soffrivo molto di quella lotta forzata e inspiegabile, e Maria ne soffriva forse più di me; dopo vani sforzi per dimostrarmi che era vicina a me, si mise in ginocchio accanto al mio letto con Leonia e Celina, si volse alla Vergine Santa e pregò col fervore di una madre la quale chiedesse la vita del figlio: in quel momento ottenne quello che desiderava.
94 - Non trovando soccorso sulla terra, la povera Teresa si era rivolta anche lei alla Madre del Cielo, la pregava con tut­to il cuore perché avesse finalmente pietà di lei... A un tratto la Vergine Santa mi parve bella, tanto bella che non avevo visto mai cosa bella a tal segno, il suo viso spirava bontà e tenerezza ineffabili, ma quello che mi penetrò tutta l'anima fu «il sorriso stupendo della Madonna». Allora tutte le mie sofferenze svani­rono, delle grosse lacrime mi bagnarono le guance, ma erano lacrime di una gioia senza ombre. Ah, pensai, la Vergine Santa mi ha sorriso, come sono felice! Ma non lo dirò a nessuno, perché altrimenti la mia felicità scomparirebbe. Senza alcuno sforzo abbassai gli occhi e vidi Maria che mi guardava con amore, pareva commossa, quasi capisse il favore che la Madon­na mi aveva concesso. Ah! era proprio a lei, alle commoventi preghiere di lei, che io dovevo la grazia del sorriso da parte della Regina dei Cieli. Vedendo il mio sguardo fisso sulla Ver­gine Santa, ella pensò: «Teresa è guarita!». Sì il fiore umile sta­va per rinascere alla vita, il raggio splendido che l'aveva riscal­dato non doveva interrompere i propri benefizi: agi non in modo subitaneo, bensì gradatamente, dolcemente, risollevò il fiore e lo rafforzò a tal segno che cinque anni dopo si aprì sulla montagna benedetta del Carmelo.
95 - Come ho detto, Maria aveva intuito che la Santa Ver­gine mi aveva concesso qualche grazia nascosta, perciò, appe­na fui sola con lei, mi chiese che cosa avevo visto e io non potei resistere alle sue domande così tenere e premurose; stu­pita vedendo il mio segreto scoperto senza che io l'avessi rive­lato, lo confidai tutto intero a Maria. Ahimè! Come avevo pre­sentito, la mia felicità scomparve e si mutò in amarezza; per quattro anni il ricordo della grazia ineffabile che avevo ricevu­ta fu per me una vera pena d'animo, dovevo ritrovare la mia gioia soltanto ai piedi di Nostra Signora delle Vittorie, allora mi venne restituita in tutta la sua pienezza... riparlerò più tardi di questa seconda grazia della Santa Vergine Maria. Ora deb­bo dirle, Madre mia cara, in qual modo la gioia si cambiò in tristezza. Maria dopo aver inteso il racconto ingenuo e sincero della «mia grazia», mi chiese il permesso di dirlo al Carmelo, io non potevo dire di no. Alla mia prima visita all'amato Car­melo, fui piena di gioia vedendo la mia Paolina con l'abito del­la Vergine: che momento bello e dolce per noi due! C'erano tante cose da dire che non riuscivo a dir nulla, avevo il cuore troppo pieno. La buona madre Maria Gonzaga c'era anche lei, e mi dimostrò mille prove d'affetto; vidi ancora altre religiose e in presenza loro fui interrogata riguardo alla grazia che avevo avuta, e se la Vergine portava il Bambino Gesù, se c'era molta luce, e così via. Tutte quelle domande mi turbarono e mi fece­ro dispiacere, io potevo dire una cosa sola: «la Vergine Santa mi era sembrata bellissima, e l'avevo vista che mi sorrideva». Soltanto il volto di lei mi aveva colpita, così, vedendo che le carmelitane s'immaginavano tutt'altra cosa (e d'altra parte già cominciavano le mie sofferenze d'animo riguardo alla mia malattia), mi figurai d'aver mentito. Senza dubbio, se avessi custodito il mio segreto, avrei anche conservato la mia felicità, ma la Vergine Santa ha permesso questo tormento per il bene dell'anima mia; forse avrei avuto, altrimenti, qualche pensiero di vanità, mentre così, trovandomi nella umiliazione, non pote­vo guardarmi senza un sentimento di profondo orrore. Ah! quello che ho sofferto, lo potrò dire soltanto in Cielo!


4. PROGRESSO NELLO STUDIO E FERVORE RELIGIOSO (1883~1886)

Al parlatorio delle Carmelitane - Attrazione per le letture - Ritor­no ad Alencon - Primo incontro con Gesù Eucaristico - Cresima - Penosa vita di collegio - Malattia degli scrupoli - Uscita di collegio e lezioni private - Stanza di studio - Leonia - Maria entra nel Carmelo - Risposta celeste.


96 - Parlando delle visite alle carmelitane, ricordo la prima, la quale ebbe luogo poco tempo dopo che Paolina era entrata. Ho dimenticato di parlarne, ma c'è un particolare che non deb­ho omettere. La mattina nella quale dovevo andare al parlatorio, mentre riflettevo sola sola nel mio letto (perché era li che facevo le mie orazioni più profonde, e, contrariamente alla Sposa dei cantici, vi trovavo sempre il mio Amato), mi domandai quale nome avrei avuto nel Carmelo; sapevo che c'era una suor Teresa di Gesù, e tuttavia il mio bel nome di Teresa non poteva essermi tolto. A un tratto pensai a Gesù Bambino che amavo tanto, e dis­si a me stessa: «Oh, come sarei felice di chiamarmi Teresa di Gesù Bambino!». Non dissi nulla in parlatorio del sogno che ave­vo fatto da sveglia, ma alla buona madre Maria di Gonzaga, men­tre domandava alle suore quale nome avrebbero potuto darini, venne in mente di chiamarmi col nome che avevo sognato. Gran­de fu la mia gioia, e quel felice incontro di pensieri mi parve una delicatezza del mio diletto Gesù Bambino.
97 - Ho omesso anche alcuni minimi particolari della mia infanzia prima che lei entrasse nel Carmelo; non le ho parlato del mio amore per le immagini e per la lettura. Eppure, Madre mia cara, debbo alle belle immagini che lei mi mostrava come ricompensa, una delle gioie più dolci e delle impressioni più forti che mi abbiano incitata a praticare la virtù. Dimenticavo il tempo mentre le guardavo, per esempio: l'umile fiore del Pri­gioniero divino mi diceva tante cose che mi diventava facile immergermi nel raccoglimento. Vedendo che il nome di Paoli­na era scritto sotto il piccolo stelo fiorito, avrei voluto che ci fosse anche quello di Teresa, e mi offrivo a Gesù per essere il fiore suo.
98 - Non sapevo giocare, però mi piaceva molto la lettu­ra, e avrei passato la vita leggendo; fortunatamente avevo, per guidarmi, degli angeli sulla terra, i quali mi sceglievano libri tali da divertirmi nutrendomi spirito e cuore, e poi dovevo passare soltanto un tempo limitato a leggere, ciò che mi costa­va sacrifici gravi: a volte dovevo interrompere proprio in mez­zo al passo più avvincente. Questa attrattiva per la lettura è durata fino a quando sono entrata nel Carmelo. Dire il nume­ro di libri che mi è passato per le mani non sarebbe possibile, e tuttavia il Signore non ha mai permesso che ne leggessi uno solo capace di farmi del male. E vero che, leggendo certi rac­conti cavallereschi, non sempre intendevo, in un primo momen­to, il vero senso della vita; ma ben presto il Signore mi faceva sentire che la gloria vera è quella che durerà eterna, e che per arrivare ad essa non è necessario compiere opere sfolgoranti, bensì nascondersi e praticar la virtù sì che la mano sinistra ignori ciò che fa la destra...
99 - Così, leggendo le gesta patriottiche delle eroine di Francia, in particolare quelle della Venerabile Giovanna d'Arco, avevo gran desiderio d'imitarle, mi pareva di sentire in me lo stesso ardore dal quale erano animate, la medesima ispirazione celeste. Allora ricevetti una grazia che ho sempre considerata come una delle maggiori per me, perché a quell'età non ricevevo lucicome ora che ne sono inondata. Pensai che ero nata per la gloria e cercando il mezzo di raggiungerla, il Signore m'ispirò i sentimenti che ho scritti qui sopra. Mi fece capire altresì che la mia gloria non apparirà agli occhi degli uomini, e consisterà nel divenire una grande santa!!! Questo desiderio potrà sembrar temerario se si considera quanto ero debole e imperfetta, e quanto lo sono ancora dopo sette anni passati in religione, tuttavia sento ancora la stessa fiducia ardita di diven­tare una grande santa, perché non conto sui meriti miei non avendone alcuno, ma spero in colui che è la Virtù, la Santità stessa. Lui solo, contentandosi dei miei deboli sforzi, mi ele­verà fino a sé e, coprendomi dei suoi meriti infiniti, mi farà santa. Non pensavo allora che bisogna soffrire molto per arri­vare alla santità, ma il Signore non tardò a mostrarmelo, man­dandomi le prove che ho raccontato prima. Ora debbo ripren­dere il mio racconto al punto in cui l'ho lasciato.
100 - Tre mesi dopo che fui guarita, Papà ci fece fare il viaggio di Alencon. Era la prima volta che ritornavo là, e la mia gioia fu grande quando rividi i luoghi nei quali era trascor­sa la mia infanzia, soprattutto quando potei pregare sulla tom­ba di Mamma e chiederle di proteggermi sempre. il Signore mi ha fatto la grazia di non conoscere la società mondana se non quel tanto da potere disprezzarla e tenermi lon­tana da essa. Potrei dire che proprio durante il soggiorno in Alencon feci il mio primo ingresso nel mondo. Tutto era gioia, felicità intorno a me, ero festeggiata, carezzata, ammirata; in una parola, la vita mia per quindici giorni fu disseminata di fiori. Confesso che questa vita aveva un fascino per me. La Saggezza ha ben ragione quando dice che «la malia delle futi­lita' mondane seduce anche lo spirito alieno dal male». A dieci anni il cuore si lascia abbagliare facilmente, e perciò considero una grande grazia di non essere rimasta ad Alencon; gli amici che avevamo là erano troppo mondani, sapevano troppo intrec­ciare le gioie della terra col servizio a Dio. Non pensavano abbastanza alla morte, e tuttavia la morte è venuta a visitare un gran numero di persone che ho conosciuto, giovani, ricche, felici! Mi piace tornare col pensiero ai luoghi incantatori dove esse hanno vissuto, e domandarmi dove sono, che cosa giova­no loro i castelli, i parchi nei quali le ho viste godere le como­dità della vita? E vedo che tutto è vanità e afflizione di spirito sotto il sole... e che l'unico bene è amare Dio con tutto il cuore, ed essere, quaggiù, poveri di spirito.
101 - Forse Gesù ha voluto mostrarmi il mondo innanzi alla prima visita che mi avrebbe fatta, affinché io scegliessi più liberamente la via sulla quale mi sarei impegnata con lui. Al tem­po della mia prima Comunione mi è rimasto impresso nel cuore come un ricordo sgombro da nuvole; mi pare che non avrei potuto avere disposizioni migliori, e le mie pene d'anima mi lasciarono per quasi un anno. Gesù voleva farmi gustare una gioia più perfetta che fosse possibile in questa valle di lacrime.
102 - Si ricorda, Madre mia cara, dell'incantevole libret­to che lei mi aveva composto tre mesi avanti la mia prima Comunione? Proprio quelle pagine mi aiutarono a preparare il cuore in modo conseguente e rapido, perché, se da lun­go tempo già lo preparavo, bisognava ben dargli uno slancio nuovo, empirlo di fiori nuovi affinché Gesù potesse riposarsi in lui gradevolmente. Ogni giorno facevo un gran numero di «pratiche», che formavano altrettanti fiori, facevo un numero anche più grande di aspirazioni che lei aveva scritte nel mio libriccino per ogni giorno, e quegli atti d'amore formavano i bocci. Ogni settimana lei mi scriveva una cara lettera che mi empiva l'anima di pensieri profondi e mi aiutava a praticare la virtù, era una consolazione per la sua figliolina la quale faceva un sacrificio tanto grande accettando di non essere preparata sera per sera sulle ginocchia di lei, Madre mia, com'era stata preparata Celina.
103 - Maria sostituiva Paolina per me: mi sedevo in grem­bo a lei e ascoltavo avidamente ciò che mi diceva, mi pare che tutto il cuore di lei, tanto grande, tanto generoso, si versasse in me. Come i guerrieri illustri insegnano ai loro figli il mestiere delle armi, così Maria mi parlava dei combattimenti della vita, e della palma riservata ai vittoriosi. E ancora mi parlava delle ricchezze immortali che è facile ammassare ogni giorno, e della sciagura che è passare senza allungare la mano per cogliere quei tesori, poi mi indicava il modo per essere santa per mezzo del­la fedeltà alle cose minime; mi dette il foglietto «Della rinun­cia» che io meditavo con delizia. Com'era eloquente, la mia Madrina cara! Avrei voluto non essere sola per ascoltare i suoi insegnamenti profondi, mi sentivo così commossa da credere, nella mia ingenuità, che i più grandi peccatori si sarebbero commossi come me e che, abbandonando le ricchezze caduche, avrebbero cercato soltan­to quelle del Cielo.
104 - A quel tempo nessuno ancora mi aveva insegnato a fare orazione, eppure io ne avevo gran desiderio; senonché Maria mi trovava già abbastanza pia, e mi permetteva soltanto le mie preghiere solite. Un giorno una maestra dell'Abbazia mi domandò cosa facessi nei giorni di vacanza quando mi trovavo sola. Le risposi che andavo dietro il mio letto in un po' di posto vuoto che c'era, e che potevo chiudere con la tenda: lì, «pensavo». - «Ma a che cosa pensi?» - mi domandò ancora. -«Penso al buon Dio, alla vita... all'eternità, insomma, penso!». La buona religiosa rise molto di me, più tardi le piaceva di ricordarmi il tempo in cui pensavo, e mi domandava. - «Pensi ancora?...». Capisco ora che facevo orazione senza saperlo, e che già Dio misericordioso m'istruiva in segreto.
105 - I tre mesi di preparazione passarono rapidi, ben presto dovetti entrare in ritiro e per questo diventare colle­giale interna, dormendo all'Abbazia. Non posso dire il ricordo dolce che mi ha lasciato quel ritiro; veramente, se ho molto sofferto in collegio, sono stata largamente compensata dalla felicità ineffabile di quei pochi giorni passati nell'attesa di Gesù. Non credo che si possa gustare quella gioia fuori dalle comunità religiose; essendo poche le bambine, era facile occu­parsi di ciascuna in particolare, e veramente le nostre maestre ci prodigavano in quel momento delle cure materne. Si occu­pavano ancor più di me che delle altre, ogni sera la prima mae­stra veniva, con la sua lucernetta, ad abbracciarmi nel mio let­to, mostrandomi grande affetto. Una sera, commossa per la bontà di lei, le dissi che le avrei confidato un segreto, e tirando fuori misteriosamente il mio libretto prezioso che era sotto il guanciale, glielo mostrai con gli occhi che brillavano di gioia. La mattina, trovavo bello di veder tutte le scolare che si alzava­no appena sveglie, e di fare anch'io come loro, ma non ero abi­tuata a vestirmi e sistemarmi da sola. Maria non era li per far­mi i riccioli, perciò ero costretta a presentare timidamente il mio pettine alla maestra della stanza ove ci si vestiva, che ride­va vedendo una figliolona di undici anni che non sapeva sbro­gliarsi; tuttavia mi pettinava, ma non con la dolcezza di Maria, e io non osavo gridare, ciò che mi accadeva tutti i giorni sotto la mano delicata della mia madrina. Ebbi modo di costatare, durante il ritiro, che ero una bambina carezzata e curata come ce ne sono poche sulla terra, soprattutto fra quelle rimaste pri­ve di mamma! Ogni giorno Maria e Leonia venivano a trovar­mi con Papà, il quale mi colmava di pensierini cari, cosicché non soffersi per la privazione della famiglia, e niente oscurò il cielo bello del mio ritiro.
106 - Ascoltavo con grande attenzione gli insegnamenti che ci dava il reverendo Don Domin, ed anche li riassussievo scrivendoli; riguardo ai miei pensieri non ne volli scrivere alcuno pensando che me li sarei ricordati bene, ciò che fu vero. Era per me gran felicità di andare con le suore a tutte le funzioni; mi facevo notare in mezzo alle compagne per un grande crocifisso che Leonia mi aveva regalato, e che io passavo nella mia cintola come fanno i missionari; quel crocifisso susci­tava ammirazione nelle buone religiose le quali pensavano che io, portandolo, volessi imitare la mia sorella carmelitana. Era ben verso lei che sciamavano i miei pensieri, sapevo che la mia Paolina era in ritiro com'ero io, non già perché Gesù si desse a lei, bensì perché lei si dava a Gesù e perciò questa solitudine passata nell'attesa mi era doppiamente cara.
107 - Ricordo che una mattina mi avevano fatto andare all'infermeria perché tossivo molto (da quando ero stata mala­ta, le mie maestre facevano una grande attenzione a me, per un leggero mal di testa mi mandavano a prendere aria o a riposar­mi nell'infermeria, e lo stesso se mi vedevano più pallida del solito). Vidi entrare la mia Celina cara, aveva ottenuto il per­messo di venire a vedermi nonostante il ritiro, per offrirmi un'immagine che gradli tanto, era «il fiore del divino Prigionie­ro». Come fu dolce per me ricevere questo ricordo dalla mano di Celina! Quanti pensieri d'amore ho avuto per merito di lei!
108 - La vigilia del gran giorno ricevetti l'assoluzione per la seconda volta, la mia confessione generale mi lasciò una grande pace nell'anima, e il buon Dio permise che nessuna nube venisse a turbarla. Nel pomeriggio chiesi perdono a tutta la famiglia che venne a trovarmi, ma riuscii a parlare soltanto con le lacrime, ero troppo commossa... Paolina non c'era, tut­tavia sentivo che era vicina a me col cuore; mi aveva mandato una bella immagine per mezzo di Maria, non mi stancavo d'ammirarla e farla ammirare da tutti. Avevo scritto al buon padre Pichon per raccomandarmi alle sue preghiere, dicendogli anche che ben presto sarei stata carmelitana, e che allora sarebbe stato lui il mio direttore. (E ciò accadde davvero quat­tro anni dopo, poiché gli aprii l'anima quando fui al Carmelo). Maria mi dette una lettera di lui, realmente ero troppo felice! Tutte le gioie mi arrivavano insieme. Più di tutto mi fece piace­re nella lettera di lui questa frase: «Domani salirò all'altare per lei e per la sua Paolina!». Paolina e Teresa furono l'8 maggio più che mai unite, poiché Gesù pareva le confondesse inon­dandole con le sue grazie...
109 - Un «giorno bello tra tutti» arrivò finalmente. Quali ricordi intraducibili mi hanno lasciato nell'anima i particolari minimi di quella giornata di Cielo! il risveglio gioioso dell'auro­ra, i bacirispettosi e teneri delle maestre e delle compagne grandi. La stanza piena di fiocchi di neve di cui ciascuna bimba veniva rivestita a turno. Soprattutto l'entrata nella cappella e il canto mattinaledell'inno tanto bello «O santo Altare che gli Angeli circondano!». Ma non voglio entrare nei particolari, ci sono cose che per­dono il loro profumo appena esposte all'aria, ci sono pensteri dell'anima che non si possono tradurre in linguaggio terreno senza perdere il loro senso intimo e celeste; sono come quella “Pietra bianca che sara data al vincitore, e sulla quale è scritto un nome che nessuno conosce se non colui che la riceve”. Ah, come fu dolce il primo bacio di Gesù all'anima mia! Fu un bacio d'amore, mi sentivo amata, e dicevo anche: «Vi amo, mi do a Voi per sempre». Non ci furono domande, non lotte, non sacrifici; da lungo tempo Gesù e la povera pic­cola Teresa si erano guardati e si erano capiti... Quel giorno non era più uno sguardo, ma unafusione, non erano più due, Teresa era scomparsa come la goccia d'acqua nell'oceano. Gesù restava solo, era il padrone, il re. Teresa gli aveva pur chiesto di toglierle la libertà, perché la libertàle faceva paura, lei si sentiva così debole, così fragile, che voleva unirsi per sempre alla Forza divina! La sua gioia era troppo grande, trop­po profonda perché lei potesse contenerla, lacrime deliziose la inondarono ben presto, con grande stupore delle compagne le quali più tardi dicevano una all'altra: «Perché ha pianto? Ave­va qualche cosa che le dispiaceva?». - «No, era piuttosto per non avere la Mamma con sé, o la sorella che lei ama tanto e che è carmelitana». Non capivano che tutta la gioia del Cielo venendo in un cuore, questo cuore esiliato non poteva soppor­tarla senza spargere lacrime. Oh no, l'assenza di Mamma non mi dava dolore nel giorno della prima Comunione, non c'era forse il Cielo nell'anima mia? E Mamma non aveva lì il suo posto da gran tempo? Non piangevo l'assenza di Paolina: sen­za dubbio sarei stata felice di vedermela accanto, ma da lungo tempo il mio sacrificio era accettato; in quel giorno, soltanto la gioia mi empiva il cuore, io mi univo a colei che si dava irrevo­cabilmente a Gesù: e Gesù si dava a me con tanto amore!
110 - Nel pomeriggio fui io a pronunciare l'atto di consa­crazione alla Madonna; era ben giusto che io parlassi a nome delle mie compagne alla mia Mamma del Cielo, io che ero rimasta priva così giovane della Mamma terrena. Misi tutto il cuore nel parlarle, nel consacrarmi a lei, come una bambina che si getta nelle braccia di sua madre, e le chiede di vegliare su lei. Mi pare che la Vergine Santa dovette guardare il suo fio­rellino e sorridergli, non era lei che l'aveva guarito con un sor­riso visibde? Non aveva proprio lei deposto nel calice dell'umi­le fiore il suo Gesù, il Fiore dei campi, il Giglio della valle?
111 - La sera di quel bel giorno ritrovai la mia famiglia ter­rena; già il mattino, dopo la Messa, avevo abbracciato Papà e tutti i miei cari parenti, ma allora fu il vero riunirsi; Papà pren­dendo la mano della sua piccola regina si avviò verso il Carmelo. Allora vidi la mia Paolina divenuta la sposa di Gesù, la vidi col velo bianco come il mio, con la corona di rose... Ah, la mia gioia fu senza amarezza, speravo di raggiungerla presto e attendere con lei il Cielo! Non fui insensibile alla festa di famiglia che ebbe luogo la sera della mia prima Comunione; l'orologio bello che mi regalò il mio re mi fece gran piacere, ma la gioia era tran­quilla e niente turbò la mia pace intima. Maria mi prese con sé nella notte che segui quel bel giorno, perché i giorni più radiosi sono seguiti da tenebre, soltanto il giorno della prima, unica, eterna Comunione del Cielo sarà senza tramonto!
112 - Il giorno dopo fu bello anch'esso, ma improntato di malinconia. Il vestito che Maria mi aveva comprato, tutti i regali che avevo ricevuti non mi colmavano il cuore, soltanto Gesù poteva contentarmi, sospiravo il momento nel quale avrei potuto riceverlo una seconda volta. Un mese circa dopo la prima Comunione andai a confessarmi per l'Ascensione, e osai chiedere il permesso di fare la santa Comunione. Al diso­pra di tutte le speranze, il sacerdote me la permise ed ebbi la felicità d'inginocchiarmi alla balaustra fra Papà e Maria; che ricordo dolce ho conservato di quella seconda visita di Gesù! Le lacrime mi caddero ancora con indicibile soavità, ripetevo tutto il tempo a me stessa le parole di san Paolo: «Non sono più io che vivo, è Gesù che vive in me». Dopo quella Comu­nione, il mio desiderio di ricevere il buon Dio divenne più e più grande, ottenni il permesso per tutte le feste principali. La vigilia di quei giorni felici Maria mi prendeva la sera sulle ginocchia e mi preparava come l'aveva fatto per la prima Comunione; ricordo una volta in cui mi parlò del dolore, dicendomi che forse non avrei camminato su quella via, ma che Dio mi porterebbe sempre come un bambino.
113 - Un giorno dopo, le parole di Maria mi tornarono alla mente, sentii nascere in me un gran desiderio di soffrire, e al tempo stesso l'intima sicurezza che Gesù mi riservava un gran numero di croci; mi sentii inondata di consolazioni così grandi che la considero come una delle grazie maggiori nella mia vita. Soffrire divenne il mio ideale, aveva un fascino che mi rapiva senza che io lo conoscessi bene. Fino allora avevo sofferto sen­za amare la sofferenza, da quel giorno ne provai un vero amo­re. Sentivo anche il desiderio di amare soltanto il buon Dio, di non trovar gioia che in lui. Spesso durante le mie comunioni ripetevo le parole della Imitazione: «O Gesù! Dolcezza ineffa­bile cambiate per me in amarezze tutte le consolazioni della terra!» Questa preghiera usciva dalle mie labbra senza sfor­zo, senza costrizione; mi pareva di ripeterla non per mio vole­re, ma come una bambina la quale ripeta parole suggeritele da una persona amica. Più tardi le dirò, Madre mia cara, in qual modo Gesù si è compiaciuto di attuare il mio desiderio, e come lui solo fu sempre la mia dolcezza ineffabile; se ne parlas­si subito sarei costretta ad anticipare il tempo della mia vita di giovane, mentre ho ancora da darle molti particolari riguardo all'infanzia.
114 - Poco tempo dopo la prima Comunione entrai nova­mente in ritiro per la Cresima. Mi ero preparata con grande cura a ricevere la visita dello Spirito Santo, non capivo che non si desse grande importanza a ricevere questo sacramento d'Amore. Comunemente si praticava un solo giorno di ritiro per la Cresima, ma poiché Monsignore non poté venire nel giorno stabilito, ebbi la consolazione di due giorni in solitudine. Per distrarci la nostra maestra ci condusse a Monte Cassino, e là colsi a piene mani le grandi margherite per la festa del Corpus Domini. Come era gioiosa l'anima mia! A somiglianza degli apostoli attendevo con felicità la visita dello Spirito Santo. Mi rallegravo al pensiero di essere ben presto perfetta cristiana, e soprattutto di avere sulla fronte eternamente la croce misterio­sa che il Vescovo traccia dando il sacramento. Finalmente arrivò il momento felice, non sentii un vento impetuoso nella discesa dello Spirito Santo, ma piuttosto quella brezza lieve, della quale il profeta Elia intese il murmure sul monte Horeb. In quel giorno ricevetti la forza per offrire, perché ben presto il martirio dell'anima mia doveva cominciare. Mi fu madrina la mia cara Leonia, era così commossa che non poté trattenersi dal piangere tutto il tempo della cerimonia. Con me ricevette la santa Comunione, perché io ebbi ancora la felicità di unirmi a Gesù in quel bel giorno.

115 - Dopo le deliziose indimenticabili feste, la mia esi­stenza rientrò nel quotidiano, cioè dovetti riprendere la vita di collegiale che mi era così penosa. Nel momento della mia pri­ma Comunione amavo quella convivenza con bambine della mia età, tutte piene di buona volontà, le quali avevano preso come me la risoluzione di praticare seriamente la virtù; ma bisognava riprendere i contatti con delle scolare ben diverse, distratte, riottose alla regola, e ciò mi rendeva infelice. Ero un carattere gaio, ma non sapevo lanciarmi nei giochi dell'età mia; spesso durante la ricreazione mi appoggiavo ad un albero, e da là contemplavo il colpo d'occhio, abbandonandomi a riflessioni serie! Avevo inventato un gioco che mi piaceva, cioè di seppel­lire i poveri uccellini morti che trovavo sotto gli alberi; varie scolare vollero aiutarmi, cosicché il nostro cimitero divenne gra­ziosissimo, piantato d'alberi e di fiori, il tutto proporzionato alle dimensioni dei nostri piccoli implumi. Mi piaceva anche di raccontare novelle di mia invenzione, via via che mi venivano in mente, allora le mie compagne mi circondavano premurosa­mente, e talvolta delle scolare grandi si univano al gruppo del­le ascoltatrici. La medesima storia durava per parecchi giorni perché mi piaceva di renderla sempre più interessante, a mano a mano che vedevo le impressioni che suscitava e che si mani­festavano sul viso delle mie compagne, ma presto la maestra mi proibì di continuare la mia professione di oratore, volendo­ci veder correre e nondiscorrere.
116 - Ricordavo con facilità il senso delle cose che impa­ravo, ma duravo fatica a imparare parola per parola; così per il catechismo durante l'anno che precedette la mia prima Comu­nione, chiesi quasi tutti i giorni il permesso d'imparano duran­te la ricreazione; i miei sforzi ottennero buon successo, e fui quasi sempre la prima. Se per caso, per una sola parola dimen­ticata, perdevo il mio posto, il mio dispiacere si manifestava con lacrime amare che il reverendo Don Domin non sapeva come calmare. Era ben contento di me (non quando piange­vo), e mi chiamava il suodottorino, a causa del mio nome di Teresa. Una volta la scolara che mi seguiva non seppe fare alla sua compagna la domanda di catechismo. Il reverendo Padre, avendo fatto il giro di tutte le scolare, ritornò a me, e disse che voleva vedere se meritavo davvero il mio posto di prima. Nella mia profonda umiltà, non aspettavo altro; mi alzai e dissi con sicurezza quello che mi era stato richiesto senza fare uno sba­glio, con grande stupore di tutte. Dopo la mia prima Comu­nione, il mio zelo per il Catechismo continuò fino a quando uscii dal collegio. Riuscivo benissimo nei miei studi, ero quasi sempre la prima, i più grandi successi miei erano la storia e lo stile. Tutte le mie maestre mi consideravano come una scolara molto intelligente, ma lo stesso non accadeva presso lo zio, ove passavo per una piccola ignorante, buona e dolce, dotata di un giudizio dritto, ma incapace e maldestra...
117 - Non mi sorprende questa opinione che gli zii ave­vano e che senza dubbio hanno ancora nei miei confronti, non parlavo quasi mai, essendo timidissima; quando scrivevo, la calligrafia dagatto e l'ortografia molto... naturale non erano fatte per sedurre. Nei lavoretti di cucito, ricamo e altri, riuscivo bene, è vero, secondo le mie maestre, ma il modo goffo e mal­destro con cui tenevoil mio lavoro giustificava l'opinione poco vantaggiosa che avevano di me. Io considero ciò come una gra­zia; il buon Dio volendo per sé solo tutto il mio povero cuore, esaudiva già la mia preghiera «cambiando in amarezza le conso­lazioni della terra». Ne avevo tanto più bisogno in quanto non sarei stata insensibile alle lodi. Spesso vantavano dinanzi a me l'intelligenza degli altri, mai la mia, allora io conclusi che non ne avevo, e mi rassegnai a vedermene privata.
118 - Il cuore mio sensibile e affettuoso si sarebbe dato facilmente se avesse trovato un altro cuore atto a capirlo. Cer­cai di fare amicizia con le bambine dell'età mia, soprattutto con due, volevo loro bene, e da parte loro esse mi amavano quanto sapevano e potevano; ma ahimè! com'è angusto e volu­bile il cuore delle creature! Ben presto vidi che il mio affetto non era compreso. Una delle amiche dovette rientrare in fami­glia, e tornò qualche mese dopo; durante la sua assenza io ave­vo pensato a lei conservando preziosamente un anellino che mi aveva regalato. Quando la rividi, la gioia mia fu grande, ma ahimè! ottenni soltanto uno sguardo indifferente... Il mio amo­re non era stato capito, lo sentii, e non mendicai un'affezione che mi veniva rifiutata, ma il buon Dio mi ha dato un cuore così amante e sensibile che, quando ha voluto bene puramen­te, vuoI bene sempre, e così continuai a pregare per la mia compagna, e l'amo ancora.
119 - Vedendo che Celina voleva bene ad una delle nostre maestre, volli imitarla, ma, non sapendo ingraziarmi le creature, non ci riuscii. Oh, felice ignoranza! Quanti mali mi ha evitati! Come ringrazio Gesù di avermi fatto trovare «soltanto amarezze nelle amicizie della terra»! Con un cuore come il mio, mi sarei lasciata prendere e tagliare le ali, allora in qual modo avrei potu­to«volare e riposarmi»? Un cuore abbandonato agli affetti del­le creature come può unirsi intimamente con Dio? Sento che questo non è possibile. Senz'aver bevuto alla coppa avvelenatadell'amore troppo ardente delle creature, sento che non posso ingannarmi; ho visto tante anime sedotte da quella falsa luce volare come povere farfalle e bruciarsi le ali, poi tornare verso la vera dolce luce dell'amore che dava ad esse ali nuove più bril­lanti e più leggere, affinché potessero volare a Gesù, Fuoco divi­no «che brucia senza consumare» Ah, lo sento, Gesù mi sapeva troppo debole per espormi alla tentazione. Forse mi sarei lasciata bruciare tutta dalla luce ingannatrice se l'avessi vista brillare ai miei occhi... Non è stato così, ho incontrato solamente amarezza là dove anime più forti incontrano la gioia e se ne distaccano per fedeltà. Io non ho dunque alcun merito per non essermi abbandonata all'amore delle creature, poiché da esso fui preservata per grande miseri­cordia del Signore! Riconosco che senza lui avrei potuto cade­re in basso quanto santa Maddalena, e la profonda parola di Nostro Signore a Simone mi echeggia nell'anima con grande dolcezza.
120 - Lo so, «colui al quale si rimette meno, ama meno» ma so anche che Gesù mi ha rimesso più che a santa Maddale­na perché mi ha rimesso in antictpo, impedendomi di cadere. Ah, come vorrei poter chiarire ciò che sento! Ecco un esempio che spiegherà il mio pensiero. Suppongo che il figlio d'un medico abile incontri sul suo cammino una pietra che lo faccia cadere; cadendo, egli si rompe un arto, e subito il padre corre a lui, lo rialza con amore, cura le ferite impegnando tutte le risorse della sua arte, e ben presto il figlio completamente gua­rito gli dimostra la propria riconoscenza. Certamente questo figlio ha ben ragione d'amare suo padre! Ma farò ancora un'altra ipotesi. Il padre, avendo saputo che sulla strada di suo figlio si trova una pietra, si affretta, va innanzi a lui, la rimuove senza che nessuno lo veda. Certamente questo figlio, oggetto della sua tenerezza previdente, non sapendo la sventura dalla quale è liberato per mezzo di suo padre, non testimonierà a lui la propria riconoscenza e l'amerà meno che se fosse stato gua­rito da lui. Ma se viene a conoscere il pericolo al quale è stato sottratto, non amerà di più suo padre? Ebbene, io sono quel figlio, oggetto dell'amore previdente di un Padre il quale non ha mandato il Verbo a riscattare i giusti bensì i peccatori. Vuole che io lo ami perché mi ha rimesso non già molto, bensìtutto. Non ha atteso che io lo amassi molto, come santa Mad­dalena, ma ha voluto che io sappia com'egli mi ha amata d'un amore d'ineffabile previdenza, affinché ora io ami lui alla follia! Ho inteso dire che non si è mai incontrata un'anima pura la quale ami più di un'anima penitente; ah! come vorrei smentire questa parola!
121 - Mi accorgo di essere ben lontana dal mio sogget­to, e perciò mi affretto di tornare ad esso. L'anno che seguì la mia prima Comunione trascorse quasi tutto senza prove inti­me per l'anima mia, fu durante il mio ritiro per la seconda Comunione che mi vidi assalita dalla terribile malattia degli scrupoli. Bisogna essere passati attraverso questo martirio per capirlo bene: dire quanto ho sofferto per un anno e mezzo, mi sarebbe impossibile. Tutti i miei pensieri e le mie azioni più semplici divenivano per me oggetto di turbamento; non avevo riposo se non dicendoli a Maria, e ciò mi costava molto, perché mi credevo obbligata a dire i pensieri stravaganti che avevo riguardo a lei stessa. Appena deposto il fardello, gustavo un attimo di pace, ma questa pace passava come un lampo, e ben pre­sto il martirio ricommciava. Che pazienza è stata necessaria a Maria cara, per ascoltarmi e non darmai segni di noia! Appena tornavo dall'Abbazia, lei si metteva ad arricciarmi i capelli per il giorno dopo (perché tutti i giorni, per far piacere a Papà, la pic­cola regina aveva i capelli arricciati, con grande stupore delle compagne e soprattutto delle maestre le quali non vedevano bambine così curate dai loro genitori), durante la seduta non smettevo di piangere e di raccontare tutti i miei scrupoli. Alla fine dell'anno Celina, avendo finito i suoi studi, rien­trò a casa, e la povera Teresa, obbligata a tornare sola a scuola, non tardò ad ammalarsi: l'unica attrattiva che la tratteneva trì collegio era vivere con la sua Celina inseparabile, senza lei la «figlioletta» non poté restarci.
122 - Uscii dunque dall'Abbazia all'età di tredici anni, e continuai la mia istruzione prendendo varie lezioni per settima­na da «Madame Papinau». Era un'ottima persona erudita, ma aveva un po' il tono della zitella; viveva con sua madre, ed era incantevole vedere il ménage che facevano in tre (perché la gatta era di famiglia ed io avevo da tollerare che mi facesse le fusa sopra i quaderni, e mi toccava anche ammirare la sua eleganza). Avevo il vantaggio di vivere nell'intimità della famiglia; i Buis­sonnets essendo troppo lontani per le gambe un po' invecchiate della mia docente, lei aveva chiesto che andassi a casa sua. Quando arrivavo, generalmente trovavo soltanto la vecchia signora Cochain la quale mi guardava «con i suoi grandi occhi chiari», e poi chiamava con voce calma e sentenziosa: «M.me Papinau... Ma.. .d'mòizelle Thè.. .rèse è qui». La figlia rispondeva prontamente con voce infantile: «Eccomi, Maman». E la lezione cominciava.
123 - Queste lezioni avevano in più il vantaggio (oltre all'istruzione che ricevevo) di farmi conoscere il mondo... Chi l'avrebbe creduto! In quella stanza arredata all'antica, ingom­bra di libri e quaderni, assistevo spesso a visite di ogni genere: preti, signore, giovanette, ecc. La signora Cochain faceva il più possibile le spese della conversazione per lasciare alla figlia il modo di darmi lezione, ma in quei giorni non imparavo molto; col naso nel libro udivo tutto ciò che dicevano, ed anche quel­lo che sarebbe stato meglio per me non udire; la vanità s'insi­nua tanto facilmente nel cuore! Una signora diceva che avevo bei capelli... un'altra, uscendo, e credendo di non essere inte­sa, domandava chi fosse quella giovanetta così carina; e così tali parole, tanto più lusinghiere quanto meno erano dette in presenza mia, mi lasciavano nell'anima una compiacenza dalla quale capivo facilmente di essere piena di amor proprio.
124 - Oh, come ho compassione delle anime che si per­dono! E così facile smarrirsi nei sentieri fioriti di questo mon­do... senza dubbio per un'anima un poco elevata, la dolcezza che il mondo offre è mescolata con amarezza, e il vuoto immenso dei desideri non potrebbe essere colmato dalle lodi d'un istante... Ma se il mio cuore non fosse stato innalzato ver­so Dio fin dal primo risveglio, se il mondo mi avesse sorriso fin dal mio entrare nella vita, che sarei divenuta? Oh, Madre mia cara, con quanta riconoscenza canto le misericordie del Signo­re! Egli mi ha, come dice la Sapienza, «ritirata dal mondo pri­ma che il mio spirito fosse corrotto dalla sua malizia e che le sue apparenze ingannevoli avessero sedotta l'anima mia». La Ver­gine Santa vegliava anche lei sul suo fiore umile, e non voleva vederlo appassire al contatto delle cose terrene, perciò lo portò sopra il suo monte prima che esso sbocciasse. Aspettando quel momento felice la piccola Teresa cresceva in amore verso la sua Mamma del Cielo; per provarle questo amore ella fece un atto che le costò molto, e che io cercherò di raccontare breve­mente, nonostante la lunghezza di esso.
125 - Quasi subito dopo il mio ingresso nell'Abbazia, ero stata ricevuta nell'Associazione dei santi Angeli; mi piacevano molto le pratiche di devozione che essa imponeva, poiché pro­vavo un'attrattiva particolare a pregare gli spiriti beati del Cie­lo e soprattutto quello che il buon Dio mi ha dato come com­pagno nel mio esilio. Qualche tempo dopo la mia prima Comu­nione, il nastro d'aspirante alle Figlie di Maria sostituì quello dei santi Angeli, ma io lasciai l'Abbazia quando ancora non ero stata accolta nell'associazione della Santa Vergine. Essendo uscita prima di aver compiuto i miei studi, non avevo il permesso di entrare come ex-allieva; confesso che questo privile­gio non eccitava il mio desiderio, ma pensando che tutte le mie sorelle erano state «Figlie di Maria», temetti di essere meno di loro figlia della mia Madre dei Cieli, e andai molto umilmente (benché mi costasse), a chiedere di essere ricevuta nell'associa­zione della Santa Vergine all'Abbazia. La prima maestra non volle rifiutarmi, ma mise come condizione che io rientrassi due giorni per settimana nel pomeriggio per dimostrare se ero degna di essere ammessa. Ben lungi dal farmi piacere, questo permesso mi costò moltissimo; non avevo come le altre ex-allie­ve, una maestra amica con la quale passare varie ore; così mi contentavo di andare a salutare la maestra, poi lavoravo in silenzio per tutta la lezione di cucito o ricamo. Nessuno faceva attenzione a me, e così salivo alla tribuna della cappella, e rimanevo davanti al Santissimo fino al momento in cui Papà veniva a prendermi; era la sola consolazione: Gesù non era forse il mio unico amico? Non sapevo parlare che a lui, le con­versazioni con le creature, perfino le conversazioni pie, mi stancavano l'anima. Sentivo che è meglio parlare a Dio che di Dio, perché si mescola tanto amor proprio nelle conversazioni spirituali! Ah, proprio per la Santa Vergine soltanto venivo all'Abbazia... talvolta mi sentivo sola, molto sola, come nei giorni della mia vita di collegio quando passeggiavo triste e malata nel cortile grande, ripetevo le parole che mi facevano sempre rinascere nel cuore la pace e la forza: «La vita è la tua nave e non la tua dimora». Già da piccolissima ritrovavo coraggio in questo verso; ancora oggi, nonostante gli anni che cancellano tante impressioni di pietà infantile, l'immagine del­la nave affascina l'anima mia e l'aiuta a sopportare l'esilio. Anche la Sapienza dice che: «La vita è come la nave che rom­pe le acque agitate e non lascia dietro sé traccia del proprio passaggio». Quando penso a queste cose, l'anima ia s'immer­ge nell'infinito, mi sembra già di toccare la riva eterna. Mi pare di ricevere l'abbraccio di Gesù, di vedere la mia Madre del Cielo venirmi incontro con Papà... Mamma... i quattro angeli... Credo di godere finalmente e per sempre della vera, dell'eter­na vita in famiglia...
126 - Prima di veder la famiglia riunita al focolare paterno dei Cieli, dovevo passare attraverso tante separazioni! L'anno nel quale fui accolta tra le Figlie della Vergine Santa, mi rapì la mia cara Maria, l'unico sostegno della mia anima... Era Maria che mi guidava, mi consolava, mi aiutava a praticare la virtù; era il mio solo oracolo. Senza dubbio, Paolina m'era rimasta bene addentro nel cuore, ma Paolina era lontana, così lontana da me! Avevo sofferto il martirio per assuefarmi a vivere senza lei, per accettare tra lei e me dei muri impenetrabili; ma finalmente ave­vo riconosciuto la triste realtà. Paolina era perduta per me, qua­si allo stesso modo come se fosse morta. Mi amava ancora, pregava per me, ma, agli occhi miei, la mia Paolina cara era divenuta una Santa, la quale non doveva più capire le cose della terra; e le miserie della povera Teresa, se lei le avesse conosciute, avrebbero dovuto farla stupire e impe­dirle di amar tanto la sorellina. D'altra parte, quand'anche aves­si voluto confidarle i miei pensieri come ai Buissonnets, non avrei potuto farlo, i «parlatori» erano riservati a Maria. Celina ed io avevamo il permesso di venire alla fine, appena in tempo per sentirci stringere il cuore... Così avevo realmente Maria sola, ella mi era indispensabile, dicevo i miei scrupoli unicamente a lei, ed ero tanto obbediente che il mio confessore non ha cono­sciuto mai la mia brutta malattia; gli dicevo soltanto il numero di peccati che Maria mi aveva permesso di confessare, non uno di più, e in tal modo avrei potuto passare per l'anima meno scrupolosa della terra, nonostante che lo fossi all'ultimo grado. Maria sapeva dunque tutto ciò che accadeva nell'anima mia, conosceva anche il desiderio di entrare nel Carmelo, e io l'ama­vo tanto che non potevo vivere senza lei.
127 - Tutti gli anni la zia c'invitava a turno da lei a Trou­ville, a me sarebbe piaciuto tanto andarci, ma con Maria! Quando non ce l'avevo, mi annoiavo molto. Tuttavia una volta ebbi veramente piacere a Trouville, fu l'anno del viaggio di Papà a Costantinopoli; per distrarci un poco (perché erava­mo tanto dispiaciute sapendo Papà così lontano), Maria ci mandò, Celina e me, a passare quindici giorni in riva al mare. Mi ci divertii molto perché avevo la mia Celina. La zia ci pro­curò tutti i piaceri possibili: passeggiate sul somaro, pesca delle triglie, e così via. Ero ancora molto bambina, nonostante i miei dodici anni e mezzo; ricordo la mia gioia quando mi misi dei bei nastri azzurro-cielo che la zia mi aveva regalato per i capelli; ricordo anche di essermi confessata proprio a Trouville di quel piacere fanciullesco che mi pareva un peccato. Una sera ebbi un'esperienza che mi sorprese molto. Maria (Guérin) la quale era quasi sempre malaticcia,piangiucchiava spesso; allora la zia l'accarezzava, le dava i nomi più teneri, e la cara cuginetta continuava, nonostante ciò, a dire lacrimando che aveva mal di capo. Io che avevo mal di testa quasi ogni giorno, e non me ne lamentavo, una sera volli imitare Maria, e mi sentii in dovere di lacrimare sopra una poltrona in un angolo del salotto. Subito Giovanna e la zia si occuparono di me: «Che cos'hai?». - «Ho mal di testa». Ma pare che non mi si addicesse lamentarmi, non potei mai persuaderle che il mal di capo mi facesse piangere; invece di coccolarmi, mi parlarono come a una persona grande, e Giovanna mi rimproverò la poca fiducia nella zia, perché pen­sava che avessi una inquietudine di coscienza: msomma, fui pagata a mie spese, ben risoluta a non imitar più gli altri, e capii la favola «dell'asino e del canino». Ero l'asino che, viste le carezze prodigate al canino, era venuto a mettere le sue povere zampe sulla tavola per ricevere la sua parte di baci; ahimè! se non ricevetti le bastonate come il povero animale, ricevetti dav­vero il soldino adatto per me, e quel soldino mi guarì per sem­pre dalla voglia d'attirar l'attenzione; l'unico sforzo che avevo fatto per questo scopo mi era costato troppo! L'anno seguente, cioè quello in cui la mia cara Madrina partì, la zia m'invitò ancora, ma questa volta sola, e mi trovai tanto spaesata, che entro due o tre giorni ero malata, e bisognò che mi riconducessero a Lisieux; la malattia che temevano fosse grave, in realtà era soltanto nostalgia dei Buissonnets, appena ebbi messo piede a casa, tornò la salute... Ed era a quella bimba li che il buon Dio stava per togliere l'unico appoggio che l'attaccasse alla vita!
128 - Appena seppi la decisione di Maria, risolsi di non prendere più svago né piacere su questa terra. Da quando ero uscita dal collegio, mi ero installata nella ex stanza di pittura di Paolina e l'avevo accomodata a gusto mio. Era un vero bazar, un'accozzaglia di pietà e di curiosità, un giardino e una voliera... Così, sul fondo si stagliava una grande croce di legno nero senza il Cristo, alcuni disegni che mi piacevano; sopra un altro muro, un canestro guarnito di mussola e di nastri rosa con erbe fini e fiori; sulla quarta parete troneggiava, solo, il ritratto di Paolina a dieci anni; sotto esso c era una tavola sulla quale era posata una gabbia ampia che racchiudeva un gran numero di uccelletti, e questi, col loro cinguettio melodioso rompevano il capo ai visitatori, ma non già alla loro padronci­na che li amava tanto. C'era anche il «mobiletto bianco» pieno di libri miei di studio, quaderni, ecc... Su quel mobile era posata una statua della Vergine Santa con dei vasi sempre ornati di fiori naturali, e dei candelieri; intorno varie piccole statute di santi e sante, panierini in conchiglie, scatole di carta bristol, ecc.! Finalmente il mio giardino era sospeso davanti alla finestra nella quale curavo alcuni vasi da fiori (i più rari che potessi trovare); avevo ancora una giardiniera nell'interno del «mio museo», e ci mettevo la mia pianta privilegiata. Davanti alla finestra era situata la mia tavola coperta con un tappeto verde, e su quel tappeto avevo posto, proprio in mez­zo, una clessidra, una statuetta di san Giuseppe, un porta-oro­logi, dei panieri di fiori, un calamaio, ecc... Alcune seggiole zoppe, e l'incantevole letto per la bambola di Paolina compIe­tavano tutto il mio arredamento. Davvero quella povera soffit­ta era un mondo per me, e come il signore de Maistre potrei comporre un libro chiamandolo «Viaggio intorno alla mia stanza». In questo ambiente restavo sola per ore intere stu­diando e meditando davanti alla bella vista che mi si stendeva dinanzi.
129 - Quando seppi della partenza di Maria, la mia stanza perse per me tutto il suo fascino, non volevo lasciare un solo attimo la sorella carissima che sarebbe partita presto. Quanti atti di pazienza le ho fatto fare! Ogni volta che passavo davanti alla porta di camera sua, bussavo fino a farmi aprire, e l'abbrac­ciavo con tutto il cuore, volevo far provvista di baci per tutto il tempo che dovevo rimanerne priva. Un mese prima che lei entrasse nel Carmelo, Papà ci condusse ad Alencon, ma que­sto viaggio non somigliò lontanamente al primo, tutto fu tri­stezza e amarezza per me. Non posso dire le lacrime che piansi sulla tomba di Mamma, perché avevo dimenticato di portare un mazzo di fiordalisi colti per lei. Mi addoloravo veramente per tutto! Ero il contrario di ora! perché il buon Dio mi ha fat­to la grazia di non abbattermi per veruna cosa passeggera. Quando ricordo il passato, l'anima mia trabocca di riconoscen­za vedendo i favori ricevuti dal Cielo, in me si è operato un cambiamento tale che non sono riconoscibile. E vero che desi­deravo la grazia «di avere un dominio pieno sulle mie azioni, di essere la padrona di me, e non la schiava».Queste parole del­la Imitazione mi commovevano profondamente, ma io dovevo acquistare direi quasi con i miei desideri questa grazia inestima­bile; ero ancora soltanto una bambina la quale pareva non aves­se altra volontà se non quella degli altri, e ciò faceva dire alla gente di Alencon che ero debole di carattere…
130 - Fu durante quel viaggio che Leonia compì un ten­tativo presso le clarisse; a me fece dispiacere il suo ingresso straordinario perché l'amavo molto, e non avevo potuto abbrac­ciarla prima che partisse. Mai dimenticherò la bontà e l'impaccio del mio carissimo Babbo quando ci annunciò che Leonia aveva già l'abito di cla­rissa. Come noi trovava che la cosa era assai strana, ma non voleva dir niente, vedendo quanto Maria era scòntenta. Ci con­dusse al convento e là sentii una stretta al cuore come mai avevo provato all'aspetto di un monastero, provavo l'effetto opposto a quello del Carmelo, ove tutto mi dilatava l'anima. La vista delle religiose non mi disse gran che di più, e non fui tentata di rimanere fra loro; quella cara Leonia era carina davvero nel suo nuovo abito, ci disse di guardar bene i suoi occhi perché non li avremmo più rivisti (le clarisse non si fanno vedere se non a occhi bassi), ma il buon Dio si contentò di due mesi di sacrifi­cio, e Leonia tornò a mostrare i suoi occhi blu spesso velati di lacrime. Lasciando Alencon credevo che sarebbe rimasta con le Clarisse e perciò mi allontanai col cuore grosso grosso dalla tri­ste via dellaMezzaluna. Eravamo tre sole, ormai, e ben presto la nostra cara Maria ci avrebbe lasciate anche lei... Il 15 ottobre fu il giorno della separazione Della gioiosa e numerosa famiglia dei Buissonnets rimanevano soltanto le due ultime... Le colom­be erano fuggite dal nido paterno, quelle che restavano avreb­bero voluto sciamare con loro, ma le ali erano ancor troppo deboli perché potessero spiccare il volo. Il buon Dio che voleva chiamare a sé la più piccola e debole di tutte, si affrettò a svilupparle le ali. Lui che si com­piace di mostrare la sua bontà e la sua potenza servendosi degli strumenti meno degni, volle ben chiamarmi prima di Celi­na la quale senza dubbio meritava più di me questo favore; ma Gesù sapeva quanto ero debole, e perciò mi nascose per prima nel cavo della roccia.
131 - Quando Maria entrò nel Carmelo ero ancora molto scrupolosa. Non potendo più confidarmi con lei, guardai verso il Cielo. Mi rivolsi ai quattro angeli che mi avevano preceduta lassù, perché pensavo che quelle anime innocenti non avendo mai conosciuto turbamenti né timori, dovevano aver pietà del­la loro sorellina la quale soffriva sulla terra. Parlai loro con semplicità di bambina, feci notare che, essendo l'ultima della famiglia, ero stata sempre la più amata, la più colmata di tene­rezza da parte delle sorelle; che se fossero rimasti essi sulla ter­ra, mi avrebbero certamente dato altrettante prove di affetto... La loro partenza per il Cielo non mi pareva una buona ragione pèr dimenticarmi, anzi, trovandosi essi a potere attingere dai tesori divini, dovevano prendere per me la pace, e dimostrarmi così che in Cielo si sa ancora amare! La risposta non si fece attendere, ben presto la pace inondò l'anima mia con le sue acque deliziose, e capii che, se ero amata sulla terra, lo ero anche nel Cielo... Da quel momento in poi la devozione creb­be verso i miei fratellini e sorelline, e mi piace di conversare spesso con loro parlando delle tristezze di questo esilio... del desiderio di raggiungerli presto nella Patria celeste!


5. ADOLESCENZA APERTA (1886-1887)

La grazia del Natale 1886 - Zelo per le anime e prima conquista -Attrazione per la storia e le scienze - Pie letture - Colloqui con Celina al «belvedere» - Disegno di entrare al Carmelo a 15 anni - Consenso del bab­bo - Ostacoli da parte dello zio Guérin e del superiore del monastero -Infruttuoso tentativo presso il Vescovo di Bayeux.


132 - Se il Cielo mi colmava di grazie, non era già perché io le meritassi, ero ancora tanto imperfetta! Avevo, è vero, un gran desiderio di praticare la virtù, ma lo facevo in un buffo modo, ecco un esempio: poiché ero l'ultima, non ero avvezza a servirmi, Celina faceva la camera ove dormivamo e io non facevo nessun lavoro domestico; dopo che Maria fu entrata nel Carmelo, mi accadeva talvolta, per far piacere al buon Dio di rifarmi il letto, oppure, in assenza di Celina, rimettere dentro, a sera, i suoi vasi da fiori: come ho detto, era per il buon Dio solo che facevo quelle cose, perciò non avrei dovuto attendere il grazie delle creature. Ahimè! Le cose andavano ben diversamente; se per disgrazia Celina non aveva l'aspetto felice e stupito per i miei servizietti, non ero contenta, e glielo provavo con le lacrime. Ero veramen­te insopportabile per la mia sensibilità eccessiva. Così, se mi accadeva di dare involontariamente un po' di dispiacere a qual­cuno cui volessi bene, invece di dominarmi e non piangere, ciò che ingrandiva il mio errore anziché attenuarlo, piangevo come una Maddalena, e quando cominciavo a consolarmi della cosa in sé, piangevo per aver pianto... Tutti i ragionamenti erano inutili e non potevo arrivare a correggermi di questo brutto difetto.
133 - Non so come io mi cullassi nel pensiero caro di entrare nel Carmelo, trovandomi ancora nelle fasce dell’infan­zia! Bisognò che il buon Dio facesse un piccolo miracolo per farmi crescerein un momento, e questo miracolo lo compì nel giorno indimenticabile di Natale; in quella notte luminosa che rischiara le delizie della Trinità Santa, Gesù, il Bambino piccolo e dolce di un'ora, trasformò la notte dell'anima mia in torrenti di luce... In quella notte nella quale egli si fece debole e sofferente per amor mio, mi rese forte e coraggiosa, mi rivesti delle sue armi, e da quella notte benedetta in poi, non fui vinta in alcuna battaglia, anzi, camminai di vittoria in vittoria, e cominciai, per così dire, una «corsa da gigante». La sorgente delle mie lacrime fu asciugata e non si apri se non raramente e difficilmente, e ciò giustificò la parola che mi era stata detta: «Piangi tanto nella tua infanzia, ché più tardi non avrai più lacrime da versare!». Fu il 25 dicembre 1886 che ricevetti la grazia di uscire dall'infanzia, in una parola la grazia della mia conversione completa. Tornavamo dalla Messa di mezzanotte durante la quale avevo avuto la felicità di ricevere il Dio forte potente. Arrivando ai Buissonnets mi rallegravo di andare a prendere le mie scarpette nel camino, quest'antica usanza ci aveva dato tante gioie nella nostra infanzia, che Celina voleva continuare a trattarmi come una piccolina, essendo io la più piccola della famiglia... A Papà piaceva vedere la mia felicità, udire i miei gridi di gioia mentre tiravo fuori sorpresa su sorpresa dalle «scarpe incantate» e la gaiezza del mio Re caro aumentava mol­to la mia contentezza; ma Gesù, volendomi mostrare che dove­vo liberarmi dai difetti dell'infanzia, mi tolse anche le gioie innocenti di essa; permise che Papà, stanco dalla Messa di mezzanotte, provasse un senso di noia vedendo le mie scarpe nel camino, e dicesse delle parole che mi ferirono il cuore: «Bene, per fortuna che è l'ultimo anno!...». Io salivo in quel momento la scala per togliermi il cappello; Celina, conoscendo la mia sensibilità, e vedendo le lacrime nei miei occhi, ebbe voglia di piangere anche lei, perché mi amava molto, e capiva il mio dispiacere. «Oh, Teresa! - disse -, non discendere, ti farebbe troppa pena guardare subito nelle tue scarpe». Ma Teresa non era più la stessa, Gesù le aveva cambiato il cuore! Reprimendo le lacrime, discesi rapidamente la scala, e comprimendo i battiti del cuore presi le scarpe, le posai dinanzi a Papà, e tirai fuori gioiosamentetutti gli oggetti, con l'aria beata di una regina. Papà rideva, era ridiventato gaio anche lui, e Celina credeva di sognare! Fortunatamente era una dolce realtà, la piccola Teresa aveva ritrovato la forza d'animo che aveva perduta a quattro anni e mezzo, e da ora in poi l'avrebbe conservata per sempre!
134 - In quella notte di luce cominciò il terzo periodo del­la mia vita, più bello degli altri, più colmo di grazie del Cielo. In un istante l'opera che non avevo potuto compiere in dieci anni, Gesù la fece contentandosi della mia buona volontà che non mi mancò mai. Come i suoi apostoli avrei potuto dirgli: «Signore, ho pescato tutta la notte senza prender nulla»; più misericordioso ancora per me che non per i suoi discepoli, Gesù prese egli stesso la rete, la gettò e la tirò su piena di pesci. Fece di me un pescatore di uomini, io sentii un desiderio grande di lavorare alla conversione dei peccatori, un desiderio che mai avevo provato così vivamente... Sentii che la carità mi entrava nel cuore, col bisogno di dimenticare me stessa per far piacere agli altri, e da allora fui felice! Una domenica, guardan­do una immagine di Nostro Signore in Croce, fui colpita dal sangue che cadeva da una mano sua divina, provai un dolore grande pensando che quel sangue cadeva a terra senza che alcuno si desse premura di raccoglierlo; e risolsi di tenermi in ispirito a piè della Croce per ricevere la divina rugiada, com­prendendo che avrei dovuto, in seguito, spargerla sulle ani­me... Un grido di Gesù sulla Croce mi echeggiava continuamen­te nel cuore: «Ho sete!». Queste parole accendevano in me un ardore sconosciuto e vivissimo... Volli dare da bere all'Ama­to, e mi sentii io stessa divorata dalla sete delle anime. Non era­no ancora le anime dei sacerdoti che mi attraevano, ma quelle dei grandi peccatori, bruciavo dal desiderio di strapparli alle fiamme eterne...
135 - Per eccitare il mio zelo, Dio mi mostrò che i miei desideri gli piacevano. Intesi parlare d'un grande criminale, che era stato condannato a morte per dei delitti orribili, tutto face­va prevedere ch'egli morisse nell'impenitenza. Volli a qualunque costo impedirgli di cadere nell'inferno, e per arrivarci usai tutti i mezzi immaginabili; consapevole che da me stessa non potevo nulla, offersi al buon Dio tutti i meriti infiniti di Nostro Signore, i tesori della santa Chiesa, finalmente pregai Celina di far dire una Messa secondo la mia intenzione, non osando chiederla io stessa per timore d'essere costretta a confessare ch'era per Pran­zini, il grande criminale. Non volevo dirlo nemmeno a Celina, ma lei mi fece domande così tenere e pressanti, che le confidai il mio segreto; ben lungi dal prendermi in giro, mi chiese di aiu­tarmi a convertire il mio peccatore; accettai con riconoscenza, perché avrei voluto che tutte le creature si unissero con me per implorare la grazia a favore del colpevole. Sentivo in fondo al cuore la certezza che i desideri nostri sarebbero stati appagati; ma, per darmi coraggio e continuare a pregare per i peccatori, dissi al buon Dio che ero sicura del suo perdono per lo sciagura­to Pranzini: e che avrei creduto ciò anche se quegli non si fosse confessato e non avesse dato segno di pentimento, tanta fiducia avevo nella misericordia infinita di Gesù, ma che gli chiedevo solamente «un segno» di pentimento per mia semplice consola­zione... La mia preghiera fu esaudita alla lettera! Nonostante la proibizione che Papà ci aveva posta di leggere giornali, non cre­detti disobbedire leggendo le notizie su Pranzini. il giorno seguente alla sua esecuzione capitale mi trovo in mano il giorna­le: «LaCroix». L'apro con ansia, e che vedo? Ali, le mie lacrime tradirono la mia emozione, e fui costretta a nascondermi. Pran­zini non si era confessato, era salito sul patibolo e stava per pas­sare la testa nel lugubre foro, quando a un tratto, preso da una ispirazione subitanea, si volta, afferra un Crocifisso che il sacer­dote gli presentava, e bacia per tre volte le piaghe divine! Poi l'anima sua va a ricevere la sentenza misericordiosa di Colui che dice: «Ci sarà più gioia in Cielo per un solo peccatore il quale faccia penitenza che per novantanove giusti i quali non ne han­nobisogno...».
136 - Avevo ottenuto «il segno» richiesto, e quel segno era la riproduzione fedele delle grazie che Gesù mi aveva fatte per attirarmi a pregare in favore dei peccatori. Non era davan­ti alle piaghe di Gesù, vedendo cadere il suo Sangue divino, che la sete delle anime mi era entrata nel cuore? Volevo dar loro da bere quel Sangue immacolato che avrebbe purificato le loro macchie, e le labbra del «mio primo figlio» andarono a posarsi sulle piaghe sante!!! Quale risposta dolcissima! Ah, dopo quella grazia unica, il mio desiderio di salvare anime crebbe giorno per giorno; mi pareva udire Gesù che mi dicesse, come alla Samaritana: «Dammi da bere». Era un vero scambio di amore; alle anime davo il Sangue di Gesù, a Gesù offrivo quel­le anime stesse rinfrescate dalla rugiada divina; mi pareva così di dissetano, e più gli davo da bere più la sete della mia povera anima cresceva, ed era quella sete ardente che egli mi dava come la bevanda più deliziosa del suo amore.
137 - In poco tempo il Signore aveva saputo trarmi fuori dal circolo angusto entro il quale mi dibattevo senza sapere come uscirne. Vedendo il cammino che mi fece percorrere, la mia riconoscenza e grande, ma bisogna bene che ne convenga, se il passo più importante era fatto, mi restavano ancora molte cose da lasciare. Liberato dagli scrupoli, dalla sensibilità ecces­siva, lo spirito mio si sviluppò. Avevo amato sempre il grande, il bello, ma a quel tempo fui presa da un desiderio estremo di sapere. Senza contentarmi delle lezioni e dei compiti che mi dava la mia maestra, mi dedicavo da sola a studi speciali di sto­ria e di scienze. Gli altri studi mi lasciavano indifferente, ma questi due rami attraevano tutta la mia attenzione; così, in pochi mesi, acquistai più nozioni che durante anni di studi. Ah, ciò non era che vanità e afflizione di spirito. Il capitolo della Imitazione che parla di scienze mi tornava spesso alla mente, ma io trovavo il modo per continuare ugualmente, e dicevo a me stessa che, essendo in età di studiare, non c'era male nel farlo. Credo di non avere offeso il buon Dio (nono­stante che riconosca di aver speso in queste cose un tempo inutile), perché impegnavo nello studio soltanto un limitato numero di ore, e per mortificare il mio desiderio troppo vivo di sapere, volevo non superare questo limite. Ero nell'età più pericolosa per le giovanette, ma il Signore ha fatto per me ciò che racconta Ezechiele nelle sue profezie: «Passandomi vicino, Gesù ha visto che il tempo era venuto per me di essere amata,ha fatto alleanza con me, e sono divenuta sua. Ha spiegato sopra di me il suo manto, mi ha lavata in profumi preziosi, mi ha ricoperta di vesti ricamate, abbigliandomi di collane e orna­menti inestimabili... Mi ha nutrita della farina più pura, di mie­le e d'olio in abbondanza... allora sono divenuta bella agli occhi di lui, ed egli ha fatto di me una regina potente!...».
138 - Si, Gesù ha fatto per me tutto questo, potrei ripren­dere ciascuna parola che ho scritto, e provare che si è avverata in mio favore, ma le grazie che ho raccontato poco fa offrono una prova sufficiente; parlerò soltanto del nutrimento che mi è stato prodigato «in abbondanza». Da lungo tempo mi nutrivo della «pura farina» contenuta nella Imitazione, era l'unico libro che mi facesse del bene, perché non avevo ancora trovato i tesori nascosti nel Vangelo. Sapevo a memoria quasi tutti i capitoli della mia cara Imitazione, questo libretto non mi abbandonava mai; d'estate lo portavo in tasca, d'inverno nel manicotto, in tal modo era divenuto tradizionale; in casa della zia si divertivano molto aprendolo a caso, e facendomi recitare il capitolo che si trovava davanti agli occhi. A quattordici anni, dato il mio desiderio di scienza, il buon Dio giudicò necessario unire alla «pura farina», «miele ed olio in abbondanza». Quel miele e quell'olio me li fece trovare nelle conferenze del reve­rendo Don Arminjon sulla fine del mondo presente e i misteri della vita futura. Questo libro l'avevano prestato a Papà le mie care Carmelitane, e così, contrariamente alle mie abitudini (perché non leggevo i libri di Papà), chiesi di leggerlo. Quella lettura fu anch'essa una delle grazie più grandi della mia vita, la feci accanto alla finestra della mia stanza da studio, e l'impressione che ancora ne risento è troppo intima e dolce perché io possa esprimerla. Tutte le grandi verità della religione, i misteri dell'eternità, immergevano l'anima mia in una felicità che non era di questa terra... Presentivo ciò che Dio riserva a coloro che l'amano (non già con l'occhio dell'uomo, bensì con quello del cuore), e vedendo che le ricompense eterne non hanno proporzione alcu­na con i leggeri sacrifici della vita, volevo amare, amare Gesù con passione, dargli mille prove d'amore finché lo potevo anco­ra. Copiai vari passi sul perfetto amore e sull'accoglienza che il buon Dio farà ai suoi eletti nel momento in cui egli stesso diverrà la loro grande, eterna ricompensa; ripetevo continuamente le parole d'amore che mi avevano incendiato il cuore.
139 - Celina era divenuta la confidente intima dei miei pensieri; dal Natale in poi, potevamo capirci, la distanza di età non esisteva più, poiché ero divenuta grande di statura e soprattutto in grazia. Prima di quel tempo mi lamentavo spes­so di non conoscere i segreti di Celina, lei mi diceva che ero troppo piccola, bisognava ch'io crescessi quanto «l'altezza di un panchettino» perché lei potesse aver fiducia in me. Mi pia­ceva di salire su quel prezioso panchettino quando ero accanto a lei, e le dicevo di parlarmi intimamente, ma il mio stratagem­ma era inutile, una certa distanza ci separava ancora! Gesù, che voleva farci progredire insieme, formò nei nostri cuori dei vincoli più forti di quelli del sangue. Ci fece diventare sorelle d'anima, in noi si tradussero in pratica queste parole del Cantico di san Giovanni della Croce (parlando al suo Sposo, la sposa esclama): «Seguendo le tue orme, le giovani percorrono con passo lieve il cammino, il contatto con la scintilla, il vino aromatico, suscitano in esse delle aspirazioni divinamente profu­mate». Sì, con passo ben lieve noi seguivamo le orme di Gesù; le scintille d'amore che egli seminava a piene mani nelle anime nostre, il vino delizioso e forte che ci dava da bere, faceva spari­re ai nostri occhi le cose passeggere, e dalle nostre labbra usciva­no aspirazioni d'amore da lui stesso ispirate. Com'erano dolci le conversazioni che avevamo ogni sera nel belvedere! Lo sguardo abbandonato alle lontananze, contemplavamo la luna bianca che si alzava lenta dai grandi alberi... i riflessi argentei che diffondeva sulla natura addormentata... le stelle che scintillava­no nell'azzurro profondo, il soffio lieve della brezza nella tarda sera faceva fluttuare le nuvole nevose, tutto elevava le anime nostre verso il Cielo, il Cielo bello del quale ancora non vedeva­mo se non il «rovescio limpido». Non so se sbaglio, ma mi pare che l'abbandono delle nostre anime somigliasse a quello di santa Monica con suo figlio quando, al porto di Ostia, restavano perduti nell'estasi alla vista delle meraviglie operate dal Creatore! Mi sembra che ricevevamo grazie di un ordine tanto elevato come quelle con­cesse ai grandi santi. Come dice l'Imitazione, il Signore si comunica talvolta in mezzo a un vivo splendore, oppure «vela­to dolcemente sotto ombre o simboli»; era in questo modo che si degnava manifestarsi alle nostre anime, ma com'era tra­sparente leggero il velo che ci nascondeva Gesù! il dubbio non era possibile, già la fede e la speranza non erano più necessarie, l'amore ci faceva trovare sulla terra colui che cerca­vamo. “Avendolo trovato solo, egli ci aveva dato il suo bacio, affinché nell’avvenire nessuno potesse disprezzarci”.
140 - Grazie tanto grandi non dovevano rimanere prive di frutti, e questi anzi furono abbondanti, la pratica della virtù ci divenne dolce e naturale; dapprincipio il mio viso tradiva spesso il combattimento, ma a poco a poco quella espressione scompar­ve; e la rinuncia mi divenne facile anche dal primo istante. Gesù l'ha detto: «A colui che possiede, verrà dato ancora, e sara nell'abbondanza». Per una grazia ricevuta fedelmente, egli me ne concedeva molte altre... Si dava egli stesso a me nella santa Comunione più spesso di quanto avrei osato sperare. Avevo pre­so per regola di condotta di fare, senza ometterne una sola, le Comunioni che il confessore mi avrebbe permesse, ma di lasciare che egli ne stabilisse il numero, senza mai chiedergliele. A quel tempo non avevo affatto l'audacia che possiedo ora, altrimenti avrei agito in modo diverso, perché sono ben sicura che un'ani­ma deve dire al confessore quale attrattiva provi per ricevere il suo Dio; non è per restare nel ciborio d'oro che egli discende ogni giorno dal Cielo, ma è per trovare un altro Cielo che gli è infinitamente più caro del primo: il Cielo dell'anima nostra, fatta a immagine sua, il tempio vivo dell'adorabile Trinità! Gesù vedeva il mio desiderio e la dirittura del mio cuore; permise che durante il mese di maggio il confessore mi dicesse di fare la santa Comunione quattro volte la settimana, e passa­to quel bel mese ne aggiunse una quinta per ogni volta che capitasse una festa. Quando uscii dal confessionale, piangevo con tanta dol­cezza; mi pareva che Gesù stesso volesse darsi a me, perché la mia confessione era breve, non dicevo mai una parola dei miei sentimenti intimi, essendo così dritta la via su cui camminavo, e così luminosa che non mi occorreva altra guida se non Gesù. Paragonavo i direttori a specchi fedeli che riflettessero Gesù nelle anime, e dicevo che per me il buon Dio non si serviva d'intermediario, bensì agiva direttamente! lasciarlo sospeso all'albero, bensì per presentano sopra una tavola servita brillantemente. Con una intenzione simile Gesù prodigava le sue grazie all'umile fiore. Gesù che, ai tempi della sua vita terrena, esclamava in un impeto di gioia: «Padre mio, ti benedico perché hai nascosto queste cose ai saggi e ai poten­ti, e le hai rivelate ai più piccoli!», voleva far rifulgere in me la sua misericordia; perché ero piccola e debole si abbassava verso me, m'istruiva in segreto delle cose del suo amore. Ah, se i sapienti, dopo aver passato la loro vita negli studi, fossero venuti a interrogarmi, senza dubbio sarebbero rimasti meravi­gliati vedendo una fanciulla di quattordici anni capire i segreti della perfezione, segreti che tutta la loro scienza non può sco­prire, poiché per possederli bisogna essere poveri di spirito! Come dice san Giovanni della Croce nel suo Cantico: «Non avevo né guida, né luce, fuorché quella che mi splende­va nel cuore, quella luce mi guidava più sicuramente che il ful­gore meridiano al luogo ove mi attendeva Colui che mi cono­sce perfettamente» 20 Quel luogo, era il Carmelo; prima di «riposarmi all'ombra di Colui che desideravo», dovevo pas­sare per tante prove, ma la chiamata divina era così pressante che, se anche avessi dovuto traversare le fiamme, l'avrei fatto per essere fedele a Gesù...
142 - Per incoraggiarmi nella vocazione trovai una sola ani­ma, quella della mia Madre cara... il cuore mio trovò nel suo una eco fedele, e senza di lei certamente non sarei arrivata alla riva benedetta che aveva accolto anche lei cinque anni prima sopra una terra permeata di rugiada celeste. Si, da cinque anni ero lon­tana da lei, Madre cara, credevo di averla perduta, ma al momen­to della prova fu la mano sua che m'indicò il cammino. Avevo bisogno di questo conforto, perché le mie conversazioni al Car­melo mi erano divenute più e più penose, non potevo parlare del mio desiderio d'entrare senza sentirmi respinta. Maria, pen­sando che fossi troppo giovane, faceva tutto il possibile per impedire il mio ingresso; lei stessa, Madre, per provarmi, tentava qualche volta di attenuare il mio ardore; insomma, se non avessi avuto davvero la vocazione, mi sarei fermata fin dall'inizio, per­ché incontravo ostacoli appena cominciavo a rispondere alla chiamata di Gesù. Non volli dire a Celina il mio desiderio di entrare così giovane nel Carmelo, e ciò mi fece soffrire di più perché mi era ben difficile nasconderle qualche cosa... La soffe­renza non durò a lungo, ben presto la mia sorella cara seppe la mia decisione, e lungi dal tentare di dissuadermi, accettò con coraggio mirabile il sacrificio che il buon Dio le chiedeva; per capire quanto fu grande, bisognerebbe sapere fino a che punto eravamo unite. Era, per così dire, la stessa anima che ci faceva vivere; da pochi mesi godevamo insieme la vita più dolce che due giovanette possano sognare; tutto, intorno a noi, rispondeva ai nostri gusti, la libertà più grande ci era concessa, insomma io dicevo che la nostra vita sulla terra era l'ideale della felicita'... Avevamo avuto appena il tempo per gustare questo ideale di feli­cita' che bisognava distoglierci da esso liberamente, e la mia Celi­na non si ribellò nemmeno per un attimo. Eppure, non era lei che Gesù chiamava per prima, e perciò ella avrebbe potuto lamentarsi; avendo la mia stessa vocazione, stava a lei partire: ma, come ai tempi dei martiri, quelli che restavano nella prigio­ne davano gioiosamente il bacio di pace ai fratelli i quali partiva­no primi per combattere nell'arena, e si consolavano col pensie­ro che forse essi erano riservati a certami ancora più grandi; così Celina lasciò che la sua Teresa si allontanasse e restò sola per la gloriosa e sanguinosa prova alla quale Gesù la destinava come privilegiata del suo amore!
143 - Celina divenne dunque la confidente delle mie lotte e dei miei patimenti, e prese parte ad essi come se si fosse tratta­to della vocazione sua; da parte di lei non avevo da temere opposizione, ma non sapevo che strada prendere per dare l'annuncio a Papà. Come parlargli di lasciar la sua regina, a lui che aveva sacrificato le sue tre maggiori? Ah, i conflitti intimi che ho sofferto prima di sentirmi il coraggio di parlare! E tutta­via bisognava che mi decidessi; avevo quattordici anni e mezzo, sei mesi soltanto ci separavano dalla bella notte di Natale nella quale avevo deciso di entrare, nell'ora stessa in cui, l'anno pre­cedente, avevo ricevuto la «mia grazia». Per fare la mia grande rivelazione scelsi il giorno di Pentecoste; per tutta la giornata supplicai i santi Apostoli di pregare per me, di ispirarmi le paro­le che dovevo dire... Toccava pure loro di aiutare la bambina timida che Dio destinava a divenire l'apostolo degli apostoli per mezzo della preghiera e del sacrificio! Soltanto nel pomeriggio, tornando dai vespri, trovai l'occasione per parlare al mio Babbo carissimo; era andato a sedersi sul bordo della vasca, e, con le mani giunte, contemplava le meraviglie della natura; il sole con la sua luce raddolcita dorava le cime dei grandi alberi ove gli uccelli cantavano gioiosi la loro preghiera della sera. il bel volto di Papà aveva una espressione celeste, sentivo che la pace gli inondava il cuore; senza dire una parola mi sedetti accanto a lui, gli occhi pieni di pianto; mi guardò con tenerezza, mi prese la testa e l'appoggiò sul suo cuore, dicendomi: «Che cos'hai, regi­netta? Confidamelo». Poi, alzandosi come per nascondere la propria emozione, camminò lentamente tenendomi sempre la testa appoggiata sul suo cuore. Tra le lacrime gli confidai che desideravo entrare nel Carmelo; allora le lacrime sue si unirono alle mie, ma non disse una parola per distogliermi dalla mia vocazione; si contentò di farmi osservare che ero molto giovane per prendere una decisione tanto grave. Ma io difesi la mia cau­sa tanto bene che Papà, con la sua natura semplice e dritta, fu convinto ben presto che il mio desiderio era di Dio stesso, e, nélla sua fede profonda, esclamò che Dio gli faceva un grande onore chiedendogli così le sue figlie. Continuamino a lungo la nostra passeggiata; il cuore mio, sollevato dalla bontà con la quale era stata accolta la sua rivelazione dal Padre mio incompa­rabile, si apriva dolcemente nel cuore di lui. Pareva che Papà godesse di quella gioia tranquilla che dà il sacrificio consumato, mi parlò come un santo, e vorrei ricordare le sue parole per scri­verle qui, ma ho conservato di esse un ricordo troppo profuina­to perché si possa tradurlo. Mi ricordo perfettamente l'azione simbolica che il mio Re compì senza saperlo. Si avvicinò ad un muricciolo, mi mostrò dei fiorellini bianchi che crescevano su di esso simili a gigli in miniatura, poi ne prese uno e me lo dette, spiegandomi con quanta cura il buon Dio l'aveva fatto nascere e l'aveva custodito fino a quel giorno; ascoltando, io credevo di udire la storia mia, tanta era la somiglianza tra quello che Gesù aveva fatto per il mughetto umile e per la piccola Thresa. Ricevet­ti quel fiore come una reliquia, e vidi che, cogliendolo, Papà aveva divelto tutte le radici esili senza spezzarle; quasi affinché vivesse ancora in un'altra terra più fertile del muschio tenero nel quale erano trascorsi i suoi primi giorni. Era proprio questo medesimo atto che Papà aveva fatto per me qualche istante pri­ma, permettendomi di salire la montagna del Carmelo e lasciare la vallata dolce nella quale avevo mosso i primi passi. Posi il tenue calice bianco nella mia Imitazione,al capito­lo intitolato: «Che bisogna amare Gesù al disopra di tutto», ed è ancora li, soltanto lo stelo si è spezzato proprio in un pun­to vicino alla radice, e il buon Dio sembra voglia dire con ciò che romperà presto i legami del suo fiorellino, e non lo lascerà appassire sulla terra
144 - Dopo avere ottenuto il consenso di Papà, credevo di potere entrare senza timore al Carmelo, ma delle vicende molto dolorose dovevano ancora mettere alla prova la mia vocazione. Tremando confidai allo zio la risoluzione presa. Mi rispose con tutta la possibile tenerezza, ma non mi dette il consenso alla partenza, anzi, mi proibì di riparlargli di voca­zione prima di avere diciassette anni. Era contrario alla pru­denza umana - diceva - fare entrare nel Carmelo una bambina di quindici anni; la vita di carmelitana essendo agli occhi del mondo una vita da filosofi, si farebbe gran torto alla religione permettendo ad una fanciulla priva di esperienza di abbrac­aarla. Tutti ne parlerebbero, ecc. ecc. Disse perfino che per decidere lui a farmi partire sarebbe stato necessario un miraco­lo. Vidi bene che tutti i ragionamenti erano inutili, perciò mi ritirai, col cuore immerso nell'amarezza più profonda. Unica mia consolazione: la preghiera. Supplicavo Gesù di fare il miracolo richiesto, poiché soltanto a quel prezzo avrei potuto rispondere al suo appello. Passò un tempo assai lungo prima che osassi parlare nuovamente allo zio; mi costava sommamente andare da lui; da parte sua pareva ch'egli non pensasse più alla mia vocazio­ne, ma ho saputo più tardi che la mia grande tristezza gli fece una impressione profonda a mio favore. Prima di far splende­re sull'anima mia un raggio di speranza, piacque al Signore di mandarmi un martirio molto doloroso che durò tre giorni, Oh, mai ho capito tanto bene come durante quella prova, il dolore della Vergine Santissima e di san Giuseppe alla ricerca di Gesù Bambino. Ero in un deserto triste, o piuttosto l'anima mia era simile allo scafo fragile privo di nocchiero, in balìa della tempesta. Lo so, Gesù era presente, assopito nella mia barchetta, ma la notte era così nera che non potevo vederlo; niente m'illuminava, nemmeno un lampo che solcasse le nuvo­le oscure. Certo, è ben triste il bagliore dei lampi, ma almeno, se il temporale fosse scoppiato apertamente, avrei potuto forse intravedere Gesù per un attimo... invece, la notte, profonda notte dell'anima... Come Gesù nel giardino dell'agonia mi sen­tivo sola, non trovavo consolazione né in terra, né dalla parte del Cielo, pareva che il buon Dio mi avesse abbandonata! E pareva anche che la natura prendesse parte alla mia tristezza amara; durante quei tre giorni il sole non ebbe un raggio, e la pioggia cadde a torrenti. (Ho notato che, in tutte le circostan­ze gravi della mia vita, la natura era l'immagine dell'anima mia. Nei giorni di pianto, il Cielo piangeva con me, nei giorni di gioia, il sole splendeva e l'azzurro era puro). Finalmente il quarto giorno, un sabato, giorno consacrato alla dolce Regina dei Cieli, andai a trovare lo zio. Come rimasi sorpresa vedendo che mi guardava e mi faceva entrare nel suo studio senza che io gli avessi detto nulla! Cominciò col farmi dolci rimproveri perché avevo paura di lui, e poi mi disse: «Non è necessario chiedere un miracolo, ho soltanto pregato il Signore che mi dia "un semplice orientamento del cuore" e sono stato esaudito». Ah! io non fui più tentata di implorare un miracolo perché, secondo me, il miracolo era già concesso, lo zio non era più lui. Senza più alcuna allusione alla «pruden­za umana» mi disse: «Tu sei un fiorellino che Dio vuole cogliere, e io non mi oppongo più».
145 - Questa risposta definitiva era degna davvero di lui. Per la terza volta questo cristiano di altri tempi permetteva che una figlia adottiva del suo cuore andasse a seppellirsi lontana dal mondo. La zia fu mirabile anche lei per tenerezza e pru­denza; non ricordo che, durante la mia prova, ella abbia detto una sola parola tale da aumentarmi la sofferenza, vedevo inve­ce che aveva grande compassione della povera piccola Teresa, così, quand'ebbi ottenuto il consenso dello zio tanto caro, lei mi dette il suo, ma non senza mostrarmi in mille modi che la mia partenza l'avrebbe addolorata. Ahimè! i nostri cari parenti erano ben lungi da prevedere che avrebbero dovuto rinnovare per due volte ancora il medesimo sacrificio. Ma, tendendo la mano per chiedere sempre, il buon Dio non la presentò vuota: i suoi amici poterono attingere in abbondanza la forza e il coraggio necessari... Ma ecco il cuore che mi trascina lungi dal mio soggetto, ci ritorno quasi con rincrescimento: dopo la risposta dello zio, lei capisce, Madre, con quale allegrezza ripresi la via dei Buissonnets, sotto «il bel cielo, da cui le nubi si erano completamente dissipate!». Anche nell'anima mia la notte era finita. Gesù svegliandosi mi aveva ridato la gioia, il fragore delle ondate si era placato: invece del vento della pro­va, un soffio lieve gonfiava la mia vela e io credevo di arrivare ben presto alla riva benedetta che scorgevo tanto vicina. In realtà era vicina, ma più di un temporale doveva ancora sorgere e, offuscando la vista del faro, farmi temere di essermi allonta­nata, senza ritorno, dalla spiaggia ambita.
146 - Pochi giorni dopo avere ottenuto il consenso dello zio, venni a trovarla, Madre mia cara, e le dissi la mia gioia che tutte le prove fossero passate; ma quale sorpresa ebbi, e quale dolore, sapendo da lei che il Superiore non acconsen­tiva al mio ingresso prima dei miei ventun anni! Nessuno ave­va pensato a questa opposizione, più invincibile delle altre; tuttavia, senza perdermi di coraggio, andai io stessa con Papà e Celina da Nostro Padre, per cercare di commuoverlo, dimostrandogli che avevo, sì, la vocazione al Carmelo! Ci rice­vette molto freddamente; il mio Babboineguagliabile ebbe un bell'unire le sue istanze alle mie, niente poté mutare la sua disposizione. Mi disse che non c'erano pericoli nell'attesa, che potevo ben fare vita carmelitana nella mia casa, che se non avessi preso la disciplina niente si sarebbe perduto, ecc. ecc. e finì per aggiungere che egli era soltanto il delegato di Monsi­gnore e che, se Monsignore stesso avesse voluto permettermi di entrare nel Carmelo, lui non avrebbe avuto più nulla da dire... Uscii tutta in lacrime dalla canonica, fortunatamente ero nascosta sotto l'ombrello, perché la pioggia cadeva a torrenti. Papà non sapeva come consolarmi... Mi promise di condurmi a Bayeux appena lo desiderassi perché ero risoluta a raggiunge­re il mio scopo, e dissi che sarei andata perfino dal Santo Padre, se Monsignore non mi avesse permesso di entrare nel Carmelo a quindici anni.
147 - Molti eventi accaddero prima del mio viaggio a Bayeux; al di fuori la vita mia pareva la stessa, studiavo, prendevo lezioni di disegno con Celina, e la mia abile maestra mi attribuiva molta disposizione per quell'arte. Soprattutto crescevo nell'amore del buon Dio, sentivo nel mio cuore degli slanci sconosciuti fino allora, talvolta avevo dei veri impeti d'amore. Una sera, non sapendo come dire a Gesù che lo ama­vo, e quanto desideravo ch'egli fosse amato e glorificato dovunque, pensai con dolore ch'egli non avrebbe mai potuto ricevere un solo atto d'amore dall'inferno; allora dissi al buon Dio che, per fargli piacere, avrei acconsentito a vedermi sprofon­data là, affinché egli fosse amato eternamente in quel luogo di bestemmia... Sapevo che questo non avrebbe potuto glorificare Dio, poiché egli desidera la nostra felicità, ma, quando si ama, si prova il bisogno di dire mille follie; parlavo in quel modo, non già perché non avessi la brama del Cielo, ma allora il mio Cielo, proprio mio, non era altro che l'Amore, e sentivo come san Paolo che niente avrebbe potuto distaccarmi da Dio che mi aveva rapita.
148 - Prima di lasciare il mondo, il buon Dio mi dette la consolazione di contemplare da vicino delle anime di bimbi; essendo la più piccola in famiglia, non avevo mai avuto questa gioia, ed ecco le tristi circostanze che me la procurarono: una povera donna, parente della nostra cameriera, morì nel fiore dell'età lasciando tre figli piccolissimi; durante la malattia di lei prendemmo a casa nostra le due piccine - la maggiore non aveva sei anni! -; io me ne occupai per tutta la giornata, ed era un gran piacere per me vedere come esse credessero tutto quello che dicevo io. Bisogna pure che il santo Battesimo depon­ga nelle anime un germe ben profondo delle virtù teologali, poiché si rivelano fin dall'infanzia, e poiché la speranza dei beni futuri basta per fare accettare dei sacrifici. Quando vole­vo vedere le mie due bimbette molto concilianti una verso l'altra, invece di promettere giocattoli e dolci a quella che avrebbe ceduto di fronte alla sorella, parlavo loro delle ricom­pense eterne che Gesù Bambino avrebbe dato, nel Cielo, ai bambini buoni; la maggiore, il cui intelletto cominciava a svi­lupparsi, mi guardava con occhi brillanti di gioia, mi faceva mille domande deliziose su Gesù Bambino e il suo Cielo bello, e mi prometteva con entusiasmo di cedere sempre a sua sorel­la; diceva che mai in vita sua avrebbe dimenticato ciò che le aveva detto la «signorina grande», mi chiamava così. Vedendo da vicino quelle anime innocenti, ho capito quale sventura sia di non formarle bene fin dal loro risveglio, allorché somigliano a una cera molle sulla quale si può imprimere la virtù, ma anche il male... ho capito ciò che Gesù ha detto nel Vangelo: «Che sarebbe meglio essere buttati in mare piuttosto che scan­dalizzare uno solo di quei bimbi». Ah! quante anime arrive­rebbero alla santità se fossero ben dirette!
149 - Lo so bene, il Signore non ha bisogno di nessuno per far l'opera sua, ma come permette a un giardiniere abile di coltivare piante rare e delicate, e gli dà le cognizioni necessarie per far ciò, riservando a sé la cura di fecondarle, così Gesù vuole essere aiutato nella sua divina cultura delle anime. Che cosa accadrebbe se un giardiniere maldestro non innestasse bene i suoi arbusti? Se non sapesse riconoscere la natura di ciascuno e volesse far sbocciare delle rose sopra un pesco? Farebbe morir l'albero che tuttavia era buono e atto a produrre frutti. Così bisogna sapere riconoscere fin dall'infanzia ciò che il buon Dio chiede alle anime, e assecondare l'azione della sua grazia, senza mai precorrerla né rallentarla. Come gli uccellini imparano a cantare ascoltando i loro genitori, così i figli imparano la scienza della virtù, il canto sublime dell'amor divino, dalle anime che dovranno formarli alla vita. Ricordo che tra i miei uccellini c era un canarino che cantava a meraviglia e avevo anche un piccolo fanello al quale prodigavo le mie cure materne, poiché l'avevo adottato prima che avesse potuto godere della libertà. Questo povero prigio­niero piccino piccino non aveva genitori che gli insegnassero a cantare, ma, ascoltando da mattina a sera il suo compagno canarino che gorgheggiava gioiosamente, volle imitarlo. Era un'impresa difficile per un fanello, e così la sua voce dolce ebbe un bel daffare per accordarsi con la voce vibrante del musico maestro. Era incantevole assistere ai tentativi del pic­colino, eppure da ultimo ebbero un buon successo, perché il canto suo, pur conservando una ben maggiore dolcezza, fu assolutamente lo stesso di quello del canarmo. Oh, Madre mia cara! E lei che mi ha insegnato a canta­re... è la voce sua che mi ha affascinata fin dall'infanzia ed ora ho la consolazione di sentir dire che le somiglio! So quanto ne sono ancora lontana, ma spero, nonostante la mia debolezza, ripetere eternamente lo stesso cantico suo.
150 - Prima che entrassi al Carmelo, ebbi ancora varte esperienze riguardo alla vita e alle miserie del mondo, ma questi particolari mi trascinerebbero troppo lontana; riprenderò il rac­conto della mia vocazione. Il 31 ottobre fu il giorno fissato per il mio viaggio a Bayeux. Partii sola con Papà, pieno il cuore di speranza, ma anche di emozione per la prospettiva di presentar­mi al vescovado. Per la prima volta in vita mia avevo da fare una visita senza essere accompagnata dalle mie sorelle, e si trattava della visita a un Vescovo. Io, che non provavo mai il bisogno di parlare se non per rispondere alle domande rivoltemi, dovevo spiegare io stessa lo scopo della mia visita, chiarire le ragioni che mi facevano chiedere l'ingresso nel Carmelo; insomma, dovevo dimostrare la solidità della mia vocazione. Quanto mi costò fare quel viaggio! Bisognò che il buon Dio mi concedesse una grazia ben particolare perché io potessi superare la mia grande timi­dezza. È vero altresì che «mai l’Amore trova impossibile, perché si crede tutto possibile e tutto permesso». Era davvero il solo amore di Gesù che poteva farmi vincere quelle difficoltà e quel­le che seguirono, perché egli si compiacque di farmi pagare la vocazione a prezzo di grandi prove. Oggi che godo la solitudine del Carmelo («riposandomt all’ombra di Colui che ho desiderato con tanto ardore»), mi pare di aver conseguito la mia felicità a prezzo lievissimo, e sarei pronta a sopportare sofferenze molto più gravi per con­quiderla, se non la possedessi ancora!
151 - Pioveva a torrenti quando arrivammo a Bayeux; Papà non voleva veder la sua reginetta entrare nel vescovado con la sua bella toilette tutta intrisa, e perciò la fece salire sopra un omnibus, fino alla cattedrale. Là cominciarono i guai: Monsignore e tutto il clero assistevano a un funerale solenne. La chiesa era piena di signore in lutto e tutti guardavano me, il mio vestito chiaro e il cappello bianco; avrei voluto uscir dalla chiesa, ma non c'era da pensarci a causa della pioggia, e per umiliarmi ancor più il buon Dio permise che Papà, nella sua semplicità patriarcale, mi facesse arrivare fino in cima alla cat­tedrale; non volendo fargli dispiacere, mi risolsi a farlo con buon garbo e procurai quella distrazione ai bravi abitanti di Bayeux che avrei desiderato non aver mai incontrati... Potei finalmente respirare a modo mio in una cappella dietro all'altar maggiore, e mi ci trattenni lungo tempo, pregando con fervo­re, mentre aspettavamo che spiovesse, e ci fosse possibile usci­re. Attraversando di nuovo la chiesa, Papà mi fece ammirare la bellezza dell'architettura, lo spazio pareva più ampio ora che era vuoto, ma quanto a me, un pensiero unico mi dominava, e io non potevo prender gusto a nulla. Andammo direttamente da Mons. Révérony, il quale era edotto del nostro arrivo, poiché aveva fissato egli stesso il giorno del viaggio; ma non c'era. Fummo costretti, perciò, a vagare per le strade, che mi parvero ben tristi; finalmente ritornammo verso la curia, e Papà mi fece entrare in un bell'albergo ove non feci onore al bravo cuoco. Povero caro Babbo mio, aveva per me una tene­rezza quasi incredibile, mi diceva di non affliggermi, ché certamente Monsignore avrebbe acconsentito.
152 - Ci riposammo, poi tornammo da Mons. Révérony; nello stesso tempo arrivò un signore, ma il vicario generale gli chiese gentilmente di volere attendere, e ci fece entrare per primi nel suo studio (quel povero signore ebbe il tempo di annoiarsi, perché la visita fu lunga). Mons. Révérony si mostrò molto amabile, ma credo che il motivo del nostro viaggio lo meravigliò assai; dopo avermi guardata sorridendo, e avermi fatto qualche domanda, ci disse: «Vi presenterò a Monsignor Vescovo, vogliate seguirmi». Vedendo che avevo le lacrime agli occhi, mi disse: «Ah!... vedo dei diamanti... non bisogna mostrarli a Monsignor Vescovo!». Ci fece attraversare varie stanze ampie, ornate da ritratti di vescovi; vedendomi in quei saloni, mi facevo l'effetto di una formica piccina piccina, e mi domandavo cosa avrei saputo dire a Monsignor Vescovo; egli passeggiava in mezzo a due sacerdoti in una galleria, vidi Mons. Révérony che gli diceva qualche parola, poi tornarono verso noi. Noi attendevamo nello studio; tre poltrone enormi erano collocate davanti al camino, e il fuoco era vivace ed alto. Vedemmo entrare Sua Eccellenza, Papà si inginocchiò accanto a me per ricevere la benedizione, poi Monsignor Vescovo fece accomodare Papà in una poltrona, si mise egli stesso di faccia a lui, e Mons. Révérony volle farmi occupare la poltrona in mezzo; rifiutai gentilmente, ma insistette, dicendomi di far vede­re se sapevo obbedire; mi sedetti subito senza altre riflessioni ed ebbi la confusione di vedere che lui prendeva una sedia, mentre io mi trovavo sprofondata in un seggio nel quale sareb­bero state comodamente ben quattro come me (più comode di me, perché io ero ben lungi dal sentirmi tale!). Speravo che Papà cominciasse a parlare, ma invece mi disse di spiegare io stessa a Monsignore lo scopo della nostra visita; lo feci con tut­ta la possibile eloquenza, ma “a Grandeur”, abituato all'eloquen­zanon parve gran che commosso dai miei ragionamenti; in sostituzione di questi, una parola sola del reverendo superiore mi avrebbe giovato di più; sventuratamente non ne potevo produrre, ed anzi l'opposizione di lui non patrocinava certo la mia causa.
153 - Monsignor Vescovo mi domandò se da lungo tem­po aspiravo al Carmelo. «Oh, si, Eccellenza, da ben lungo tem­po». - «Vediamo - rispose ridendo Mons. Révérony - non potrà dirci che ha questo desiderio da quindici anni». - «E vero - risposi sorridendo anch'io - ma non ci sono molti anni da defalcare, perché ho desiderato farmi religiosa fin dal risve­glio del mio intelletto, e ho desiderato il Carmelo, appena l'ho conosciuto bene, perché trovavo che, in quell'Ordine, sareb­bero appagate tutte le aspirazioni dell'anima mia». Non so, Madre mia, se dissi proprio così, credo di essermi spiegata anche peggio, ma insomma il senso era questo. Monsignor Vescovo, credendo di far piacere a Papà, cercò di farmi trattenere ancora qualche anno presso di lui, e rimase non poco stupito ed edificato vedendo che Papà stesso abbrac­ciava la mia causa e intercedeva affinché ottenessi il permesso di volar via a quindici anni. Tuttavia, tutto fu vano; il Vescovo disse che, prima di decidere, gli era necessario un colloquio col Superiore del Carmelo. Io non potevo ascoltare parola più penosa, perché conoscevo l'opposizione netta di Nostro Padre, perciò, senza tener conto della raccomandazione di Mons. Révérony, feci ben più che mostrare i miei diamanti a Monsi­gnor Vescovo, gliene detti e quanti! Vidi che era commosso: mi fece appoggiare la testa sulla sua spalla e mi confortò con tanta bontà come - pare - non aveva fatto mai con nessun altro. Mi disse che tutto non era perduto, che egli era ben con­tento del mio viaggio a Roma: avrei potuto assodare la mia vocazione, e intanto dovevo rallegrarmi invece di piangere; aggiunse che la settimana seguente egli stesso, poiché doveva andare a Lisieux, avrebbe parlato col reverendo parroco di San Giacomo, e certamente io avrei ricevuto la sua risposta in Italia. Capii che era inutile insistere, del resto non avevo altro da dire, poiché avevo esaurito tutte le risorse della mia elo­quenza.
154 - Monsignor Vescovo ci riaccompagnò fino al giardi­no, Papà lo divertì molto raccontandogli che mi ero fatta tirar su i capelli per sembrargli più grande di età... (E ciò non andò perduto perché Monsignor Vescovo non parla della sua «figlioletta» senza raccontare la storia dei capelli...). Mons. Révérony ci volle accompagnare fino in fondo al giardino, e disse a Papà che una cosa simile non si era mai vista: «Un padre altrettanto premuroso di dar sua figlia al Signore, quan­to questa fanciulla lo era di offrir se stessa!». Papà gli domandò varie spiegazioni riguardo al pellegri­naggio, tra l'altro in qual modo bisognava vestirsi per compari­re dinanzi al Santo Padre. Lo vedo ancora voltarsi a Mons. Révérony dicendogli: «Sto abbastanza bene così?...». Aveva anche detto a Monsignor Vescovo che, se non mi avesse per­messo di entrare nel Carmelo, io avrei chiesto questa grazia al Sommo Pontefice. Era ben semplice nelle parole e nei modi, il mio caro Re, ma era tanto bello... aveva una distinzione pro­prio naturale che dovette piacere molto a Monsignor Vescovo, avvezzo a vedersi circondato da personaggi i quali conosceva­no tutte le regole in uso nei salotti, ma non il «Re di Francia e di Navarra» in persona, con la sua «reginetta».
155 - Quando mi trovai per la strada, le lacrime ricomin­ciarono, non tanto a causa del dispiacere mio, quanto perché vedevo il mio Babbo carissimo che aveva fatto un viaggio inu­tile. Lui si sarebbe fatta una festa di mandare al Carmelo un telegramma per annunciare la risposta favorevole di Monsi­gnor Vescovo: e ora, invece, era costretto a rincasare senza risposta alcuna... Com'ero addolorata! Mi pareva che l'avveni­re fosse spezzato per sempre; più mi avvicinavo al termine, più vedevo le faccende imbrogliarsi. L’anima era sommersa nell'ama­rezza, ma anche nella pace, perché cercavo soltanto la volontà di Dio. Appena arrivata a Lisieux, andai a cercar conforto al Car­melo, e lo trovai da lei, Madre mia cara. Oh, non dimenticherò mai tutto quello che lei ha sofferto per causa mia. Se non temessi di profanarle, userei le parole che Gesù rivolgeva agli Apostoli, la sera della Passione: «Siete voi che siete stati sem­pre con me in tutte le mie prove...». Le mie dilette sorelle mi offersero delle dolci consolazioni.


6. RICORSO AL SOMMO PONTEFICE LEONE XIII (1887)

Assieme al padre e a Celina, in pellegrinaggio a Roma - N. Signora aelle Vittorie a Parigi - Attraverso la Svizzera - A Milano, Venezia, Padova e Bologna - Presso la santa Casa di Loreto - Arrivo a Roma e prinapali visite - Ai piedi del Santo Padre - Amarezza e fiducia - Pompei e Napoli -Sulla via del ritorno Assisi, Firenze, Genova - Lettera al Vescovo diocesa­no - Tre mesi d'attesa.


156 - Tre giorni dopo il viaggio di Bayeux, dovetti farne uno molto più lungo, quello alla Città Eterna! Ah, che viag­gio! Mi ha istruita di più da solo, che non i lunghi anni di stu­dio; mi ha mostrato come sia vano tutto ciò che passa, e come tutto sia afflizione di spirito sotto il sole! Eppure, ho visto del­le cose bellissime, ho contemplato le meraviglie dell'arte e del­la religione, soprattutto ho camminato sulla terra stessa dei santi Apostoli, la terra pervasa dal sangue dei martiri, e l'anima mia si è dilatata a contatto con le cose sacre... Sono felice d'essere stata a Roma, ma capisco le persone di mondo le quali pensarono che Papà mi facesse fare questo grande viaggio per cambiare le mie idee di vita religiosa; c'era, in realtà, di che scuotere una vocazione poco solida. Non avendo mai vissuto in mezzo a gente di gran mondo, Celina ed io ci tro­vammo in mezzo all'aristocrazia che componeva quasi da sola tutto lo stuolo dei pellegrini. Ben lungi dall'abbagliarci, tutti quei titoli e quei «de» ci parvero fumo e soltanto fumo. Da lon­tano mi avevano gettato, qualche volta, un po' di polvere negli occhi, ma da vicino vidi che «tutto ciò che brilla non è oro», e ho capito la parola della Imitazione: «Non correte dietro a quell'ombra che si chiama un gran nome, non desiderate legami numerosi, e nemmeno la particolare amicizia di alcuno». Capii che la grandezza vera si trova nell'anima e non nel nome, poiché, come dice Isaia: «il Signore darà un altro nome ai suoi eletti», ed anche san Giovanni dice che «il vincitore riceverà una pietra bianca sulla quale è scritto un nome nuovo che nessuno conosce, se non colui che lo riceve». Li sapremo dunque in Cielo, i nostri titoli di nobiltà. Allora ognuno rice­verà la lode che merita, e colui che avrà voluto essere il più povero in terra, il più dimenticato per amor di Gesù, proprio lui sarà il primo, più nobile e più ricco di tutti gli altri.
157 - Un’altra esperienza che feci riguarda i sacerdoti. Non avendo vissuto nella loro intimità, non potevo capire lo scopo principale della riforma del Carmelo. Pregare per i peccatori mi rapiva, ma pregare per le anime dei preti che io credevo pure più del cristallo, mi pareva sorprendente! Ah! ho capito la mia vocazione in Italia e non è stato andar troppo lontano per una conoscenza tanto utile! Per un mese ho vissuto con molti santi sacerdoti e ho visto che, se la loro dignità sublime li innalza al di sopra degli angeli, essi sono tuttavia uomini deboli e fragili Se dei santi preti che Gesù chiama nel Vangelo «il sale della terra» mostrano nella loro condotta che hanno un grande bisogno di preghiere, che dobbiamo dire dei tiepidi? Gesù non ha detto anche: «se il sale diviene scipito, con che cosa lo rafforzeremo?». Oh, Madre! Com è bella la vocazione che ha per scopo di conservare il sale destinato alle anime! È la vocazione del Carmelo, poiché il fine unico delle nostre preghiere e dei nostri sacrifici è d'essere apostoli degli apostoli, pregando per essi mentre evangelizzano le anime con le parole e soprattutto con gli esempi... Bisogna che mi fermi, se continuassi su que­sto argomento non finirei più!
158 - Madre mia, le racconterò il mio viaggio con vari particolari: le chiedo scusa se ne dirò troppi, non rifletto prima di scrivere, e lo faccio in tante volte diverse, a causa del mio poco tempo libero, che il mio racconto le parrà forse noioso. Mi consola pensare che in Cielo le riparlerò delle grazie che ho ricevute, e che potrò farlo, allora, in termini gradevoli e attraenti... Più niente interromperà i nostri intimi sfoghi e con uno sguardo solo lei avrà capito tutto. Ahimè! poiché debbo usare ancora il linguaggio della terra triste, cercherò di farlo con la semplicità di una bambina piccola, la quale conosce l'amore della mamma! Sette novembre: i pellegrini partirono da Parigi, ma Papà ci aveva condotte li qualche giorno prima per farci visi­tare la città. Una mattina alle tre attraversai Lisieux ancora addormentata; molte impressioni mi passarono nell'anima. Andavo verso l'ignoto e grandi cose mi attendevano là... Papà era gaio; quando il treno si mise in moto, egli cantò un vecchio ritornello: «Roule, roule, ma diligence, nous voili sur le grand chemin». Arrivati a Parigi nella mattinata, cominciammo subi­to a visitarla. ll Babbo nostro caro si stancò per farci piacere, e così in quattro e quattr'otto avemmo visto tutte le meraviglie della capitale. Per me ne trovai una sola che mi rapisse, e fu «Nostra Signora delle Vittorie». Ah,quello che ho provato ai piedi di lei, non lo saprei dire... Le grazie che mi concedette mi commossero tanto profondamente che soltanto le lacrime espressero la mia felicità, come nel giorno della prima Comu­nione... La Santa Vergine mi fece sentire che era stata proprio lei a sorridermi e guarirmi. Ho capito che vegliava su me, che ero sua figlia, e così potevo chiamarla soltanto«Mamma», per­ché questo nome mi pareva ancor più tenero che quello di «Madre». Con quanto fervore l'ho pregata di custodirmi sem­pre e di attuare presto il mio sogno nascondendomiall'ombra del suo manto verginale! Era questo uno dei primi desideri di bambina. Crescendo, avevo capito che nel Carmelo avrei potu­to trovare davvero il mantello della Santa Vergine, e verso quella montagna fertile tendevano tutti i miei desideri. Supplicai ancora Nostra Signora delle Vittorie di allonta­nare da me tutto ciò che avrebbe potuto offuscare la mia purezza; non ignoravo che in un viaggio come quello d'Italia ci sarebbero state molte cose atte a turbarmi; soprattutto perché non conoscevo il male temevo di scoprirlo, non avendo ancora sperimentato che «tutto èpuro per puri», e che l'anima sem­plice e dritta non vede male in nulla, poiché in realtà il male esiste soltanto nei cuori impuri e non negli oggetti insensibili. Pregai anche san Giuseppe affinché vegliasse su me; fin da quando ero bimba avevo avuto per lui una devozione che si confondeva col mio amore per la Madonna. Ogni giorno dice­vo la preghiera: «O san Giuseppe, padre e protettore dei ver­gini»; così intrapresi senza timore il mio viaggio lontano, ero protetta così bene che mi pareva impossibile aver paura.
159 - Dopo esserci consacrate al Sacro Cuore nella basilica di Montmartre, partimmo da Parigi il lunedi 7 di mattina li, ben presto avevamo fatto conoscenza con le persone del pelle­grinaggio. Io così timida che generalmente osavo appena parla­re, mi trovai completamente svincolata da quel difetto imba­razzante; con mia grande sorpresa parlavo liberamente con tutte le grandi signore, i sacerdoti e perfino con Monsignor Vescovo di Coutances. Mi pareva di aver vissuto sempre in quell'ambiente. Eravamo, credo, benvolute da tutti, e Papà sembrava orgoglioso delle sue due figlie; ma se lui era fiero di noi, noi lo eravamo egualmente di lui, perché non c'era in tut­to il pellegrinaggio un signore più bello né più distinto del mio caro Re; a lui piaceva vedersi vicine Celina e me: spesso quan­do non eravamo in carrozza, e che io mi allontanavo da lui, mi chiamava perché io gli dessi il braccio come a Lisieux... Mons. Révérony teneva d'occhio accuratamente tutti i nostri atti, vedevo spesso che ci guardava da lontano; a tavola, quando non ero di faccia a lui, trovava modo di chinarsi per vedermi e ascoltare ciò che dicevo. Senza dubbio voleva conoscermi per sapere se veramente ero capace di essere carmelitana: penso che sia rimasto soddisfatto del suo esame, perché alla fine del viaggio parve molto ben disposto verso me, ma a Roma non mi fu affatto favorevole, come dirò fra breve.
160 - Prima di arrivare alla «Città Eterna», meta del nostro pellegrinaggio, ci fu concesso di contemplare grandi meraviglie. Dapprima la Svizzera, con le sue vette che si perdono tra le nubi, con le cascate gentili zampillanti in mille modi diversi, le valli profonde colme di felci giganti e di eriche rosa. Ah, Madre mia cara, queste bellezze della natura profuse così largamente, hanno fatto tanto bene all'anima mia! Come l'hanno innalzata verso Colui che si è compiaciuto di gettare tanti capolavori sopra una terra d'esilio destinata a durare un giorno solo! Non avevo occhi bastanti per guardare. In piedi, allo sportello, rima­nevo quasi senza respiro; avrei voluto essere ai due lati del vago­ne perché, voltandomi, vedevo paesaggi incantevoli e affatto diversi da quelli che si stendevano dinanzi a me. Talvolta ci trovavamo in vetta a una montagna, ai nostri piedi si aprivano precipizi dei quali lo sguardo non toccava il fondo: parevano pronti a inghiottirci; in alto un villaggio incan­tevole con le sue casupole montanine e il campanile sul quale ondulavano mollemente pochi cirri bianco-lucenti. Lontano, un lago vasto, dorato dagli ultimi raggi; le acque pure e quiete si coloravano di azzurro e dei fuochi del tramonto, e presentavano ai nostri sguardi attoniti lo spettacolo più poetico e più affasci­nante che si possa vedere. In fondo all'orizzonte vasto si scorge­vano le montagne, le cui linee incerte sarebbero sfuggite ai nostri occhi se le cime nevose orlate di luce non avessero aggiunto un fascino di più al bel lago che ci rapiva...
161 - Guardando tutte queste bellezze, mi nascevano nell'anima pensieri profondi. Mi pareva di capire già la gran­dezza di Dio e le meraviglie del Cielo. La vita religiosa mi appariva tal quale ècon i suoi obblighi e i suoi sacrifici minuti consumati nell'ombra. Capivo quanto fosse facile ripiegarsi sopra se stessi, dimenticare il fine sublime della propria voca­zione, e mi dicevo: più tardi, nell'ora della prova, quando, pri­gioniera nel Carmelo, non potrò contemplare altro che un angolo di stelle, ricorderò ciò che vedo oggi: questo pensiero mi darà coraggio, dimenticherò facilmente i poveri miei inte­ressi vedendo la grandezza e la potenza del Dio che intendo amare unicamente. Non avrò la disgrazia di attaccarmi a delle pagliuzze, dopo che «il mio cuore ha presentito ciò che Gesù riserva a coloro che l'amano!».
162 - Dopo avere ammirato la potenza di Dio, potei anche ammirare quella che ha concessa alle creature. La prima città d'Italia che visitammo fu Milano. Visitammo fino nei minimi particolari il Duomo tutto di marmo bianco, col suo popolo di statue quasi innumerevoli. Celina ed io eravamo intrepide, le prime sempre, e immediatamente al seguito di Monsignor Vescovo, per vedere tutto in fatto di reliquie, e udir bene le spiegazioni: così, mentre egli offriva il Santo Sacrificio sulla tomba di san Carlo, noi con Papà eravamo die­tro l'altare, appoggiavamo la testa all'urna che racchiude il corpo del Santo rivestito degli abiti pontificali. Così accadeva dappertutto (eccezion fatta, s'intende, per i luoghi ove la dignità del Vescovo non permetteva a lui di arrampicarsi, per­ché allora sapevamo staccarci subito da «Sa Grandeur»). Lasciando le signore timide a coprirsi volto ed occhi dopo aver scalato le prime torrette campanarie che fanno corona alla cat­tedrale, seguimmo i pellegrini più arditi ed arrivammo fino alla punta dell'ultimo campanile di marmo, dal quale avemmo il piacere di vedere ai nostri piedi la città di Milano: la gente lag­giù somigliava a un minuscolo formicaio. Discese dal nostro piedistallo, cominciammo le passeggiate in carrozza che dove­vano durare un mese e saziarmi per sempre del mio desiderio di correre senza fatica!
163 - Il camposanto ci rapì ancor più che la cattedrale, tut­te le statue di marmo bianco alle quali un cesello del genio sem­bra aver dato vita, sono sparse sulla terra ampia dei morti con una certa negligenza, ciò che, secondo me, aumenta il loro fasci­no. Si è tentati di consolare i personaggi ideali i quali ci stanno intorno. La loro espressione è così vera, il loro dolore così calmo e rassegnato, che non si può fare a meno di riconoscere i pensie­ri immortali dai quali erano mossi i cuori degli artisti quando eseguirono questi capolavori. Qui una bambina getta fiori sulla tomba dei genitori, par che il marmo abbia perduto qualsiasi peso, e i petali lievi scivolano tra le dita infantili, già il vento li disperde, e muove anche il velo sottile delle vedove, e i nastri che ornano i capelli delle fanciulle. Papà era rapito quanto noi; in Svizzera si era sentito stanco, ma ora, ridivenuto gaio, godeva la visione bella che ci era concesso contemplare; la sua anima di artista si rivelava nelle espressioni di fede e di ammirazione che passavano sul suo bel volto.
164 - Un vecchio signore (francese), il quale senza dub­bio non aveva animo altrettanto poetico, ci guardava un po' di sbieco e diceva con un certo cattivo umore, quasi gli dispiaces­se di non poter partecipare alla nostra ammirazione: «Ah, come sono entusiasti i francesi!». Credo che quel povero signo­re avrebbe fatto meglio se fosse rimasto a casa sua, perché non pareva soddisfatto del viaggio, spesso era vicino a noi, e si lamentava, era scontento delle vetture, degli alberghi, delle persone, delle città, insomma, di tutto. Papà con la sua solita grandezza d'animo cercava di consolarlo, gli offriva il suo posto, ecc., lui si trovava bene sempre e dovunque, poiché era di un carattere nettamente opposto a quello del suo scomodo vicino. Ah, quante ne abbiamo viste di genti varie, gli uni diversi dagli altri, e quale campo di studio interessante il mon­do, quando si è prossimi a lasciarlo!
165 - A Venezia, completo cambiamento di scena: invece del chiasso delle città grandi, emergono dal silenzio soltanto il grido dei gondolieri e il murmure delle acque agitate dai remi. Venezia ha il suo fascino, ma io la trovo triste. ll palazzo dei dogi è splendido, tuttavia è triste anch'esso, con i suoi apparta­menti vasti che sfoggiano oro, legni, marmi tra i più preziosi, e le pitture dei maestri più grandi. Da lungo tempo le sue volte sonore non echeggiano più della voce dei governatori che pro­nunciava sentenze di vita e di morte nelle sale che abbiamo attraversate. Hanno cessato di soffrire i prigionieri sventurati chiusi dai dogi nelle carceri e nei nascondigli sotterranei. Visi­tando quelle prigioni paurose, mi credevo ai tempi dei martiri, e avrei voluto poterci rimanere per imitarli! Bisognò invece uscire prontamente, e passare sul «Ponte dei sospiri», chiama­to così a causa dei sospiri di sollievo che emettevano i condan­nati vedendosi liberati dall'orrore dei sotterranei ai quali pre­ferivano la morte...
166 - Dopo Venezia andammo a Padova, venerammo la lingua di sant'Antonio, poi a Bologna, e vedemmo santa Cate­rina che conserva l'impronta del bacio di Gesù Bambino. Quan­ti particolari interessanti potrei dare su ciascuna città e riguar­do a mille circostanze minute del nostro viaggio! Ma non fini­rei più, e perciò scriverò soltanto i punti salienti. Con gioia lasciai Bologna, la quale mi era diventata insopportabile a causa degli studenti di cui è piena e che for­mavano siepe quando avevamo la sventura di uscire a piedi; e a causa soprattutto del piccolo incidente avuto con uno di essi, fui felice di prendere la via di Loreto. Non sono sorpre­sa che la Vergine Santa abbia scelto quel luogo per trapiantarvi la sua casa benedetta; la pace, la gioia, la povertà vi regnano sovrane; tutto è semplice e primitivo, le donne hanno conser­vato il loro garbato costume italiano e non hanno, come quelle di altre città, adottato la moda di Parigi; insomma, Loreto mi rapì!
167 - Che dirò della santa Casa? La mia emozione era profonda mentre mi trovavo sotto il tetto medesimo della sacra Famiglia, contemplando i muri sui quali Gesù aveva posati i suoi sguardi divini, mentre camminavo sulla terra che san Giu­seppe aveva bagnato col suo sudore, ove Maria aveva portato Gesù tra le braccia dopo averlo portato nel suo seno virginale. Ho visto la cameretta ove l'angelo discese presso la Vergine Santa... Ho deposto il mio rosario nella scodella di Gesù Bam­bino... Come sono incantevoli questi ricordi! Ma la nostra consolazione più grande fu ricevere Gesù stesso nella sua casa ed essere il tempio vivo di lui nel luogo che egli aveva onorato con la sua presenza. Secondo un'usanza italiana, il ciborio si conserva in ciascuna chiesa sopra un altare solo, e li soltanto si può ricevere la Comunione; quell'altare era nella basilica stessa ove si trova la santa Casa, racchiusa come un diamante prezioso in uno scrigno di marmo bianco. Ciò non bastò per la nostra felicità. Noi volevamo ricevere la Comunione nel diamante stesso e non già nello scrigno.. Papà, con la sua consueta dolcezza fece come gli altri, ma Celina e io andammo a trovare un sacer­dote che ci accompagnava dovunque e che proprio allora si preparava a celebrare la Messa nella Santa Casa, per un privi­legio speciale. Chiese due piccole ostieche depose sulla patena con la sua grande ostia, e lei capisce, Madre mia cara, quale fu il nostro rapimento di far tutte e due la santa Comunione in quella Casa benedetta! Fu una felicità celestiale che le parole non possono tradurre. Che sarà dunque quando riceveremo la Comunione nella dimora eterna del Re dei Cieli? Allora non vedremo più finire la gioia nostra, non ci sarà più la tristezza della partenza, e per portare via un ricordo non sarà necessa­rio grattare furtivamente i muri santificati dalla presenza divi­na, poiché la casa sua sarà nostra per l'eternità. Egli non vuole darci la casa terrena, si contenta di mostrarcela per farci amare la povertà e la vita nascosta; quella che ci riserva è il suo Palaz­zo di gloria ove non lo vedremo più nascosto sotto l'apparenza di un bambino o di una ostia bianca, ma tale quale è, nel suo splendore infinito.
168 - Ora mi resta da parlare di Roma, di Roma meta del nostro viaggio, dove credevo d'incontrare la consolazione, e trovai la croce! Al nostro arrivo era notte, ed eravamo addor­mentate, ci risvegliò il grido degli addetti alla stazione: «Roma, Roma». Non era un sogno, ero a Roma! Il primo giorno trascorse fuori dalle mura, e forse fu il più delizioso, perché tutti i monumenti hanno conservato la loro impronta antica, mentre nel centro della città ci si potreb­be credere a Parigi vedendo la magnificenza degli alberghi e dei negozi. Quella passeggiata nella campagna romana mi ha lasciato un ricordo carissimo. Non parlerò dei luoghi che abbia­mo visitati, esistono abbastanza libri che li descrivono per este­so, ma soltanto delle principali impressioni che provai. Una delle più dolci fu quella che mi fece trasalire alla vista del Colosseo. La vedevo finalmente quell'arena ove tanti martiri avevano dato il sangue per Gesù; e già mi disponevo a baciar la terra che essi avevano consacrata, ma quale delusione! Il centro è soltanto un ammasso di ruderi che i pellegrini posso­no guardare e basta, perché uno sbarramento impedisce di penetrarvi, del resto nessuno prova la tentazione di entrare in mezzo a quelle rovine. Eravamo dunque venute a Roma per non discendere nel Colosseo? Mi pareva impossibile, non ascol­tavo più le spiegazioni della guida, avevo un pensiero solo: calarmi nell'arena... Vedendo un operaio che passava con una scala, fui li li per chiedergliela, fortunatamente non misi in atto la mia idea perché mi avrebbe presa per pazza. E detto nel Vangelo che Maddalena, rimanendo sempre vicina alla tomba, e abbassandosi più volte, finì per vedere due angeli. Come lei, pur avendo riconosciuto l'impossibilità di attuare i miei desideri, continuai ad abbassarmi verso le rovine tra le quali volevo discendere; finalmente, non vidi angeli, ma quello che cercavo, gettai un grido di gioia, e dissi a Celina: «Svelta, andia­mo, ce la facciamo a passare!». Subito scavalcammo la staccionata che in quel punto toccava i ruderi, ed eccoci a scalar le rovine che si sgretolavano sotto i nostri passi. Papà ci guardava meravigliato per la nostra audacia, e ci disse di tornare indietro, ma le due fuggitive non udivano più nulla; come i guerrieri sentono crescere il coraggio in mezzo al pericolo, così la nostra gioia ingrandiva in proporzione alla diffi­coltà per raggiungere l'oggetto dei nostri desideri. Celina, più previdente di me, aveva ascoltato il acerone e ricordandosi che egli aveva segnalato un pezzo di pavimento segnato da una cro­ce come quello su cui combattevano i martiri, si mise a cercarlo; lo trovò ben presto, c'inginocchiammo su quella terra sacra, le nostre anime si fusero in un'unica preghiera. Mi batteva forte il cuore quando avvicinai le labbra alla polvere arrossata dal san­gue dei primi cristiani, chiesi la grazia d'essere martire anch'io per Gesù, e sentii in fondo al cuore che la mia preghiera era esaudita. Tutto questo fu compiuto in brevissimo tempo; dopo aver preso qualche pietra, ritornammo verso le mura in rovina per ricominciare la nostra impresa rischiosa. Papà vedendoci così felici non poté rimproverarci, e vidi bene che era orgoglio­so del nostro ardimento... Il buon Dio ci protesse visibilmente, perché i pellegrini, essendo un po' distanti, non si accorsero della nostra assenza, occupati com'erano a guardare le arcate magnifiche sulle quali la guida faceva notare «i graziosi corni­chons e i cupides posati su di essi»; in tal modo né lui né «mes­sieurs les abbés» conobbero la gioia che ci empiva il cuore.
169 - Anche le catacombe mi hanno lasciato una impres­sione molto dolce: sono tali quali me le ero figurate leggendone la descrizione nella vita dei martiri. Dopo aver passato là una parte del pomeriggio, mi sembrava di esserci soltanto da qualche attimo, tanto mi appariva profumata l'atmosfera che vi si respira. Bisognava bene portare a casa qualche ricordo delle catacombe, cosìCelina Teresa lasciarono che la proces­sione si allontanasse un poco, e poi si calarono insieme fino in fondo all'antica tomba di santa Cecilia, e presero della terra consacrata dalla presenza di lei. Prima del viaggio a Roma, non avevo alcuna devozione particolare per quella Santa, ma, visi­tando la casa trasformata in chiesa, luogo del suo martirio, e venendo a sapere che ella è stata proclamata regina dell'armo­nia non già a causa della sua bella voce né del suo ingegno per la musica, bensì in memoria del canto verginale ch'ella fece udire allo Sposo celeste nascosto in fondo al suo cuore, sentii per lei più che una devozione: una vera tenerezza d'amica... Ella divenne la mia Santa prediletta, la mia confidente intima... Tutto in lei mi rapisce, soprattutto il suoabbandono, la sua fiducia illimitata che l'hanno resa atta a verginizzare anime, le quali non avevano mai desiderato altre gioie se non quelle del­la vita presente. Santa Cecilia è simile alla sposa dei cantici, in lei vedo «un coro in un campo d'eserciti». La sua vita non è stata se non un canto armonioso in mezzo anche alle prove più grandi, e ciò non mi stupisce, perché «Il santo Vangeloriposava sul suo cuore!», nel suo cuore era lo Sposo delle Vergini.
170 - La visita alla chiesa di Sant'Agnese mi fu di gran­de dolcezza, era un'amica d'infanzia che andavo a trovare nella sua casa, le parlai lungamente di colei che porta così bene il suo nome, e feci tutti i miei sforzi per ottenere una reliquia di quest'angelica Patrona della mia Madre carissima, avrei voluto portarla a lei, ma non ci fu possibile avere altro che una pie­truzza rossa staccatasi da un ricco mosaico la cui origine risale al tempo di sant'Agnese e che lei stessa dovette guardare spes­so. Non era incantevole che l'amabile Santa ci desse ella stessa ciò che cercavamo e che ci era proibito di prendere? L'ho con­siderato sempre come un pensiero delicato e una prova di quell'amore col quale la dolce sant'Agnese considera e proteg­ge la Madre mia carissima!
171 - Trascorremmo sei giorni visitando le principali mera­viglie di Roma, e il settimo giorno vidi la più grande: «Leone XIII». Quel giorno lo desideravo e lo temevo, da esso sarebbe dipesa la mia vocazione, perché la risposta che dovevo ricevere da Monsignore non era arrivata, e io avevo saputo da una let­tera sua, Madre, che egli non era più molto ben disposto verso di me, così l'unica tavola di salvezza era il permesso del Santo Padre... ma per ottenerlo occorreva chiederlo, bisognava osare di parlare «al Papa» davanti a tutti, questo pensiero mi faceva tremare; quel che ho sofferto prima dell'udienza, lo sa soltanto il buon Dio, con la mia cara Celina. Mai dimenticherò la parte che ella prese a tutte le mie prove, pareva che la vocazione mia fosse sua. (Il nostro affetto reciproco veniva notato dai sacer­doti del pellegrinaggio: una sera eravamo in un gruppo tanto numeroso che le sedie mancavano, allora Celina mi prese sulle ginocchia e ci guardavamo con tanto affetto, che un sacerdote esclamò: «Come si vogliono bene! Ah, queste due sorelle non potranno separarsi mai!». Sì, è vero, ci amavamo, ma il nostro affetto era tanto puro e forte, che il pensiero di separarci non ci turbava affatto, perché sentivamo che niente, nemmeno l'oceano, avrebbe potuto allontanarci l'una dall'altra... Serena­mente Celina vedeva la mia navicella che gettava l'ancora sulla riva del Carmelo; lei si rassegnava a restare nel mare burrasco­so del mondo per quanto tempo Dio lo volesse, sicura di arri­vare anche lei alla sponda ambita...).
172 - Domenica 20 novembre ci vestimmo secondo il cen­moniale del Vaticano (di nero, con un velo di merletto in testa) e decorate da una grande medaglia di Leone XIII attaccata a un nastro azzurro e bianco, facemmo il nostro ingresso in Vati­cano, nella cappella del Sommo Pontefice. Alle otto lo vedem­mo entrare per celebrare la santa Messa: fu un'emozione profonda. Benedisse i pellegrini numerosi riuniti intorno a lui, salì gli scalini dell'altare, e ci mostrò, con la sua pietà degna del Vicario di Gesù, che era veramente «il Santo Padre». ll cuore mi batteva forte, e pregavo ardentemente mentre Gesù discen­deva tra le mani del suo Pontefice; comunque, ero piena di fidu­cia, il Vangelo di quel giorno portava le parole splendide: «Non temere, piccolo gregge, perché è piaciuto al Padre mio di darti il suo regno». E io non temevo nulla, speravo che il regno del Carmelo mi appartenesse presto, non pensavo allora a quelle altre parole di Gesù: «Vi preparo il mio regno come il Padre mio l'ha preparato a me»; cioè, vi riservo croci e prove, e in tal modo sarete degni di possedere il regno che sospirate; poiché è stato necessario che il Cristo soffrisse, ed entrasse così nella glo­ria, se desiderate aver posto accanto a lui, bevete il calice che egli stesso ha bevuto! Questo calice mi fu presentato dal San­to Padre, e le lacrime mie si confusero con la bevanda amara che mi veniva offerta.
173 - Dopo la Messa di ringraziamento che fece seguito a quella di Sua Santità, ebbe inizio l'udienza. Leone XIII era assiso sopra una grande poltrona, vestito semplicemente con una tonaca bianca, una mantellina dello stesso colore, e aveva sulla testa uno zucchetto. Intorno a lui stavano i cardinali, gli arcivescovi, i vescovi, ma io non li vidi se non in gruppo, occu­pata com'ero unicamente del Santo Padre; passammo dinanzi a lui in processione, ciascun pellegrino s'inginocchiava a tur­no, baciava mano e piede di Leone XIII, riceveva la benedizio­ne, e due guardie nobili gli facevano cenno secondo l'etichetta, per avvertirlo che era tempo di alzarsi (intendo dire che avver­tivano il pellegrino, mi spiego così male che si potrebbe pensa­re che avvertissero il Papa). Prima di penetrare nell'apparta­mento pontificio ero ben decisa a parlare, ma mi sentii manca­re il coraggio quando vidi a destra del Santo Padre «Monsi­gnor Révérony»! Quasi nel medesimo istante ci fu detto da parte sua che era proibito parlare a Leone XIII, l'udienza si sarebbe prolungata troppo. Mi voltai verso Celina cara, per sapere il suo parere: «Parla!», mi disse. Un minuto dopo ero ai piedi del Santo Padre; baciai la pantofola, egli mi porse la mano, ma io, invece di baciarla, giunsi le mani mie e alzai ver­so lui gli occhi pieni di lacrime: «Santo Padre - dissi -, ho da chiedervi una grazia grande». Allora il Sommo Pontefice abbas­sò la testa verso me, in modo che il mio volto quasi toccava il suo, e vidi i suoi occhi neri e profondi fissarsi su di me, parve che penetrasse in fondo all'anima. «Santo Padre - dissi - in onore del vostro giubileo, permettetemi di entrare nel Carmelo a quindici anni!...».
174 - L'emozione certo mi fece tremare la voce, cosicché il Santo Padre, volgendosi a Monsignor Révérony, il quale mi guardava meravigliato e scontento, disse: «Non capisco molto bene». Se il buon Dio l'avesse permesso, sarebbe stato facile che Monsignor Révérony mi ottenesse ciò che desideravo, ma invece volle darmi la croce e non già la consolazione. «Beatissi­mo Padre - rispose il Vicario Generale - è una bambina che desidera entrare nel Carmelo a quindici anni, ma i superiori stanno esaminando la questione». «Ebbene, figlia - rispose il Santo Padre guardandomi con bontà -fate ciò che vi diranno i superiori». Allora, appog­giando le mani sulle sue ginocchia, tentai un ultimo sforzo e dissi con voce supplice: «Oh! beatissimo Padre, se voi diceste «sì, tutti sarebbero d'accordo!...». Mi guardò fissamente, e pronunciò queste parole appoggiando su ciascuna sillaba: «Bene... bene... Entrerete se Dio lo vorrà! . ..» -. (La sua espres­sione era così penetrante e convinta, che mi pare d'intenderlo ancora). Poiché la bontà del Santo Padre mi dava animo, volli parlare ancora, ma le due guardie nobili mi toccarono gentil­mente per farmi alzare; e vedendo che ciò non bastava, mi pre­sero per le braccia, e Monsignor Révérony le aiutò a sollevar­mi, perché io restavo ancora con le mani giunte appoggiate alle ginocchia di Leone XIII, e mi strapparono di peso dai suoi piedi... Nel momento in cui mi trasportarono via così, il Santo Padre posò la sua mano sulle mie labbra, poi l'alzò per bene­dirmi, allora gli occhi mi si empirono di lacrime, e Monsignor Révérony poté contemplare per lo meno altrettanti diamanti quanti ne aveva visti a Bayeux.
175 - Le due guardie nobili mi portarono, per così dire, fino alla porta, e là una terza mi dette una medaglia di Leone XIII. Celina, che mi seguiva, era stata presente alla scena: commossa quasi quanto me, ebbe tuttavia il coraggio di chie­dere al Santo Padre una benedizione per il Carmelo. Monsi­gnor Révérony con tono contrariato rispose: «È già benedetto, il Carmelo». Il buon Santo Padre riprese con dolcezza: «Oh sì, è già benedetto!». Prima di noi Papà era venuto ai piedi di Leone XIII (con gli altri signori). Monsignor Révérony era stato molto benevolo verso lui, l'aveva presentato come il padre di due carmelitane. il Sommo Pontefice, in segno di particolare favore, posò la mano sulla testa venerabile del mio caro Re, e parve imprimere in lui così un sigillo misterioso, nel nome di colui che veramente egli rappresenta... Ah! Ora che è in Cielo, questo padre di quattro carmelitane, non è più la mano del Pontefice che riposa sulla sua fronte, profetizzandogli il marti­rio... E la mano dello Sposo delle Vergini, del Re della gloria che fa risplendere la testa del suo servo fedele, e più che mai quella mano adorata rimarrà sulla fronte che ha glorificata!
176 - Il mio Babbo caro rimase addolorato trovando me tutta in lacrime all'uscita dall'udienza, fece tutto ciò che poté per consolarmi, ma invano... In fondo al cuore sentivo una grande pace, poiché avevo fatto assolutamente tutto il possibi­le per corrispondere a ciò che Dio mi chiedeva, ma quella pace era nel fondo, e l'amarezza mi colmava l'anima, perché Gesù taceva. Pareva assente, niente rivelava la sua presenza. Anche in quel giorno il sole non osò risplendere, e il cielo bello d'Ita­lia, carico di nuvole cupe, pianse con me tutto il tempo. Ah! era finita, il mio viaggio non aveva più incanto per me, poiché lo scopo era fallito. Eppure, le ultime parole del Santo Padre avrebbero dovuto ben consolarmi: in verità, non erano una genuina profezia?Nonostante tutti gli ostacoli, quello che Dio misericordioso ha voluto si è compiuto. Ha permesso alle crea­ture di fare non ciò che volevano, bensì la volonta sua.
177 - Da qualche tempo mi ero offerta a Gesù Bambino per essere il suo giocattolino, gli avevo detto che usasse me non già come un balocco di quelli pregevoli (i bimbi si contentano di guardarli senza osar di toccarli), bensì come una pallina senz'alcun valore che egli poteva buttar per terra, spingere con i piedi, bucare) lasciare in un cantuccio o stringere al cuore, a piacimento suo; in una parola volevo divertire Gesù Bambino, fargli piacere, volevo abbandonarmi ai suoi capricci infantili... Aveva esaudito la mia preghiera. A Roma Gesù bucò il suo giocattolino, volle vedere cosa c'era dentro, e, dopo averlo visto, contento della sua scoperta, lasciò cadere la pallina e si addormentò... Che cosa fece duran­te il sonno dolce, e che cosa divenne la pallina abbandonata? Gesù sognò che giocava ancora col suo balocco lasciandolo e prendendolo volta a volta, e, dopo averlo fatto ruzzolare lonta­no, se lo stringeva al cuore senza permettere più che si allonta­nasse dalla sua manina...
178 - Lei capisce, Madre mia cara, quanto fosse triste la pallina vedendosi per terra. Tuttavia non rinunciavo a sperare contro tutte le speranze. Qualche giorno dopo l'udienza del Santo Padre, Papà andò a vedere il buon fratel Simeone, e trovò presso lui Monsignor Révérony, il quale fu amabilissimo. Papà gli rimproverò giocosamente di non avermi aiutata nella mia impresa difficile,poi narrò la storia della sua reginetta al fratello Simeone. Il venerando vecchio ascoltò il racconto con interesse vivo, prese perfino degli appunti, e disse, commosso: «Una cosa simile non si vede in Italia!». Credo che il colloquio facesse gran buona impressione a Monsignor Révérony: in seguito mi dimostrò ad ogni istante che finalmente era convin­to della mia vocazione.
179 - L’indomani del giorno memorabile, bisognò partire fin dalla mattina alla volta di Napoli e Pompei. In onore nostro il Vesuvio brontolò tutta la giornata, emettendo con le sue can­nonate,una colonna densa di fumo. Le tracce che ha lasciato sulle rovine di Pompei sono paurose, mostrano la potenza del Dio «che guarda la terra e la fa tremare, tocca le montagne, e le riduce in fumo». Mi sarebbe piaciuto passeggiare sola in mezzo alle rovi­ne, meditando sulla fragilità delle cose umane, ma la folla dei viaggiatori guastava in gran parte il fascino malinconico della città distrutta. A Napoli fu tutto il contrario, il gran numero delle pariglie rese magnifica la nostra passeggiata al monastero di San Martino situato sopra una collina alta che domina la città intera; purtroppo i cavalli mordevano il freno minuto per minu­to, e più d'una volta mi son vista all'ultima ora. Il cocchiere ave­va un bel ripetere continuamente la parola magica dei vetturini italiani: «A-ppippo, A-ppippo» (Ah Pippo, ah Pippo…)», i poveri cavalli volevano rovesciar la carrozza, finalmente, grazie alla protezione dei nostri angeli custodi, arrivammo al nostro albergo magnifico. Durante tutto il viaggio abbiamo abitato in alberghi principeschi, mai ero stata circondata da tanto lusso, è proprio il caso di dire che la ricchezza non dà la felicità, perché sarei stata più felice sotto un tetto di paglia con la speranza del Carmelo, che in mezzo a tappezzerie dorate, scaloni bianchi di marmi, tappeti vellutati, con l'amarezza nel cuore. L’ho ben capito, la gioia non la troviamo negli oggetti che ci stanno intor­no, bensì nel profondo dell'anima, possiamo averla in una pri­gione altrettanto bene che in un palazzo, la prova è che io sono più felice nel Carmelo, anche tra prove intime ed esteriori, che nel mondo, circondata dalle comodità della vita, e soprattutto dalle dolcezze del focolare paterno!
180 - Avevo l'anima immersa nella tristezza, tuttavia all'esterno mi mostravo la stessa, perché credevo che la suppli­ca fatta da me al Santo Padre fosse ignota agli altri; ben presto mi persuasi del contrario: ero rimasta sola con Celina nel vago­ne (gli altri pellegrini erano discesi al buffet durante i pochi minuti di fermata), vidi Monsignor Legoux, vicario generale di Coutances, che aprì lo sportello e mi guardò sorridendo, poi disse: «Ebbene, come va la nostra piccola carmelitana?». Capì allora che tutto il gruppo conosceva il mio segreto; per fortuna nessuno me ne parlò, ma mi resi conto, da come mi guardavano con simpatia, che la mia istanza non aveva fatto brutta impressione, anzi... Nella cittadina di Assisi, ebbi l'occasione di salire nella carrozza di Monsignor Révérony, favore che non fu concesso ad alcuna signora durante l'intero viaggio. Ed ecco in qual modo ottenni questo privilegio.
181 - Dopo aver visitato i luoghi profumati dalle virtù di san Francesco e di santa Chiara, avevamo visto per ultimo il monastero di Sant'Agnese, sorella di santa Chiara; avevo con­templato a mio piacimento la testa della Santa, quando, riti­randomi una delle ultime, mi accorsi che avevo perduto la mia cintura; la cercai in mezzo alla folla, un sacerdote ebbe pietà di me e mi aiutò, ma dopo che me l'ebbe trovata, lo vidi allonta­narsi, e rimasi sola a cercare perché, se la cintura c'era, impos­sibile metterla, mancava la fibbia... Finalmente la vidi brillare in un angolo; afferrarla e aggiustarla al nastro fu tutt'uno, ma la ricerca era stata lunga, perciò rimasi attonita quando mi ritrovai sola dinanzi alla chiesa; tutte le vetture erano sparite, fuorché quella di Monsignor Révérony. Che partito prendere? Dovevo correre dietro le carrozze che non vedevo più, espor­mi al rischio di perdere il treno e mettere il mio Babbo caro nell'inquietudine, oppure chiedere un posto nel calesse di Monsignor Révérony? Mi decisi per quest'ultima soluzione. Col piglio più garbato e meno impacciato possibile - nonostan­te il mio estremo impaccio - gli esposi la condizione difficile, e misi anche lui in diffiicoltà perché la sua vettura era gremita dai signori più autorevoli del pellegrinaggio, non c'era una briciola di posto; ma un signore cortesissimo si affrettò a scendere, mi fece salire al suo posto, e andò egli stesso modestamente accan­to al cocchiere. Somigliavo a uno scoiattolo in trappola, ed ero ben lungi dal sentirmi comoda, circondata così da tutti quei grandi personaggi, e soprattutto dal più temibile, in faccia al quale ero situata... E che tuttavia fu gentilissimo con me, e interruppe varie volte la conversazione con quei signori per parlarmi del Carmelo. Prima di arrivare alla stazione tutti i grandi personaggi tirarono fuori i loro grandi portafogli per dare la mancia al cocchiere (già pagato), io feci come loro e presi il mio minimo portamonete, ma Monsignor Révérony non mi permise di estrarne delle monetine, preferì darne lui una grossa per lui e per me.
182 - Un'altra volta mi trovai accanto a lui in omnibus; fu ancor più benevolo, e mi promise che avrebbe fatto tutto il pos­sibile affinché io entrassi nel Carmelo. Pur mettendo un po' di balsamo sulle mie piaghe, quei piccoli incontri non impediro­no che il viaggio di ritorno fosse per me ben meno piacevole che quello di andata, perché non avevo più la speranza «del Santo Padre», non trovavo più soccorso alcuno sulla terra che mi pareva un deserto arido, senz’acqua; tutta la speranza mia era nel buon Dio solo... stavo facendo esperienza che è meglio rivolgersi a lui che ai suoi santi...
183 - La tristezza dell'anima mia non m'impedì d'interes­sarmi vivamente ai luoghi che visitavamo. A Firenze fui felice di contemplare santa Maddalena de' Pazzi in mezzo al coro delle carmelitane le quali ci aprirono la grata maggiore; poiché non sapevamo di poter godere di questo privilegio, e poiché molte persone desideravano far toccare le loro corone alla tomba della Santa, io sola riuscii a passare la mano attraverso la grata che la proteggeva, così tutti mi portarono dei rosari, ed ero ben fiera del mio compito. Bisognava che trovassi sem­pre il modo pertoccar tutto, così nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme (a Roma) potemmo vedere alcuni frammenti della vera Croce, due spine ed un sacro chiodo racchiusi entro un magnifico reliquiario d'oro cesellato, ma senza vetro, perciò io trovai modo, venerando la reliquia preziosa, d'insinuare il mignolo in uno spazio del reliquiario, e potei toccare il chiodo che fu bagnato dal Sangue di Gesù. Fui veramente troppo audace. Ma il Signore vede il fondo dei cuori, sa che l'intenzio­ne mia era pura, è che per niente al mondo avrei voluto fargli dispiacere, agivo con lui dabambina che si crede tutto permes­so e considera come propri i tesori del Padre.
184 - Non riesco ancora a capire perché mai le donne siano tanto facilmente scomunicate in Italiaad ogni piè sospinto ci veniva detto: «Non entrate qua... non entrate là, sareste scomunicate!». Ah povere donne, quanto disprezzo per loro! Eppure, sono ben più numerose degli uomini quelle che amano Dio, e durante la Passione di Nostro Signore le donne ebbero più coraggio degli Apostoli, poiché sfidarono gli insulti dei soldati e osarono asciugare il Volto adorato di Gesù. Certamente per questo egli permette che il disprezzo sia il loro retaggio sulla terra, poiché l'ha scelto per se stesso. In Cielo, saprà ben mostrare che i pensieri suoi non sono quelli degli uominipoiché allora le ultime saranno le pri­me... Più d'una volta, durante il viaggio, non ho avuto la pazienza di attendere il Cielo per essere la prima. Un giorno in cui visitavamo un convento di Carmelitani non mi contentai di seguire i pellegrini nelle gallerie esterne, mi spinsi fino nel chiostro interno... a un tratto vidi un buon vecchio carmelitano che da lontano mi faceva segno che mi allonta­nassi, ma io, invece di andarmene, mi avvicinai a lui, e indi­candogli i quadri del chiostro gli feci cenno che erano belli. Capì senza dubbio dai miei capelli sciolti e dall'aria giovane che ero una bambina, mi sorrise con bontà, e si allontanò vedendo che non si trovava davanti a una nemica; se avessi potuto parlargli italiano, gli avrei detto che ero una futura carmelitana, ma a causa di quelli che fecero la torre di Babele, la cosa mi fu impossibile.
185 - Dopo aver visitato anche Pisa e Genova, tor­nammo in Francia. Durante il percorso, vedute magnifiche: ecco, corriamo lungo il mare, e la ferrovia è tanto vicina che mi pare le onde arrivino fino a noi (questo spettacolo fu cau­sato da una tempesta, ed era sera, cosicché la scena appariva ancor più maestosa), ora ecco delle aperte distese di aranceti dai frutti maturi, di verdi olivi dalla ramaglia lieve, di palme graziose... al cader del giorno vedevamo numerosi piccoli porti di mare che s'illuminavano di mille luci, mentre in cielo scintillavano le prime stelle. Ah, che poesia mi empiva l'ani­ma mentre vedevo tutte quelle cose per la prima e l'ultima volta! Senza rimpianto le vedevo svanire, il cuore mio aspira­va a meraviglie diverse, aveva contemplato abbastanza le bel­lezze della terra, ora desiderava quelle del Cielo, e io, per dar­le alle anime, volevo diventare prigioniera! Prima di vedere aprirsi dinanzi a me le porte della prigione benedetta, dovevo ancor lottare e soffrire: lo sentivo mentre tornavo in Francia, tuttavia la mia fiducia era tanto grande che speravo ancora nel permesso di entrare il 25 dicembre.
186 - Appena arrivate a Lisieux, la prima visita fu per il CarmeloQuale incanto fu quel colloquio! Avevamo tante cose da dirci, dopo un mese di separazione, un mese che mi era parso lungo e istruttivo più di parecchi anni messi insieme. Madre mia cara, quanto mi fu dolce rivederla e aprire a lei la piccola anima mia ferita. A lei che mi sapeva capire tanto bene: una parola, uno sguardo le bastavano per indovinare tut­to! Mi abbandonai completamente, avevo fatto tutto quello che dipendeva da me, tutto, perfino parlare al Santo Padre, così non sapevo che cosa avrei dovuto fare ancora. Lei mi dis­se di scrivere a Monsignor Vescovo e ricordargli la sua pro­messa; lo feci subito come meglio potei, ma in termini che lo zio trovò un po' troppo semplici. Rifece egli stesso la lettera; nel momento in cui stavo per spedirla, ne ricevetti una da lei che mi diceva di non scrivere, di attendere qualche giorno; obbedii subito, perché ero sicura che quello era il mezzo migliore per non mgannarmi. Finalmente, dieci giorni prima di Natale, la mia lettera partì. Ben convinta che la risposta non avrebbe tardato, andavo ogni mattina dopo la Messa alla posta con Papà, credendo trovarci il permesso per volar via, ma ogni mattina mi portava una delusione nuova, che tuttavia non scuoteva la mia fede. Chiedevo a Gesù che spezzasse le mie catene; le spezzò, infatti, ma in un modo affatto diverso da quello che mi aspettavo. La bella festa di Natale arrivò, e Gesù non si destò... lasciò per terra la sua pallina senza gettarle nem­meno uno sguardo.
187 - Avevo il cuore affranto quando andai alla Messa di mezzanotte, avevo pur contato di ascoltarla da dietro le grate del Carmelo! Fu una prova ben grande per la mia fede, ma «il Cuore che veglia durante il sonno» mi fece capire che concede miracoli a coloro la cui fede uguaglia un granello di senape e fa mutar di posto le montagne per rendere salda questa fede così piccola; ma per i suoi intimi, per sua Madre, non fa miracoli prima di avere messo a prova la loro fede. Non lasciò forse morire Lazzaro, nonostante che Marta e Maria gli avessero fat­to dire che era malato. Alle nozze di Cana, la Santa Vergine domandò a Gesù di venire in aiuto del padrone di casa, e non le rispose Gesù che l'ora sua non era ancor giunta. Ma dopo la prova, quale ricompensa! L'acqua si cambia in vino... Lazzaro risuscita. Così Gesù agì verso la sua Teresa: dopo averla lun­gamente provata, colmò tutti i desideri del cuore di lei.
188 - Nel pomeriggio della festa radiosa trascorsa da me tra le lacrime, andai a trovare le carmelitane; fu grande la mia sorpresa quando vidi, nel momento in cui apersero le grate, un incantevole Gesù Bambino che teneva in mano una palla su cui era scritto il nome mio. Le carmelitane, al posto di Gesù troppo piccolo per parlare, mi cantarono un cantico composto dalla mia Madre amata; ciascuna parola diffondeva nell'anima mia una consolazione dolcissima, mai dimenticherò questa deli­catezza del cuore materno che mi colmò sempre delle tenerez­ze più fini... Dopo aver ringraziato con lacrime soavi, raccontai ìa sorpresa che Celina mi aveva fatto al ritorno dalla Messa di mezzanotte. Avevo trovato in camera mia, in mezzo a una vasca graziosa, unanavicella che portava Gesù Bambino addormen­tato, con una pallina accanto a lui; sulla vela bianca Celina ave­va scritto: «Io dormo, ma il cuore mio veglia», e sulla nave questa sola parola: «Abbandono!». Ah, se Gesù non parlava alla sua piccola fidanzata, se gli occhi suoi divini restavano sempre chiusi, almeno le si rivelava per mezzo di anime atte a capire le delicatezze e l'amore del suo Cuore.
189 - Il primo giorno dell'anno 1888 Gesù mi fece ancora dono della sua croce, ma questa volta fui sola a portarla, per­ciò fu tanto più dolorosa quanto incompresa. Una lettera di madre Maria di Gonzaga mi annunciò che la risposta di Mon­signor Vescovo era giunta il 28, festa dei santi Innocenti, ma che non me l'aveva resa nota perché aveva deciso che io entras­si soltanto dopo quaresima. Non potei trattenere il pianto pen­sando a un rinvio così lungo. Quella prova ebbe per me un carattere particolarissimo, vedevo i miei legami spezzati dalla parte del mondo, e questa volta era l'arca santa che rifiutava l'ingresso all'umile colomba. Credo bene che dovetti sembrare irragionevole quando non accolsi gioiosamente i miei tre mesi di esilio, ma credo altresì che, senza saperlo, questa prova fu grande e mi fece crescere molto nell'abbandono e nelle altre virtù.
190 - In quale modo trascorsero quei tre mesi tanto ricchi di grazie per l'anima mia? Anzitutto mi venne in mente di non costringermi ad una vita tanto ben regolata come quella cui ero avvezza, ma ben presto capii il valore del tempo che mi veniva offerto, e risolsi di darmi più che mai a vita seria mor­tificata. Quando dico: «mortificata», non è per far credere che io facessi penitenze, ahimè! non ne ho fatte mai, ben lungi dal somigliare alle anime belle che fin dall'infanzia praticavano ogni sorta di mortificazioni, non sentivo per esse alcuna attrat­tiva. Certamente ciò proveniva dalla mia viltà, perché avrei potuto, come Celina, trovar mille piccole invenzioni per farmi soffrire, invece mi sono sempre lasciata coccolare nell'ovatta, e imbeccare come un uccellino che non abbia bisogno di far penitenza... Le mie mortificazioni consistevano nel rompere la mia volontà, sempre pronta a imporsi, nel trattenere una bat­tuta di risposta, nel rendere servizietti senza farli valere, nel privarmi di appoggiare il dorso quand'ero seduta, ecc. ecc. Fu per mezzo di questi nonnulla che mi preparai a diventare la fidanzata di Gesù, e non posso dire quanti ricordi cari mi abbia lasciato quell'attesa. Tre mesi passano veloci, finalmente arrivò il momento desideratissimo!


7. POSTULANTE E NOVIZIA NEL CARMELO (1888-1890)

Straziante separazione dai propri cari - Nell'arca benedetta - Pace profonda - Le prime prove - Vestizione religiosa - Regalo della neve - Ango­scia per la malattia del padre - Pratica della poverta' e delle «piccole» virtù


191 - Lunedì 9 aprile, giorno nel quale il Carmelo celebra­va la festa dell'Annunciazione, rimandata a causa della quaresi­ma, fu scelto come data del mio ingresso. La sera avanti tutta la famiglia era riunita intorno alla tavola alla quale io sedevo per l'ultima volta. Ah, come sono lancinanti quelle riunioni intime! Quando si vorrebbe vedersi dimenticate, ci vengono prodigate le carezze, le parole più tenere, che ci fanno sentire il sacrificio della separazione. Papà non diceva quasi nulla, ma il suo sguar­do si fissava su me con amore. La zia piangeva di quando in quando, e lo zio mi usava mille premure affettuose. Giovanna e Maria erano altrettanto piene dì riguardi per me, soprattutto Maria la quale, prendendomi in disparte, mi chiese perdono dei dispiaceri che credeva di avermi dati. E infine la mia cara Leo­nia, tornata a casa da qualche mese dalla Visitazione, mi col­mava più ancora di baci e di carezze. Soltanto di Celina non ho parlato, ma lei intuisce, Madre mia cara, in quale modo trascor­se l'ultima notte che abbiamo passata insieme...
192 - La mattina del gran giorno, dopo aver dato un ulti­mo sguardo ai Buissonnets, nido grazioso della mia infanzia che non avrei rivisto mai più, partii al braccio del mio caro Re per salire la montagna del Carmelo... Come la vigilia, tutta la famiglia si trovò riunita per ascoltare la santa Messa e ricevere la Comunione. Appena Gesù discese nel cuore dei miei cari, intorno a me non intesi altro che singhiozzi, io sola non piansi, ma il cuore mi batteva con tanta violenza che mi parve impos­sibile fare un passo quando ci accennarono di avviarci verso la porta conventuale; mi mossi, tuttavia, pur domandandomi se non sarei morta, tanto mi martellava il cuore. Che momento fu quello! Bisogna esserci passati per sapere che cos'è.
193 - La mia emozione non si tradì all'esterno: dopo ave­re abbracciato tutti i miei cari, m'inginocchiai dinanzi al mio incomparabile Padre, chiedendogli la benedizione; per darme­la, si mise egli stesso in ginocchio e mi benedisse piangendo. Fu uno spettacolo che dovette far sorridere gli angeli, quel vegliar­do il quale presentava al Signore la figlia ancora nella primave­ra della vita. Dopo qualche istante, le porte dell'arca santa si chiusero dietro di me, e là ricevetti gli abbracci delle sorelle care le quali mi erano state mamme, e che da allora in poi avrei prese come modelli per le mie azioni. Finalmente i miei desi­deri erano compiuti, l'anima mia provava una pace così dolce e profonda che mi sarebbe impossibile esprimerla, e da sette anni e mezzo questa pace mi è rimasta, non mi ha abbandona­ta in mezzo alle prove più serie.
194 - Come tutte le postulanti, appena entrata fui con­dotta in coro: era nella penombra, a causa del Santissimo espo­sto e quello che mi colpì come prima cosa furono gli occhi della nostra santa madre Genoveffa che si fissarono su me; rimasi per un attimo in ginocchio ai piedi di lei, ringraziando il buon Dio del favore che mi concedeva di conoscere una santa, e poi seguii madre Maria di Gonzaga nei diversi ambienti del monastero: tutto mi pareva incantevole, mi credevo trasportata in un deserto, soprattutto la nostra celletta mi affascinava, ma la gioia che provavo era calma;non un soffio, sia pur lieve, ondulava le acque sulle quali vogava la mia navicella, non c'era­no nubi nel mio cielo limpido... Ah! ero pienamente ricom­pensata di tutte le mie prove. Con quale gioia profonda ripete­vo queste parole: «Per sempre, sono qui per sempre!...».
195 - Felicità non effimera, che non sarebbe svanita con «le illusioni dei primi giorni». Le illusioni... Dio mi ha fatto la grazia di non averne entrando nel Carmelo; ho trovato la vita religiosa tal quale me l'ero figurata, nessun sacrificio mi ha mera­vigliata, eppure, Madre mia cara, lei lo sa, i miei primi passi hanno incontrato più spine che rose! Sì, la sofferenza mi ha teso le braccia, e mi ci sono gettata con amore. Quello che venivo a fare nel Carmelo lo dichiarai ai piedi di Gesù Ostia, nell'esame che precedette la mia professione: «Sono venuta per salvare le anime, e soprattutto a pregare per i sacerdoti». Quando si vuole conseguire uno scopo, occorre prendere i mezzi adeguati: Gesù mi fece capire che voleva dar­mi delle anime per mezzo della croce e la mia attrattiva per il dolore crebbe in proporzione con la sofferenza. Per cinque anni quella fu la mia strada; ma al difuori niente rivelava il mio patire, tanto più doloroso in quanto lo cososcevo io sola. Ah, quali sorprese avremo, alla fine del mondo, leggendo la storia delle anime! Quanti stupiranno vedendo per quale via è stata condotta l'anima mia!
196 - Ciò è tanto vero che, due mesi dopo il mio ingresso, il padre Pichon, essendo venuto per la professione di suor Maria del Sacro Cuore, rimase sorpreso vedendo ciò che il buon Dio operava nell'anima mia, e mi disse che il giorno prima mi aveva osservata mentre pregavo nel coro, e aveva creduto che il mio fervore fosse infantile e la mia via ben facile e dolce. Il mio collo­quio col buon Padre fu per me una consolazione grande, ma velata di lacrime a causa delle dìfficoltà che provavo nell'aprire l'anima mia. Tuttavia feci una confessione generale quale non avevo fatta mai: alla fine il Padre mi disse queste parole, le più consolanti che abbiano mai echeggiato nell'anima mia: «In pre­senza di Dio, della Vergine Santa e di tutti i Santi, dichiaro che mai lei ha commesso un solo peccato mortale». Poi aggiunse: «ringrazi il buon Dio di ciò che fa per lei, perché, se l'abbandonasse, inve­ce di essere un piccolo angelo, lei diverrebbe un piccolo demo­nio». Ah! non duravo fatica a crederlo, sentivo fino a che punto ero debole e imperfetta, ma la riconoscenza mi colmava l'anima; avevo tanto timore di aver macchiato la veste del mio Battesimo che una tale assicurazione uscita dalla bocca di un direttore come lo desiderava la nostra santa Madre Teresa, cioè tale che unisse la scienza alla virtù, mi pareva uscita dalla bocca stessa di Gesù... Il buon Padre mi disse ancora queste parole che mi sono rimaste impresse dolcemente nel cuore: «Figlia mia, che Nostro Signore sia sempre il suo Superiore e il suo Maestro di novizia­to». Lo fu, infatti, ed anche «il mio Direttore».
197 - Non voglio dire, con ciò, che l'anima mia fosse chiu­sa alle mie superiore, ah! ben lungi da ciò, ho sempre cercato che fosse per loro un libro aperto; ma nostra Madre, spesso ammalata, aveva poco tempo per occuparsi di me. So che mi amava molto e diceva di me tutto il bene possibile, tuttavia il buon Dio permetteva che, senza accorgersene, fosse molto seve­ra, non potevo incontrarla senza baciar terra, e lo stesso acca­deva nei rari colloqui di direzione che avevo con lei. Che grazia inestimabile! Come agiva visibilmente il buon Dio in colei che faceva le sue veci! Cosa sarei divenuta io se, come credevano le persone del mondo, fossi stata il «giocattolo» della comunità? Forse, anziché vedere Nostro Signore nelle mie superiore, non avrei considerato se non le persone, e il cuore mio, così bene custodito nel mondo, si sarebbe attaccato umanamente nel chio­stro. Fortunatamente fui preservata da tale sventura. Senza dubbio amavo molto nostra Madre, ma di un'affezione pura che mi innalzava verso lo Sposo dell'anima mia... Maestra era una vera santa, il perfetto esemplare delle prime carmelitane; tutto il giorno stavo con lei, perché ella mi insegnava a lavorare. La sua bontà verso me era illimitata, e tuttavia l'anima mia non si dilatava. Soltanto con sforzo mi era possibile di «fare» direzione, poiché non ero avvezza a parlar dell'anima mia, non sapevo come esprimere ciò che in essa accadeva. Una buona Madre anziana capì ciò che provavo, e un giorno mi disse ridendo in ricreazione: «Bambina mia, mi pare che non dobbiate aver gran che da dire alle vostre superiore». «Perché, Madre mia?». - «Perché la vostra anima è som­mamente semplice, ma quando sarete perfetta, sarete ancora più semplice, più ci avviciniamo a Dio, più ci facciamo semplici». - La buona Madre aveva ragione: tuttavia, la difficoltà che provavo nell'aprire l'anima mia pur provenendo dalla mia semplicità, era una vera prova; lo riconosco ora, perché senza cessare di essere semplice, esprimo i miei pensieri molto facilmente.
199 - Ho detto che Gesù era stato «il mio Direttore». Entrando nel Carmelo feci conoscenza con colui che doveva compiere quell'ufficio, ma, appena mi ebbe accolta tra le sue figlie, partì per l'esilio. In tal modo l'avevo conosciuto soltan­to per rimanerne priva. Ridotta a ricevere da lui una lettera l'anno su dodici che gliene scrivevo, il cuore mio si volse ben presto verso il Direttore dei direttori, e fu lui a istruirmi in quel­la scienza nascosta ai sapienti e ai saggi che egli si degna rivela­re ai più piccoli.
200 - L’umile fiore trapiantato sulla montagna del Carme­lo doveva aprirsi all'ombra della Croce; le lacrime, il Sangue di Gesù divennero rugiada, il Volto adorabile velato di lacrime fu il sole. Fino allora non avevo approfondito i tesori nascosti nel Volto Santo e fu per mezzo di lei, Madre mia cara, che impa­rai a conoscerli; allo stesso modo in cui, un tempo, lei ci aveva precedute tutte nel Carmelo, similmente era penetrata per pri­ma nei misteri d'amore celati nel Volto del Nostro Sposo; allo­ra lei mi chiamò, e io capii. Capii quale era la vera gloria. Colui il cui regno non è di questo mondo mi mostrò che la saggez­za vera consiste nel «volere essere ignorati e considerati nulla» e nel «porre la propria gioia nel disprezzo di sé». Ah, come il Volto di Gesù, volevo che «il mio fosse veramente nascosto, che sulla terra nessuno mi riconoscesse». Avevo sete di sof­frire e di essere dimenticata. Quanto misericordiosa è la via per la quale il buon Dio mi ha sempre guidata, mai mi ha fatto desiderare qualche cosa senza darmela, così il suo calice amaro mi parve delizioso.
201 - Dopo le feste radiose del mese di maggio, professio­ne e velazione della nostra sorella cara, Maria, (la maggiore della famiglia che la più piccola ebbe l'onore di coronare nel giorno delle nozze), bisognava bene che la prova ci visitasse... L’anno prima, nel mese di maggio, Papà era stato colpito da un attacco di paralisi alle gambe, eravamo state in ansia grave, ma il tem­peramento forte del mio caro Re aveva preso ben presto il sopravvento, e i timori erano scomparsi; tuttavia più d'una vol­ta, durante il viaggio a Roma, avevamo notato che si stancava facilmente, e non era più gaio come al solito. Quello che avevo accertato in modo particolare, era il progresso che Papà faceva nella perfezione; sull'esempio di san Francesco di Sales, era arri­vato a padroneggiare la sua vivacità naturale a tal segno da sem­brar la natura più dolce del mondo. Pareva che le cose della ter­ra lo sfiorassero appena, prendeva facilmente il sopravvento sul­le contrarietà, e in definitiva il Signore lo inondava di consolazio­ni; durante le sue visite quotidiane al santissimo Sacramento gli occhi suoi si empivano spesso di lacrime, e il suo viso respirava una beatitudine celeste... Quando Leonia uscì dalla Visitazione, egli non si afflisse, non fece alcun rimprovero al buon Dio per non esser stato esaudito nelle preghiere che gli aveva rivolte per ottenere la vocazione della sua cara figlia, anzi, andò a prenderla con una certa gioia. Ecco con quale fede Papà accettò la separazione dalla sua reginetta: l'annunciò in questi termini ai suoi amici di Alencon: «Cari amici, Teresa, la mia reginetta, è entrata ieri nel Carmelo! Dio solo può esigere un sacrificio come questo... Non mi com­piangete, perché il mio cuore sovrabbonda di gioia».
202 - Era tempo che un servo tanto fedele ricevesse il pre­mio delle sue fatiche, era giusto che il suo compenso somiglias­se a quello che Dio dette al Re del Cielo, suo Figlio unico... Papà aveva offerto da poco tempo a Dio un altare; fu lui la vittima scelta per essere immolata con l'Agnello senza macchia. Lei conosce, Madre mia cara, le nostre amarezze del mese di giugno, soprattutto del 24, nell'anno 1888, quei ricordi sono impressi troppo profondamente nei nostri cuori perché sia necessario scriverli... Oh Madre mia, quanto abbiamo sofferto! Ed era solamente l'inizio della nostra prova. Tuttavia il tempo della mia vestizione era giunto: fui ricevuta dal capitolo, ma come pensare a fare una cerimonia? Già parlavano di darmi il santo abito senza farmi uscire, quando venne deciso di atten­dere. Contro ogni previsione il nostro caro Babbo si rimise dal suo secondo attacco, e Monsignor Vescovo stabilìla cerimo­nia al 10 gennaio.
203 - L'attesa era stata lunga, ma pure che bella festa! Niente mancò, niente, nemmeno la neve... Non so se le ho già parlato del mio amore per la neve? Quand'ero molto piccola, il suo candore mi rapiva; uno dei piaceri più grandi era passeg­giare sotto i fiocchi bianchi. Donde mi veniva quel gusto della neve? Forse dal fatto che, essendo io un ftorellino d’inverno, il primo splendore della natura che videro i miei occhi dovette essere il suo manto bianco. Avevo sempre desiderato che nel giorno della mia vestizione la natura fosse, come me, vestita di bianco. Il giorno prima guardavo tristemente il cielo grigio dal quale sfuggiva ogni tanto un po' di pioggia fine, e la temperatu­ra era così mite che non speravo più la neve. ll mattino dopo, il cielo non era cambiato; tuttavia la festa fu incantevole, e il fiore più bello fu il mio caro Re. Mai era stato più bello, più degno. Formò l'ammirazione di tutti, quel giorno fu il suo trionfo, l'ultima sua festa quaggiù. Aveva dato tutti i suoi figli al buon Dio, poiché avendogli anche Celina confidato la propria voca­zione, lui aveva pianto di gioia, ed era andato a ringraziare Colui che «gli faceva l'onore di prendere tutte le sue figlie».
204 - Alla fine della cerimonia Monsignor Vescovo intonò il Te Deum, un sacerdote cercò di far notare che quell'inno veniva cantato soltanto alle professioni, ma l'avvio era dato, e il cantico del ringraziamento continuò fino alla fine. Non dove­va essere completa quella festa, poiché in essa si riunivano tutte le altre? Dopo aver abbracciato un'ultima volta il mio Re caro, rientrai nella clausura, e la prima cosa che vidi nel chiostro fu «il mio Gesù Bambino rosa» che mi sorrideva in mezzo ai fiori e alle luci, e poi subito il mio sguardò si posò su dei fiocchi di neve: il cortile era bianco come me. Che delicatezza di Gesù! Prevenendo i desideri della sua piccola fidanzata, le regalava la neve... Della neve! Quale è dunque l'uomo, potente quanto si voglia, che riesca a far cadere dal cielo la neve per far piacere alla sua amata? Forse, le persone del mondo si posero questa domanda, certo si è che la neve della mia vestizione parve loro un piccolo miracolo, e tutta la città ne stupì. Trovarono che avevo uno strano gusto poiché mi piaceva la neve. Tanto meglio! ciò fece risaltare ancor più l'incomprensibile condiscendenza dello Sposo delle vergini, di colui che ama i gigli bianchi come la neve!
205 - Monsignore entrò dopo la cerimonia, fu di una bontà davvero paterna verso me. Era fiero di vedere che avevo - perseverato, diceva a tutti che ero la «sua figlioletta». Ogni volta che tornò dopo quella bella festa, sua Eccellenza fu sem­pre tanto buono con me, mi ricordo soprattutto della sua visita nel centenario di san Giovanni della Croce. Mi prese la testa tra le mani, mi fece tante carezze, mai ero stata tanto onorata! Nello stesso tempo il buon Dio mi fece pensare alle carezze che vorrà prodigarmi dinanzi agli angeli e ai Santi, e delle quali mi dava una debole immagine fin da questo mondo, così la consolazione che provai fu grande.
206 - Come ho detto, la giornata del 10 gennaio fu il trionfo del mio Re, io la paragono all'entrata di Gesù in Geru­salemme nel giorno delle Palme; come quella del nostro Divi­no Maestro, la gloria di un giorno fu seguita da una passione dolorosa, e questa passione non fu per lui solo; come i dolori di Gesù trafissero con una spada il cuore della sua Madre divi­na, così i nostri cuori sentirono le sofferenze di colui che noi amavamo più teneramente di ogni altro sulla terra. Ricordo che nel giugno 1888, nel momento delle nostre prime prove, dicevo: «Soffro molto, ma sento che posso sopportare prove più grandi». Non pensavo allora a quelle che mi erano riservate. Non sapevo che il 12 febbraio, un mese dopo la mia vesti­zione, il nostro Babbo amato avrebbe bevuto alla coppa più amara più umiliante. Ah, quel giorno non ho detto che avrei potuto soffrire di più! Le parole non riescono ad esprimere le nostre angosce, perciò non cercherò di descriverle. Un giorno, in Cielo, ci pia­cerà di parlare delle nostre prove gloriose, non siamo già felici per averle sofferte? Sì, i tre anni del martirio di Papà mi sembra­no i più amabili, i più fruttuosi di tutta la nostra vita, io non li darei per tutte le estasi e le rivelazioni dei Santi, il cuore mio trabocca di gratitudine pensando a quel tesoro inestimabile che deve causare una santa invidia agli Angeli della corte celeste.
207 - Un mio desiderio di sofferenze era colmato, tuttavia l'attrattiva verso il dolore non diminuiva in me, tanto che l'ani­ma mia condivise presto le sofferenze del cuore. L’aridità era il mio pane quotidiano, e, privata di qualsiasi consolazione, ero tuttavia la creatura più felice, poiché tutti i miei desideri erano soddisfatti. Oh, Madre mia cara! Com'è stata dolce la nostra grande prova, poiché da tutti i nostri cuori sono usciti solamente sospi­ri d'amore e di riconoscenza! Noi non camminavamo più sui sentieri della perfezione, volavamo tutte e cinque! Le due pove­re esiliate di Caen, pur essendo ancora nel mondo, non era­no già più del mondo. Ah, quali meraviglie ha operato la prova nell'anima della mia cara Celina! Tutte le lettere scritte da lei in quel periodo sono pervase di rassegnazione e d'amore. E chi potrà dire dei colloqui che avevamo? Lungi dal separarci, le grate del Carmelo univano più fortemente le nostre anime, avevamo gli stessi pensieri, gli stessi desideri, lo stesso amore di Gesù e delle anime! Quando Celina e Teresa parlavano tra loro, mai una parola delle cose terrene si mescolava alle loro conversazioni che già erano tutte nel Cielo. Come un tempo nel «belvedere», sognavamo le cose dell'eternità e, per godere ben presto di quel gaudio senza fine, sceglievamo quaggiù come nostra unica parte «la sofferenza e il disprezzo».
208 - In tal modo passò il tempo del mio fidanzamento: fu ben lungo per la povera Teresa! Alla fine del mio anno di noviziato Nostra Madre mi disse di non chiedere la professio­ne, ché certamente il Superiore respingerebbe la mia istanza, dovetti attendere ancora otto mesi... Al primo momento mi fu ben difficile accogliere quel grande sacrificio, ma ben presto la luce mi si fece nell'anima; meditavo allora i «Fondamenti della vita spirituale» del Padre Surin; un giorno, durante l'orazio­ne, capii che il mio desiderio vivo di far professione era mesco­lato con un grande amor proprio; poiché mi ero data a Gesù per fargli piacere, consolarlo, non dovevo obbligarlo a fare la mia volontà invece della sua; capii allora che una fidanzata dev'essere ornata nel giorno delle nozze, e che io non avevo fatto nulla a questo scopo, allora dissi a Gesù: «O Dio mio! non vi chiedo di pronunciare i miei santi voti, attenderò quanto vor­rete voi, soltanto non voglio che per colpa mia la mia unione con voi sia differita, perciò mi metterò con tutto l'impegno a prepararmi una bella veste ricca di gemme; quando la trovere­te abbastanza ornata, sono sicura che nessuna creatura vi impe­dirà di scendere verso di me per unirmi con voi per sempre, o mio Amato!».
209 - Dopo la mia vestizione avevo già ricevuto luci abbondanti sulla perfezione religiosa, principalmente riguardo al voto di povertà. Durante il mio postulantato ero contenta di avere delle cose graziose per mio uso, e di trovare sotto mano tutto ciò che mi occorreva. «il mio Direttore» sopportava ciò pazientemente, perché non gli piace mostrare alle anime tutto nello stesso momento. Generalmente dà la sua luce a poco a poco. (All'inizio della mia vita spirituale, verso l'età dai tredici ai quattordici anni, mi chiedevo ciò che più tardi avrei avuto da acquistare perché credevo che mi fosse impossibile capire meglio la perfezione; ho riconosciuto ben presto che, più si va avanti su quel cammino, più ci crediamo lontani dalla meta, così ora mi rassegno a vedermi sempre imperfetta, e trovo in ciò la mia gioia...). Ritorno alle lezioni che mi dette «il mio Direttore». Una sera, dopo Compieta, cercai inutilmente la nostra piccola lampada sulle tavole destinate a quell'uso, era gran silenzio, impossibile reclamare. Capii che una suora, credendo di pren­dere la sua lampada, aveva preso la nostra, di cui avevo gran bisogno; invece di provar dispiacere essendone privata, fui ben felice, sentendo che la povertà consiste nel vedersi privi non sol­tanto delle cose piacevoli, bensì anche delle indispensabili, così nelle tenebre esteriori fui illuminata interiormente. Fui presa in quel tempo da un vero e proprio amore per gli oggetti più brutti e meno comodi, così vidi con gioia che mi veniva tolta la bella brocchina della nostra cella, e che mi veniva data una brocca grossa tutta sbocconcellata.
210 - Facevo anche veri sforzi per non giustificarmi, cosa che mi pareva ben difficile, specie con la nostra Maestra, alla quale non avrei voluto tacere alcunché. Ecco la mia prima vit­toria, non è molto grande, ma mi è costata molto: un vasetto collocato dietro una finestra venne trovato rotto; la nostra Maestra, credendo che l'avessi fatto cadere io, me lo mostrò, dicendomi di far più attenzione un'altra volta. Senza dir nulla baciai terra, poi promisi che nell'avvenire sarei stata più ordi­nata. A causa della mia scarsa virtù quelle pratiche mi costava­no molto, e avevo bisogno di pensare che nel giudizio univer­sale tutto sarebbe stato rivelato, perché facevo questa osserva­zione: quando si fa il proprio dovere senza mai giustificarsi, nessuno lo sa; al contrario, le imperfezioni appaiono subito.
211 - M'impegnavo soprattutto a praticare le virtù picco­le, non avendo il destro per praticare le grandi, così mi piaceva ripiegare le cappe dimenticate dalle consorelle, e rendere a queste ultime tutti i piccoli servigi che potevo. Mi fu dato anche l'amore della mortificazione e fu tanto più grande in quanto niente mi era permesso per soddisfarlo. La sola piccola mortificazione che facevo nel mondo, e che consisteva nel non appoggiare il dorso quand'ero seduta, mi fu proibita a causa della mia propensione a curvarmi. Ahimè! il mio ardore certa­mente non sarebbe stato di lunga durata se mi avessero con­cesso molte penitenze... Quelle che mi permisero senza che io le chiedessi consistevano nel mortificare il mio amor proprio, ciò che mi procurava molto maggior vantaggio che non le peni­tenze corporali.
212 - Il refettorio, che fu il mio ufficio subito dopo la vestizione, mi offerse più d'una occasione per mettere il mio amor proprio al posto che gli spetta, cioè sotto i piedi. E’ vero che provavo grande consolazione perché ero nello stesso uffi­cio suo, Madre mia cara, e potevo contemplare da vicino le sue virtù, ma questo ravvicinamento mi era causa di sofferen­za; non mi sentivo,come un tempo, libera di dire a lei tutto, c'era la regola da osservare, non potevo aprirle l'anima mia; insomma, ero al Carmelo, e non più ai Buissonnets sotto il tet­to paterno!
213 - Tuttavia la Santa Vergine mi aiutava a preparare la veste dell'anima mia; appena fu compiuta, gli ostacoli svaniro­no da sé. Monsignor Vescovo mi mandò il permesso che avevo chiesto, la comunità mi ricevette e la mia professione fu fissata all'8 settembre. Tutto quello che ho scritto in poche parole richiederebbe molte pagine di particolari, ma queste pagine non verranno mai lette sulla terra; presto, Madre mia cara, le parlerò di tutte queste cose nella nostra casa paterna, nel Cielo bello al quale salgono i sospiri dei nostri cuori! La mia veste nuziale era pronta, impreziosita dai gioielli antichi che mi aveva dati il mio Fidanzato, ma ciò non bastava alla sua generosità. Voleva darmi un diamante nuovo dai rffles­si innumerevoli. La prova di Papà era, con tutte le sue circostanze dolorose, i gioielli antichi, e il nuovo fu una prova ben piccola in apparenza, ma che mi fece soffrire molto.
214 - Da qualche tempo, poiché il nostro povero caro Babbo si sentiva un po' meglio, lo facevano uscire in carrozza, e si pensava perfino di farlo viaggiare in treno per venire a tro­varci. Naturalmente Celina pensò subito che bisognava sce­gliere il giorno della mia velazione. «Per non stancarlo - dice­va lei - non lo farò assistere a tutta la cerimonia, solamente alla fine andrò a prenderlo, e lo condurrò dolcemente fino alla gra­ta, affinché Teresa riceva la sua benedizione». Ah, riconosco bene il cuore della mia Celina cara... è pur vero che «l'amore non pone mai pretesti d'impossibilità perché crede tutto possi­bile e tutto permesso». Invece, la prudenza umana trema a ciascun passo, e non osa, per così dire, posare il piede; così il buon Dio che voleva provarmi si servì di lei come di uno stru­mento docile, e il giorno delle mie nozze fui veramente orfana: non avevo più Padre sulla terra, ma potevo guardare al Cielo con fiducia e dire con piena verità: «Padre Nostro, che sei nei Cieli».


8. SPOSA DI CRISTO (1890-1896)

Cammino nell'aridità - Giorno senza nubi della professione religiosa - Velazione - L'ultima lacrima di una santa - Epidemia al Carmelo - Ineffa­bile consolazione - Sulla via della confidenza e dell'amore - Desideri realiz­zati - Entrata di Celina nel Carmelo - Alla scuola di san Giovanni della Croce - Vittima dell'Amore misericordioso.

215 - Prima di parlarle di questa prova, avrei dovuto, Madre mia cara, parlarle del ritiro che precedette la mia pro­fessione; lungi dal portarmi consolazioni, mi recò l'aridità più assoluta e quasi l'abbandono. Gesù dormiva come sempre nel­la mia navicella; ah, vedo bene che di rado le anime lo lasciano dormire tranquillamente in loro stesse. Gesù è così stanco di sollecitare sempre con favori e di prendere le iniziative, che si affretta a profittare del riposo che io gli offro. Non si sveglierà certamente prima del mio grande ritiro dell'eternità, ma, inve­ce di addolorarmi, ciò mi fa un piacere immenso. In verità, sono ben lungi da essere santa, già questo di per sé ne è prova; invece di rallegrarmi per la mia aridità, dovrei attribuirla al mio poco fervore e alla mia scarsa fedeltà, dovrei sentirmi desolata perché dormo (da sette anni) durante le mie orazioni e i miei ringraziamenti; ebbene, non mi affanno per questo; penso che i bimbi piccoli piacciono ai loro genitori quando dormono come quando sono svegli, penso che per fare delle operazioni i medici addormentano i malati. Infine, penso che «il Signore vede la nostra fragilità, e si ricorda che noi siamo soltanto polvere»
216 - il mio ritiro di professione fu, dunque, come tutti quelli successivi, aridissimo; tuttavia il buon Dio mi mostrava chiaramente, senza che io me n'accorgessi, il mezzo per piacer­gli e praticare le virtù più sublimi. Ho notato varie volte che Gesù non vuole darmi provviste, mi sostiene minuto per minuto, con un nutrimento affatto nuovo, lo trovo in me senza sape­re come ci sia. Credo semplicemente che sia Gesù stesso nascosto in fondo al mio povero cuore che mi fa grazia di agire in me e mi fa pensare tutto quello che vuole ch'io faccia nel momento presente. Qualche giorno prima della mia professione ebbi la feli­cità di ricevere la benedizione del Sommo Pontefice; l'avevo sollecitata per mezzo del buon fratel Simeone per Papà e per me, e fu una grande consolazione poter rendere al mio Babbo caro la grazia che egli mi aveva procurata conducendomi a Roma.
217 - Finalmente il giorno bello delle mie nozze arrivò, fu senza nubi, ma il giorno avanti si alzò nell'anima mia una tempesta come non ne avevo mai viste. Non mi era ancora mai venuto un solo dubbio sulla mia vocazione, bisognava che cono­scessi questa prova. La sera, facendo la Via Crucis dopo Mat­tutino, la mia vocazione mi apparve come un sogno, una chi­mera... Trovavo bellissima la vita del Carmelo, ma il demonio m'ispirava la sicurezza che non era fatta per me, che avevo ingannato le superiore procedendo in una strada alla quale non ero chiamata. Le mie tenebre erano così grandi che vede­vo e capivo una cosa sola: non avevo la vocazione!... Ah, come descrivere l'angoscia dell'anima mia? Mi pareva (cosa assurda, che dimostra come quella tentazione fosse dal demonio) che se avessi detto le mie paure alla Maestra, questa mi avrebbe impe­dito di pronunziare i santi voti; tuttavia volevo fare la volontà di Dio e ritornare nel inondo piuttosto che restare nel Carmelo facendo la mia; feci dunque uscire la mia Maestra e piena di confusione le dissi lo stato della mia anima... Fortunatamente vide più chiaro di me e mi rassicurò completamente; d'altra parte l'atto di umiltà che avevo fatto aveva messo in fuga il demonio, il quale pensava forse che io non avrei osato confes­sare la tentazione. Appena ebbi finito di parlare i dubbi scom­parvero; per rendere più completo il mio atto di umiltà, volli ancora confidare la mia strana tentazione a Nostra Madre, la quale si contentò di ridere di me.
218 - La mattina dell'8 settembre mi sentii inondata da un fiume di pace, e in questa pace «che superava ogni senti­mento» pronunciai i miei santi voti. La mia unione con Gesù ebbe luogo non in mezzo a folgori e lampi, cioè tra grazie straordinarie, ma nel soffio di un vento lieve simile a quello che sentì sulla montagna il nostro padre sant'Elia. Quante grazie chiesi quel giorno! Mi sentivo veramente la Regina, pro­fittavo del mio titolo per liberare i prigionieri, ottenere i favori del Re verso i suoi sudditi ingrati, infine volevo liberare tutte le anime del Purgatorio e convertire i peccatori. Ho pregato molto per la mia Madre, per le mie Sorelle care, per tutta la famiglia, ma soprattutto per il mio Babbo, tanto provato e così santo. Mi sono offerta a Gesù affinché Egli compia perfettamente in me la sua volontà senza che mai le creature vi ponga­no ostacolo. Quel giorno bello passò come i più tristi, poiché i più radiosi hanno un domani, ma senza tristezza deposi la mia corona ai piedi della Vergine Santa, sentivo che il tempo non avrebbe portato via la mia felicità. Che festa bella, la natività di Maria per divenir la sposa di Gesù! Era la Santa Vergine bam­binella di un giorno che presentava il suo fiore piccino a Gesù Bambino. Quel giorno lì tutto era piccolo, eccettuate le grazie e la pace che io ricevetti, eccettuata la gioia serena che provai la sera, guardando scintillare le stelle, e pensando che ben pre­sto il cielo bello si sarebbe aperto ai miei occhi rapiti, e che avrei potuto unirmi al mio Sposo in una letizia eterna.
219 - Il 24 ebbe luogo la cerimonia della mia velazione, la giornata intera fu velata di lacrime. Papà non c'era per benedire la sua regina. Il Padre era in Canada. Monsignor Vescovo, il quale doveva venire e pranzare poi da mio zio, si trovò malato e non venne nemmeno lui, insomma tutto fu tristezza e amarezza. Tuttavia la pace, sempre la pace si trovava in fondo al calice. In quel giorno Gesù permise che io non potessi trattenere le mie lacrime, le mie lacrime non furono capite... In verità, avevo sop­portato senza piangere prove ben più grandi, ma allora ero aiu­tata da una grazia potente; invece il 24 Gesù mi lasciò alle mie proprie forze e mostrai quanto erano piccole.
220 - Otto giorni dopo la mia velazione ci fu il matrimo­nio di Giovanna. Dirle, Madre mia cara, quanto il suo esem­pio m'istruì riguardo alle premure che una sposa deve prodi­gare al proprio sposo, mi sarebbe impossibile; ascoltavo avida­mente tutto quello che potevo impararne perché non volevo fare per il mio Gesù amato meno di quanto Giovanna faceva per Francesco, una creatura senza dubbio molto perfetta, ma pur sempre una creatura. Mi divertii anche a comporre una lettera d'invito per paragonarla alla sua, ecco com'era concepita: Lettera d'invito alle nozze del Volto Santo.
Iddio Onnipotente, Crea­tore del cielo e della terra, Sovrano Dominatore del mon­do, e la gloriosissima Vergine Maria, Regina della Corte cele­ste, partecipano il Matrimonio del loro Augusto Figlio, Gesù, Re dei re e Signore dei signori, con la Signorina Teresa Martin, attualmente Dama e Principessa dei regni portati in dote dal suo Sposo Divino, cioè: l'Infanzia di Gesù e la sua Passione, essendo suoi titoli di nobiltà: di Gesù Bambino e del Volto Santo. di suor Teresa di Gesù Bambino e ll Signor Luigi Martin, Proprietario e Sire delle Signorie della Sofferenza e della Umilia­zione, e la Signora Martin, Prin­cipessa e Dama d'Onore della Corte celeste, partedpano il Matrimonio della loro figlia Teresa con Gesù il Verbo di Dio, seconda Persona dell'Ado­rabile Trinità, il quale, per opera dello Spirito Santo si è fatto Uomo e Figlio di Maria, la Regi­na dei Cieli. Non avendo potuto invitarvi alla benedizione nuziale che è sta­ta data loro sulla montagna del Carmelo, l'8 settembre 1890 (essendo stata ammessa soltanto la Corte Celeste), la S. V. è comunque prega­ta al Ritorno dalle Nozze che avrà luogo Domani, Giorno della Eter­nità, nel quale giorno Gesù, Figlio di Dio, verrà sulle nubi del Cielo nello splendore della sua Maestà, per giudicare i Vivi e i Morti. L'ora essendo ancora incerta, siete invitati a tenervi pronti, e a vegliare. felicità di aver conosciuto la nostra santa Madre Genoveffa. E una grazia inestimabile, quella; ebbene, il buon Dio, il quale me ne aveva già concesse tante, di grazie, ha voluto che io vivessi con una Santa non già inimitabile, bensì una Santa san­tificata da virtù nascoste e ordinarie. Più d'una volta ho ricevu­to grandi consolazioni da questa Madre, soprattutto una dome­nica. Andai come di consueto a farle una visitina, ma trovai due religiose presso di lei; le sorrisi, e mi disponevo a uscire poiché non si può essere in tre presso una malata, ma lei, guar­dandomi con aria ispirata, disse: «Attenda, figlia mia, ho da dirle una parolina sola. Ogni volta che lei viene, mi chiede di darle un mazzetto spirituale, ebbene, oggi le darò questo: Servite Dio in pace e con gioia; si ricordi, figlia, che il nostro Dio è il Dio della pace 10» Dopo averla semplicemente ringraziata, uscli commossa fino alle lacrime, e convinta che il buon Dio le aves­se rivelato la condizione dell'anima mia; quel giorno ero estre­mamente provata, quasi triste, in una notte tale che non sapevo più se ero amata da Dio misericordioso, ma la gioia e la conso­lazione che provai, lei le indovina, Madre mia cara! La domenica seguente volli sapere quale rivelazione Madre Genoveffa avesse avuta; mi assicurò che non ne aveva avuta alcuna; allora la mia ammirazione fu ancora più grande, vedendo a quale grado eminente Gesù viveva in lei e la faceva agire e parlare. Ah, quella santità là mi pare la più vera, la più santa, ed è quella che desidero, perché non si trovano in essa illusioni...
222 - ll giorno della mia professione fui anche molto con­solata venendo a sapere dalla bocca di Madre Genoveffa che ella era passata dalla stessa prova mia, prima di pronunciare i suoi voti. Nel momento delle nostre grandi pene, lei rammen­ta, Madre cara, le consolazioni che trovammo presso lei? il ricordo che Madre Genoveffa mi ha lasciato nel cuore, è un ricordo profumato. il giorno del suo transito al Cielo mi sen­tii particolarmente commossa, era la prima volta che assistevo alla morte, realmente quello spettacolo era incantevole... Ero situata proprio a piè del letto della santa morente, vedevo per­fettamente i suoi movimenti più lievi. Mi pareva, durante le due ore che passai così, che l'anima mia avrebbe dovuto empir­si di fervore; al contrario, una specie d'insensibilità si era impadronita di me, ma nel momento stesso in cui la nostra santa Madre Genoveffa nasceva al Cielo, le mie disposizioni intime cambiarono, in un batter d'occhio mi sentii piena di una gioia e d'un fervore indicibili, era come se Madre Geno­veffa mi avesse dato una parte della felicità della quale godeva, perché sono ben sicura che è andata diritta al Cielo. Durante la vita le dissi un giorno: «Oh Madre, lei non andrà in purga­torio! ». - «Lo spero», mi rispose con dolcezza. Ah, certamente il buon Dio non ha potuto deludere una speranza così piena d'umiltà, lo dimostrano tutti i favori che abbiamo ricevuti... Ciascuna suora si fece premura di richiedere qualche reliquia; lei lo sa, Madre mia cara, quale è quella che io possiedo, felice me! Durante l'agonia di Madre Genoveffa, notai che una lacri­ma riluceva sulla sua palpebra come un diamante; era l'ultima di tutte quelle sparse da lei, e non cadde, la vidi ancora brillare nel coro senza che alcuna pensasse a raccoglierla. Allora, pren­dendo un pannolino fine, osai avvicinarmi la sera, senza essere veduta, e prendere come reliquia l'ultima lacrima di una San­ta! Dopo, l'ho portata sempre nel sacchetto entro il quale sono chiusi i miei voti.
223 - Io non do importanza ai miei sogni, del resto ne ho raramente di simbolici, e mi domando perfino come mai, pen­sando tutto il giorno al Signore, io non me ne occupi di più durante il sonno. Generalmente sogno i boschi, i fiori, i ruscel­li, il mare, e quasi sempre vedo dei bambini belli, acchiappo farfalle ed uccellini come non ne ho visti mai. Lei vede, Madre, che se i miei sogni hanno un'apparenza poetica, sono lungi dall'essere mistici... Una notte dopo la morte di Madre Geno­veffa, ne feci uno consolante: sognai che ella faceva testamen­to, dando a ciascuna consorella una cosa che le era appartenu­ta; quando venne il mio turno, credevo di non ricevere niente perché niente le restava più, ma sollevandosi ella disse per tre volte con un tono penetrante: «A lei lascio il mio cuore».
224 - Un mese dopo il transito della nostra santa Madre, l'influenza si manifestò nella comunità; ero sola in piedi con due altre consorelle, mai potrò dire tutto quello che ho visto, e che cosa m'è sembrato della vita e di tutto ciò che passa... il giorno dei miei diciannove anni fu festeggiato da una morte, seguita ben presto da altre due. In quel periodo ero sola ad occuparmi della sacristia, la mia maggiore d'ufficio era ammalata gravemente, perciò toccava a me preparare i funera­li, aprire le grate del coro per la Messa, ecc. Il buon Dio mi ha dato molte grazie di forza in quel momento, mi domando ora come io abbia potuto fare senza paura tutto quello che ho fat­to; la morte regnava dovunque, le più malate erano curate da quelle che si trascinavano a fatica; appena una consorella ave­va reso l'ultimo respiro, eravamo costrette a lasciarla sola. Un mattino, alzandomi, ebbi il presentimento che suor Maddalena fosse morta; il dormitorio era all'oscuro, nessuna usciva dalle celle, finalmente mi decisi a entrare in quella di suor Maddale­na, la cui porta era aperta; la vidi, infatti, vestita e distesa sul pagliericcio, non ebbi la minima paura. Vedendo che non ave­va più cero, andai a cercarne uno, ed anche una corona di rose. La sera in cui morì la madre Sottopriora, ero sola con l'infermiera. Impossibile figurarsi la triste condizione della comunità in quel momento, soltanto quelle che erano in piedi potevano farsene un'idea, ma in mezzo a quell'abbandono, io sentivo che il Signore vegliava su noi. Senza sforzo le morenti passavano a vita migliore, subito dopo la morte una espressio­ne di gioia e di pace si diffondeva sui loro volti, si sarebbe det­to un sonno dolce; e tale era veramente, perché, dopo che le parvenze di questo mondo saranno dileguate, esse si risveglie­ranno per godere eternamente le delizie riservate agli eletti.
225 - Per tutto il tempo durante il quale la comunità fu provata in questo modo, potei avere l'ineffabile consolazione della santa Comunione quotidiana. Ah com'era dolce! Gesù mi favorì più a lungo che le sue spose fedeli, perché permise che me la dessero allorché le altre non avevano la felicità di averla. Ed ero anche tanto felice di toccare i vasi sacri, di preparare i lini destinati a ricevere Gesù, sentivo che dovevo essere molto fervente e mi ricordai spesso una parola rivolta a un santo diaco­no: «Siate santi, voi che toccate i vasi del Signore». Non posso dire d'avere ricevuto spesso delle consolazioni durante i miei ringraziamenti, forse è il momento in cui ne ho meno. Ma questo lo trovo naturale perché mi sono offerta a Gesù come una persona che desidera ricevere la sua visita non già per propria consolazione, bensì per il piacere di Colui che si dà a me. Mi figuro l'anima mia come un terreno libero, e prego la Vergine Santa di sgombrare i detriti che potrebbero impedirle di essere libera, poi la supplico di alzare ella stessa una tenda vasta, degna del Cielo, di abbellirla con i suoi ornamenti, e invito tutti i Santi e gli Angeli affinché vengano a fare un magnifico concerto. Mi pare, quando Gesù discende nel mio cuore, che sia contento di vedersi ricevuto così bene, ed anch'io sono contenta. Tutto ciò non impedisce alle distrazioni e al sonno di venire a farmi visita, ma, uscendo dal ringrazia­mento e vedendo che l'ho fatto tanto male, risolvo di stare tut­to il resto della giornata in azione di grazie.
226 - Lei vede, Madre cara, che sono ben lungi dall'esser guidata per la via della paura, so trovar sempre il mezzo per essere felice e profittare delle mie miserie. Realmente ciò non deve dispiacere a Gesù, perché pare che m'incoraggi su questa via. Un giorno, contrariamente al mio solito, ero un poco tur­bata mentre andavo alla Comunione, mi pareva che il Signore non fosse contento di me, e io dicevo a me stessa: «Ah se oggi ricevo soltanto metà di un'ostia, sarò addolorata, crederò che Gesù venga quasi malvolentieri nel mio cuore». Mi avvicino... oh felicità! per la prima volta in vita mia, vedo il sacerdote che prende due ostie ben separate e me le dà! Lei capisce la mia gioia e le lacrime dolci che ho pianto, vedendo una misericor­dia tanto grande.
227 - L’anno che seguì la mia professione, cioè due mesi prima che morisse madre Genoveffa, ricevetti grandi grazie durante il ritiro. Generalmente i ritiri predicati mi sono anco­ra più dolorosi di quelli che faccio da sola, ma quell'anno accad­de diversamente. Avevo fatto una novena preparatoria con gran­de fervore, nonostante quello che provavo intimamente, perché mi sembrava che il predicatore non potesse capirmi, in quanto pareva adatto soprattutto a far del bene ai grandi peccatori, ma non alle anime consacrate. Il Signore, volendo mostrarmi che è lui solo il direttore dell'anima mia, si servì proprio di quel Padre, il quale fu apprezzato soltanto da me. Avevo allora grandi prove intime di ogni sorta (fino a chiedermi talvolta se ci fosse un Cie­lo). Mi sentivo inclinata a non parlare delle mie disposizioni inti­me, non sapendo come esprimerle, ma appena entrata in confes­sionale sentli l'anima mia dilatarsi. Dopo che avevo detto poche parole, fui capita in un modo meraviglioso e perfino indovinata. L’anima mia era come un libro nel quale il Padre leggeva meglio che io stessa. Mi lanciò a vele spiegate sulle onde della confiden­za e dell'amore che mi attiravano così fortemente, e sulle quali non osavo andare avanti. Mi disse che le mie colpe non addolo­ravano il Signore, e aggiunse come suo rappresentante e a nome suo che il Signore era molto contento di me.
228 - Oh, come fui felice d'ascoltare quelle parole conso­lanti! Mai avevo inteso dire che le colpe potevano non addolo­rare il buon Dio, quest'assicurazione mi colmò di gioia, mi fece sopportare pazientemente l'esilio della vita. Sentivo bene in fondo al cuore che era vero, perché il Signore è più tenero di una madre; ora lei, Madre cara, non è sempre pronta a per­donarmi le piccole mancanze di delicatezza che le faccio invo­lontariamente? Quante volte ne ho fatta la dolce esperienza! Nessun rimprovero mi avrebbe toccata tanto, quanto una sola delle sue carezze. Sono di una natura tale che la paura mi fa indietreggiare, con l'amore non soltanto vado avanti, ma volo. Oh, Madre mia, fu soprattutto dal giorno della sua ele­zione che volai sulla via dell'amore. In quel giorno Paolina divenne il mio Gesù vivente.
229 - Da lungo tempo già ho la felicità di contemplare le meraviglie che Gesù opera per mezzo della mia cara Madre. Credo che la sofferenza sola può generare le anime e più che mai le sublimi parole di Gesù mi svelano la loro profondità: «In verità, in verità vi dico, se il chicco di grano caduto a terra non muore, rimane solo, ma se muore dà molto frutto». Quale messe abbondante lei ha raccolto! Ha seminato tra le lacrime, ma ben presto vedrà il frutto delle sue fatiche, ritornerà colma di gioia, portando manipoli tra le mani... Oh, Madre mia, tra quei manipoli il fiorellino bianco si nasconde, ma in Cielo avrà una voce per cantare la dolcezza e le virtù che vede praticare da lei giorno per giorno nell'ombra e nel silenzio dell'esilio. Sì, da due anni ho capito molti misteri nascosti per me fino allora. Il buon Dio mi ha mostrato la stessa misericordia che mostrò al re Salomone. Ha voluto che io non abbia nem­meno un solo desiderio inappagato, non soltanto i miei deside­ri di perfezione, bensì anche quelli di cui capivo la vanità, sen­za averla sperimentata.
230 - Avendo sempre considerato lei, Madre mia cara, come il mio ideale, desideravo somigliarle in tutto; vedendo lei che faceva belle pitture e deliziose poesie, dicevo: «Come sarei felice di poter dipingere, di sapere esprimere i miei pensieri in versi e così far del bene alle anime...». Non avrei voluto chie­dere questi doni naturali e i miei desideri mi rimanevano nasco­sti in fondo al cuore. Piacque a Gesù, nascosto anche lui in questo povero cuore, mostrarmi che tutto è vanità e afflizione di spirito sotto il sole... Con grande meraviglia delle consorel­le, mi fecero dipingere e il buon Dio permise che io profittassi delle lezioni datemi dalla mia cara Madre. Volle inoltre che io riuscissi a fare delle poesie secondo l'esempio di lei, a còmporre strofe che furono trovate carine. Così come Salomone volgendosi verso le opere delle sue mani, per le quali si era affaticato inutilmente, vide che tutto è vanità e afflizione di spirito, così io ho riconosciuto per esperienza che la felicità consiste soltanto nel nascondersi, nel restare nell'igno­ranza delle cose create. Ho capito che, senza l'amore tutte le cose sono niente, anche le più splendide come risuscitare i morti o convertire i popoli. Invece di farmi del male, di indurmi a vanità, i doni che il buon Dio mi ha prodigati (senza che glielo chiedessi) mi por­tano verso lui, vedo che lui solo è immutabile, che lui solo può colmare i miei desideri immensi.
231 - Gesù si è compiaciuto di soddisfare anche altri miei desideri d'altro genere, desideri infantili, simili a quello della neve per la mia vestizione. Lei sa, Madre cara, quanto io ami i fiori; facendomi pri­gioniera a quindici anni, rinunciai per sempre alla gioia di cor­rere nelle campagne smaltate dai tesori della primavera; ebbe­ne! mai ho avuto più fiori che da quando sono entrata nel Car­melo. È usanza che i fidanzati offrano spesso dei mazzi alle fidanzate; Gesù non lo dimenticò, mi mandò in gran numero mazzi di fiordalisi, margherite, papaveri, ecc. di tutti i fiori che mi piacciono di più. C'era perfino un fiorellino chiamato la nigella dei grani che non avevo trovato da quando stavamo a Lisieux, desideravo tanto rivederlo, questo fiore della mia infan­zia che avevo colto nelle campagne di Alencon; proprio al Car­melo venne a sorridermi e mostrarmi che sia nelle cose piccole come nelle grandi il buon Dio dà il centuplo fin da questa vita alle anime che per amor suo hanno lasciato tutto.
232 - Ma il più intimo dei miei desideri, il più grande di tutti, che credevo non veder mai attuato, era che la mia Celina entrasse nel nostro stesso Carmelo. Questo sogno mi pareva inverosimile: vivere sotto il medesimo tetto, condividere gioie e dolori della mia compagna d'infanzia; così avevo fatto com­pletamente il mio sacrificio, avevo affidato a Gesù l'avvenire della mia sorella cara, ed ero risoluta a vederla partire verso l'estremità del mondo, se necessario. La sola cosa che non potevo accettare, era che lei non fosse la sposa di Gesù, perché l'amavo quanto me stessa, e mi pareva impossibile vederla dare il cuore a un uomo di questa terra. Avevo già sofferto molto sapendola nel mondo, esposta a pericoli che io non ave­vo conosciuti. Posso dire che a datare dal mio ingresso nel Car­melo, il mio affetto per Celina era un amore di madre quanto di sorella. Una volta in cui doveva andare a una festa, ciò mi dispiaceva tanto che supplicai il Signore d'impedirle di ballare, e (contro la mia abitudine) ci feci anche un bel pianto. Gesù si degnò di esaudirmi. Non permise che la sua piccola fidanzata potesse ballare quella sera (nonostante che non fosse impac­ciata per farlo graziosamente quando ciò era necessario). Essendo stata invitata senza che le fosse possibile rifiutare, il suo cavaliere si trovò nell'incapacità totale di farle fare un pas­so, con grande sua confusione fu condannato a camminare semplicemente per ricondurla al posto, poi sparì, e non ricom­parve più per tutta la serata. Quell'avventura, unica nel suo genere, mi fece crescere nella fiducia e nell'amore di Colui che, ponendo il suo segno sulla mia fronte, l'aveva al tempo stesso inciso su quella della mia Celina cara.
233 - Il 29 luglio dell'anno scorso, il buon Dio, rompen­do i vincoli del suo incomparabile servo, lo chiamò alla ricom­pensa eterna e spezzò al tempo stesso il legame che tratteneva nel mondo la sua fidanzata cara; ella aveva compiuto la sua prima missione. Incaricata di rappresentarci tutte presso nostro Padre così teneramente amato, aveva assolto come un angelo questo compito; e gli angeli non restano sulla terra, quando hanno attuato la volontà di Dio tornano subito a lui, è per questo che hanno le ali. Anche il nostro angelo scosse le sue ali bianche, era pronto a volarelontano lontano per trovare Gesù, ma Gesù lo fece volare vicino. Si contentò che venisse accettato il grande sacrificio, ben doloroso per Teresa. Duran­te due anni la sua Celina aveva nascosto un segreto. Ah, quanto aveva sofferto anche lei! Finalmente dall'alto del Cielo il mio Re diletto, al quale sulla terra non piacevano le lungag­gini, si affrettò ad accomodare le faccende così complicate del­la sua Celina e il 14 settembre ella poté riunirsi a noi.
234 - Un giorno in cui le difficoltà parevano insuperabili, dissi a Gesù durante il ringraziamento: «Voi sapete, Dio mio, quanto desidero conoscere se Papà è andato direttamente in Cielo, io non vi chiedo di parlarmi, ma datemi un segno. Se suor A.d.G. consente che Celina entri nel Carmelo, o almeno non pone ostacoli, sarà la risposta che Papà è venuto difilato da voi». Quella consorella, lei lo sa, Madre mia cara, trovava che eravamo già troppe noi tre, e per conseguenza non voleva ammetterne un'altra, ma Dio, che tiene in mano sua il cuore delle creature e l'orienta come vuole lui, cambiò le disposizio­ni di questa religiosa; fu proprio la prima persona che incon­trai dopo il ringraziamento: mi chiamò con tono amabile, mi disse di salire da lei, e mi parlò di Celina con le lacrime agli occhi. Ah, quante ragioni ho di ringraziare Gesù che seppe col­mare tutti i miei desideri.
235 - Ora non ho più alcun desiderio se non quello di amare Gesù alla follia... I miei desideri infantili sono scompar­si, certo mi piace ancora ornare di fiori l'altare di Gesù Bambi­no, ma dopo che mi ha dato il fiore che desideravo, la mia Celina cara, non ne desidero altri, gli offro lei come il mio più incantevole mazzo. Non desidero più la sofferenza né la morte, eppure le amo tutte due, ma è l'amore solo che mi attira. A lungo le ho desiderate; ho posseduto la sofferenza e ho creduto raggiun­gere la riva del Cielo, ho creduto che il fiorellino sarebbe stato colto nella sua primavera. Ora l'abbandono solo mi guida, non ho altra bussola! Non posso chiedere più niente con ardore, fuorché il compimento perfetto della volontà del Signore sull'anima mia senza che le creature riescano a porvi ostacolo. Posso dire queste parole del cantico spirituale del Nostro Padre san Giovanni della Croce: «Nel celliere interno del mio Amato, ho bevuto, e quando sono uscita, in tutta que­sta pianura non conoscevo più nulla e ho perduto il gregge che prima seguivo. L'anima mia si è impegnata con tutte le sue risorse al suo servizio, non ho più gregge, non ho più altro ufficio, perché ora tutto il mio esercizio è di amare! » Oppu­re ancora: «Da quando ne ho l'esperienza, l'Amore è così potente in opere che sa trarre profitto di tutto, del bene e del male che trova in me, e trasforma l'anima mia in ». Oh Madre cara! Com'è dolce la via dell'amore! Senza dubbio, si può ben cadere, si può commettere delle infedeltà, ma l'amore, sapendo trarre profitto da tutto, consuma rapidamente tut­to quello che può dispiacere a Gesù, lasciando soltanto una umile profonda pace in fondo al cuore...
236 - Quante luci ho trovato nelle opere del Nostro Padre san Giovanni della Croce! All'età di diaassette e diciotto anni non avevo altro nutrimento spirituale, ma più tardi tutti i libri mi lasciarono nell'aridità, e sono ancora in questa condi­zione. Se apro un libro scritto da un autore spirituale (anche il più bello, il più commovente), sento subito il mio cuore serrar­si, e leggo quasi senza capire, o, se capisco, lo spirito mio si ferma senza poter meditare. In questa impotenza, la Sacra Scrittura e l'Imitazione mi vengono in soccorso; in esse trovo nutrimento solido e puro. Ma soprattutto il Vangelo mi occu­pa durante la preghiera, in esso trovo tutto il necessario per la mia povera anima. Scopro sempre in esso luci nuove, significati nascosti e misteriosi. Capisco e so per esperienza «che il Regno di Dio è den­tro di noi». Gesù non ha bisogno di libri né di dottori per istruire le anime; lui, il Dottore dei dottori, insegna senza rumor di parole... Mai l'ho inteso parlare, ma sento che è in me, ad ogni istante, e mi guida e m'ispira ciò che debbo dire o fare. Scopro proprio nel momento in cui ne ho bisogno, delle luci che non avevo ancora viste, e più spesso non è durante l'ora­zione che sono maggiormente abbondanti, è piuttosto in mez­zo alle occupazioni della giornata.
237 - Madre cara, dopo tante grazie, non posso cantare col salmista: «Che il Signore è buono, che la sua misericordia è eterna»? Mi pare che, se tutte le creature avessero le stesse grazie che ho io, nessuno avrebbe paura del Signore, ma tutti lo amerebbero alla follia, e che tutte le anime eviterebbero di offenderlo, per amore, e non tremando. Capisco tuttavia che non tutte le anime possono somigliarsi, bisogna che ce ne sia­no di gruppi diversi per onorare in modo particolare ciascuna perfezione del Signore. A me ha dato la sua misericordia infi­nita, attraverso essa contemplo e adoro le altre perfezioni divi­ne. Allora tutte mi appaiono raggianti di amore, la giustizia stessa (e forse ancor più che qualsiasi altra) mi sembra rivestita d'amore. Quale gioia pensare che il buon Dio è giusto, cioè che tiene conto delle nostre debolezze, che conosce perfetta­mente la fragilità della nostra natura. Di che cosa dunque avrei paura? Ah, il Dio infinitamente giusto che si degnò perdonare con tanta bontà le colpe del figliuol prodigo, non deve essere giusto anche verso me che «sto sempre con lui» ~
238 - Quest'anno, il 9 giugno, festa della Santissima Tri­nità, ho ricevuto la grazia di capire più che mai quanto Gesù desideri d'essere amato. Pensavo alle anime che si offrono come vittime alla giusti­zia di Dio al fine di stornare e attirare sopra se stesse i castighi riservati ai colpevoli, questa offerta mi pareva grande e genero­sa, ma ero lungi dal sentirmi portata a farla. «O Dio mio! - dis­si dal profondo del cuore - soltanto la vostra giustizia riceverà anime le quali s'immolino come vittime? Il vostro Amore mise­ricordioso non ne ha bisogno anche lui?... Da ogni parte èmisconosciuto, respinto; i cuori ai quali voi desiderate prodi-garlo si volgono verso le creature chiedendo ad esse la felicità col loro miserabile affetto, invece di gettarsi tra le vostre brac­cia e di accettare il vostro amore infinito. Oh Dio mio! il vostro amore disprezzato resterà dentro il vostro cuore? Mi pare che se voi trovaste anime che si offrissero come vittime di olocausto al vostro amore, voi le consumereste rapidamente, mi pare che sareste felice di non comprimere le onde d'infinita tenerezza che sono in voi. Se alla vostra giustizia piace di scaricarsi, lei che si estende soltanto sulla terra, quanto più il vostro amore misericordioso desidera incendiare le anime, poiché la vostra misericordia s'innalza fino ai cieli. O Gesù mio! che sia io questa vittima felice, consumate il vostro olocausto col fuoco del vostro amore divino!...». Madre cara, lei che mi ha permesso di offrirmi così al buon Dio, lei sa quali fiumi, o piuttosto quali oceani di grazie, inonda­rono l'anima mia... Ah, da quel giorno felice mi pare che l'amore mi compenetri e mi avvolga, mi pare che, ad ogni istante, questo amore misericordioso mi rinnovi, purifichi l'anima mia e non lasci alcuna traccia di peccato, perciò non posso temere il purga­tono... So che per me stessa non meriterei nemmeno di entrare in quel luogo di espiazione, poiché soltanto le anime sante possono trovare adito ad esso, ma so altresì che il fuoco dell'amore è più santificante di quello del Purgatorio, so che Gesù non può desiderare per noi sofferenze inutili, e che egli non m'ispirerebbe i desideri che sento, se non volesse colmarli... Oh com'è dolce la via dell'amore! Come mi voglio dedi­care a far sempre, col più grande abbandono, la volontà del Signore!
239 - Ecco, Madre cara, tutto quello che posso dirle riguardo alla vita della sua piccola Teresa; lei stessa sa ben meglio di me quella che io sono e ciò che Gesù ha fatto per me, perciò lei mi vorrà perdonare se ho abbreviato molto la storia della mia vita religiosa... Come si compirà questa «storìa di un fiorellino bianco»? Forse l'umile fiore verrà colto nella sua freschezza, oppure tra­piantato su altre rive?... L'ignoro, ma di una cosa sono sicu­ra, ed è che la misericordia di Dio lo accompagnerà sempre, e che mai esso cesserà di benedire la Madre cara che lo ha dato a Gesù; eternamente si rallegrerà di essere uno dei fiori della sua corona. Eternamente canterà con questa Madre diletta il cantico sempre nuovo dell'Amore.




SCRITTO AUTOBIOGRAFICO B
diretto a suor Maria del Sacro Cuore sorella Maria)

A. RISPOSTA ALLA SORELLA MARIA (1896)

Difficoltà nel rivelare i divini segreti - Soltanto l'amore può renderci graditi al Signore - Non opere grandi, ma abbandono riconoscente di bam­bino tra le braccia paterne.

J.M.J.T. Gesù settembre 1896


240 - O mia sorella cara! Lei mi chiede un ricordo dei miei esercizi spirituali, esercizi che forse saranno gli ultimi. Poiché Nostra Madre lo permette, è una gioia per me d'intrattenermi con lei che è due volte mia sorella, con lei che mi ha prestato la sua voce promettendo in nome mio che io volevo servire soltan­to Gesù, quando non mi era possibile parlare. Cara madrina, questa sera le parla la bimba che lei offri al Signore, e che la ama come una figlia sa amare la propria madre. Soltanto in Cielo lei conoscerà tutta la gratitudine che trabocca dal cuore mio. O mia sorella cara, ella vorrebbe udire i segreti che Gesù confida alla sua figlioletta; questi segreti li confida anche a lei, lo so, perché è lei che mi ha insegnato a raccogliere gli insegnamenti divini, tuttavia cercherò di balbettare qualche parola, pur sentendo che è impossibile alla parola umana ridire cose che il cuore può appena intuire.
241 - Non creda che io navighi nelle consolazioni, no! la mia consolazione è di non averne sulla terra. Senza mostrarsi, senza udir la sua voce, Gesù m'istruisce nell'intimo: non è per mezzo dei libri, perché non capisco quello che leggo, ma tal­volta una parola come questa che ho trovato alla fine dell'ora­zione (dopo essere rimasta nel silenzio e nell'aridità) viene a consolarmi: «Ecco il maestro che ti do, ti insegnerà tutto quel­lo che devi fare. Voglio farti leggere nel libro di vita, ov'è con­tenuta la scienza di Amore». La scienza d'Amore, oh, sì! la parola risuona dolce all'anima mia, desidero soltanto questa scienza. Per essa, avendo dato tutte le mie ricchezze, penso, come la sposa dei cantici, di non aver dato nulla. Capisco così bene che soltanto l'amore può renderci graditi al Signore, da costituire esso la mia unica ambizione.
242 - A Gesù piace mostrarmi il solo cammino che conduca alla fornace divina, cioè l'abbandono del bambino il quale si addormenta senza paura tra le braccia di suo Padre. «Se qualcuno è piccolo, venga a me», ha detto lo Spirito Santo per bocca di Salomone, e questo medesimo Spirito d'amore ha det­to ancora che «la misericordia è concessa ai piccoli». In nome suo il profeta Isaia ci rivela che nell'ultimo giorno «il Signore condurrà il suo gregge nelle pasture, raccoglierà gli agnellini e se li stringerà al cuore», e, come se tutte queste promesse non bastassero, lo stesso profeta, il cui sguardo s'immergeva già nelle profondità eterne, dice in nome del Signore: «Come una madre accarezza il figlio, così io vi consolerò, vi porterò in braccio e vi accarezzerò sulle mie ginocchia». Oh, Madrina cara! dopo un linguaggio simile non c'è che da tacere, piangere di riconoscenza e d'amore.
243 - Ah, se tutte le anime deboli e imperfette sentisse­ro ciò che sente la più piccola fra loro, l'anima della sua Tere­sa, non una dispererebbe d'arrivare alla vetta della montagna d'amore, poiché Gesù non chiede grandi azioni, bensì soltanto l'abbandono e la riconoscenza. Egli infatti dice nel Salmo XLIX: «Non ho bisogno alcuno dei capri dei vostri greggi, perché tutte le bestie delle foreste mi appartengono e le migliaia di animali che pascolano sulle colline, conosco tutti gli uccelli dei monti... Se avessi fame, non a voi lo direi, perché la terra e tutto ciò che contiene è mio. Debbo forse mangiare la carne dei tori e bere il sangue dei montoni? Immolate a Dio sacri­fici di lode e di ringraziamento». Ecco ciò che Gesù esige da noi, non ha bisogno affatto delle nostre opere, ma soltanto del nostro amore, perché que­sto Dio stesso che dichiara di non aver bisogno di dirci se ha fame, non ha esitato a mendicare un po' d'acqua dalla Samari­tana. Aveva sete... Ma dicendo: «dammi da bere» era l'amo­re della sua povera creatura che il Creatore dell'universo recla­mava... Aveva sete d'amore... Ah! lo sento più che mai, Gesù è assetato, non incontra se non ingrati e indifferenti tra i disce­poli del mondo, e tra i suoi stessi discepoli trova pochi cuori i quali si abbandonino a lui senza riserve, e capiscano la tene­rezza del suo amore infinito. Intimi segreti del nostro Sposo! Ah, se lei volesse scriverne tut­to quello che ne sa, avremmo delle pagine belle da leggere, ma io lo capisco, lei preferisce custodire in fondo al cuore «i segreti del Re», e a me dice «che è onorevole pubblicare le opere dell'Altissimo». Trovo che lei ha ragione di mantenere il silenzio, e soltanto per farle piacere scrivo queste righe, per­ché sento la mia impotenza a ridire con parole terrestri i segre­ti del Cielo; e poi, dopo aver tracciato pagine e pagine, mi par­rebbe di non avere ancora cominciato. Ci sono tanti orizzonti diversi, tante sfumature variate all'infinito, che soltanto la tavo­lozza dell'Artista divino potrà, dopo la notte di questa vita, fornirmi i colori capaci di dipingere le meraviglie che egli stes­so rivela all'anima mia.
245 - Sorella mia cara, mi ha chiesto di scriverle il mio sogno e «la mia piccola dottrina», come la chiama lei. L'ho fat­to nelle pagine seguenti, ma così male, da sembrarmi impossi­bile che lei capisca! Forse, troverà esagerate le mie espressioni. Mi perdoni, ciò dipenderà dal mio stile poco gradevole, le assi­curo che non c'è esagerazione alcuna nella mia piccola anima, tutto in essa è calmo e riposato. Scrivendo, parlo a Gesù, così mi è più facile esprimere i miei pensieri. Ciò che, purtroppo, non impedisce che siano espressi molto male!


B. LA PICCOLA DOTTRINA DI TERESA

Un sogno dolcissimo - Desideri immensi e contrastanti - Scoperta della propria vocazione nella Chiesa: l'Amore - Esso racchiude tutte le vocazioni ed è eterno - Vittima volontaria all'amore - Spargere fiori cantan­do - Come debole uccellino in fiduciosa attesa dell'Aquila adorata - Sup­plica per le «piccole» anime

J.M.J.T. 8 settembre 1896 

13. ALLA MIA CARA SORELLA MARIA DEL SACRO CUORE

246 - O Gesù, mio Amato! chi potrà dire con quale tenerez­za, quale dolcezza, voi conducete la piccola anima mia! come vi piace far risplendere il raggio della vostra grazia in mezzo anche al temporale più cupo! Gesù, la bufera tuonava forte nell'anima mia fin dalla bella festa del vostro trionfo, la festa radiosa di Pasqua, quando un sabato di maggio, pensando ai sogni miste­riosi che talvolta vengono concessi a certe anime, mi dicevo che dovevano essere una consolazione molto dolce, tuttavia non la chiedevo. La sera, la mia piccola anima, considerando le nubi che coprivano il suo cielo, si diceva ancora che i sogni non erano per lei, e sotto la terripesta si addormentò... L’indomani era il 10 mag­gio, seconda domenica del mese di Maria, forse l'anniversario del giorno nel quale la Vergine Maria si degnò sorridermi.
247 - Alle prime luci dell'aurora, mi trovai (in sogno) in una specie di galleria, c'erano varie altre persone, ma lontane. Nostra Madre sola era accanto a me. A un tratto, senza aver visto com'erano entrate, vidi tre carmelitane vestite dei loro mantelli e grandi veli, mi parve che venissero per Nostra Madre, ma quello che capii chiaramente è che venivano dal Cielo. Nel profondo del cuore dissi: come sarei felice di vedere il volto di una di quelle carmelitane! Allora, come se la mia preghiera fosse stata intesa da lei, la più alta delle sante si mos­se verso me; subito caddi in ginocchio. Oh, felicità! la carmeli­tana alzò il suo velo o piuttosto lo sollevò e mi coprì con esso... senz'alcuna esitazione riconobbi la venerabile Madre Anna di Gesù, la fondatrice del Carmelo in Francia. il suo viso era bello d'immateriale bellezza, nessun raggio scaturiva da esso, e tuttavia, nonostante il velo che ci avviluppava ambedue, vede­vo quel volto celeste rischiarato da una luce ineffabilmente dolce, che proveniva da esso stesso. Non saprei dire l'allegrezza dell'anima mia, queste cose si sentono e non si possono esprtrnere... Parecchi mesi sono tra­scorsi da quel sogno dolce, tuttavia il ricordo che esso lascia nell'anima mia non ha perduto niente della sua freschezza, del suo fascino celeste. Vedo ancora lo sguardo e il sorriso pieni d'amore della venerabile Madre. Credo di sentire ancora le carezze che mi prodigò.
248 - Vedendomi così teneramente amata osai pronuncia­re queste parole: «O Madre mia, vi supplico, ditemi se il Signore mi lascerà a lungo sulla terra. Verrà presto a prender­mi?». Sorridendo con tenerezza la santa mormorò: «Sì, presto presto, te lo prometto». - «Madre - aggiunsi - ditemi ancora se il buon Dio non chiede qualche cosa di più che le mie pove­re piccole azioni e i miei desideri. E contento di me?». Il volto della santa prese una espressione incomparabilmente più tene­ra della prima volta che mi aveva parlato, il suo sguardo e le sue carezze erano la risposta più dolce. Tuttavia mi disse: «il buon Dio non chiede altro da te. E contento, molto conten­to! ». Dopo avermi ancora accarezzata con più amore di quan­to non abbia fatto per suo figlio la più tenera delle madri, la vidi allontanarsi. Il mio cuore era nella gioia, ma mi ricordai delle mie sorelle, volli domandare qualche grazia per esse, ahimè! mi svegliai.
249 - Gesù! La tempesta allora non ruggiva, il cielo era calmo e limpido... Credevo, sentivo che esiste un Cielo e che questo Cielo è popolato di anime che mi amano, che mi guar­dano come loro figlia. Una tale impressione mi resta nel cuore, tanto più che la venerabile Madre Anna di Gesù mi era stata fino allora assolutamente indifferente, non l'avevo invocata mai, e il suo ricordo mi veniva soltanto quando udivo parlare di lei, cioè raramente. Così, quando capii a quale punto mi amava e quanto poco le ero indifferente, il cuore mio si sentì intenerire d'amore e di riconoscenza, non solamente per la santa che mi aveva visitata, ma anche per tutti i beati abitanti del Cielo.
250 - O Amato! questa grazia era soltanto il preludio di grazie più grandi, delle quali mi volevi colmare; lascia, mio unico Amore, che te le ricordi oggi... oggi sesto anniversario della nostra unione. Perdonami Gesù se sragiono volendo ridire i miei desideri, le mie speranze che raggiungono l'infini­to, perdonami e guarisci l'anima mia dandole ciò che spera! Essere tua Sposa, Gesù, essere carmelitana, essere, per l'unio­ne con te, madre delle anime, tutto questo dovrebbe bastar­mi... Non è così. Senza dubbio, questi tre privilegi sono ben la mia vocazione, carmelitana, sposamadre, tuttavia io sento in me altre vocazioni, sento la vocazione del guerriero, del sacer­dote, dell'apostolo, del dottore, del martire; finalmente sento il bisogno, il desiderio di compiere per te, Gesù, tutte le opere più eroiche. Sento nell'anima mia il coraggio di un crociato, di uno zuavo pontificio, vorrei morire sopra un campo di batta­glia per la difesa della Chiesa...
251 - Sento la vocazione del sacerdote. Con quale amore, Gesù, ti porterei nelle mie mani quando, alla mia voce, discen­deresti dal Cielo! Con quale amore ti darei alle anime! Ma, pur desiderando di essere sacerdote, ammiro e invidio l'umiltà di san Francesco d'Assisi, e sento la vocazione d'imitarlo, rifiu­tando la dignità sublime del sacerdozio. Gesù! Amore mio, vita mia, come conciliare questi con­trasti? Come attuare i desideri della mia povera piccola anima? Nonostante la mia piccolezza, vorrei illuminare le anime come i profeti, i dottori, ho la vocazione di essere apostolo. Vorrei percorrere la terra, predicare il tuo nome, e piantare sul suolo infedele la tua Croce gloriosa, ma, o Amato, una sola missione non mi basterebbe, vorrei al tempo stesso annunciare il Vangelo nelle cinque parti del mondo, e fino nelle isole più remote. Vorrei essere missionaria non soltanto per qualche anno, ma vorrei esserlo stata fin dalla creazione del mondo, ed esserlo fino alla consumazione dei secoli. Ma vorrei soprattut­to, amato mio Salvatore, vorrei versare il mio sangue per te, fino all'ultima goccia...
252 - Il martirio, questo è il sogno della mia giovinezza, questo sogno è cresciuto con me nel chiostro del Carmelo. Ma anche qui, sento che il mio sogno è una follia, perché non saprei limitarmi a desiderare un solo martirio. Per soddisfarmi li vorrei tutti... Come te, Sposo mio adorato, vorrei essere fla­gellata e crocifissa, vorrei morire scorticata come san Barto­lomeo, come san Giovanni vorrei essere immersa nell'olio bollente, vorrei subire tutti i supplizi inflitti ai martiri. Con sant'Agnese e santa Cecilia, vorrei presentare il collo alla spa­da, come Giovanna d'Arco, la mia cara sorella, vorrei mormo­rare sul rogo il tuo nome, Gesù... Pensando ai tormenti che verranno inflitti ai cristiani nel tempo dell'anticristo, trasalisco, e vorrei per me quei tormenti... Gesù, Gesù, se volessi scrivere tutti i miei desideri, dovrei prendere il tuo libro di vita, lì sono narrate le azioni di tutti i Santi, e quelle azioni vorrei averle compiute per te. Gesù mio, che cosa risponderai a tutte le mie follie? Esi­ste un'anima più piccola, più incapace della mia? Eppure, proprio per la mia debolezza, ti sei compiaciuto, Signore, di colmare i miei piccoli desideri infantili, e vuoi oggi colmare altri desideri più grandi che l'universo...
253 - Durante l'orazione, i miei desideri mi facevano soffrire un vero martirio: aprii le epistole di san Paolo per cercare una risposta. I capitoli XII e XIII della prima epistola ai Corinzi mi caddero sotto gli occhi. Lessi, nel primo, che tutti non possono essere apostoli, profeti, dottori, ecc.; che la Chie­sa è composta di diverse membra, e che l'occhio non potrebbe essere al tempo stesso anche la mano. La risposta era chiara, ma non colmava il mio desiderio, non mi dava la pace. Come Maddalena chinandosi sempre sulla tomba vuota finì per tro­vare ciò che cercava, così, abbassandomi fino alle profondità del mio nulla, m'innalzai tanto in alto che riuscii a raggiungere il mio scopo. Senza scoraggiarmi, continuai la lettura, e trovai sollievo in questa frase: «Cercate con ardore i doni più perfetti, ma vi mostrerò una via ancor più perfetta». E l'Apostolo spiega come i doni più perfetti sono nulla senza l'Amore. La Carità è la via per eccellenza che conduce sicuramente a Dio.
254 - Finalmente avevo trovato il riposo. Considerando il corpo mistico della Chiesa, non mi ero riconosciuta in alcuno dei membri descritti da san Paolo, o piuttosto volevo ricono­scermi in tutti. La Carità mi dette la chiave della mia vocazio­ne. Capii che, se la Chiesa ha un corpo composto da diverse membra, l'organo più necessario, più nobile di tutti non le manca, capii che la Chiesa ha un cuore, e che questo cuore arde d'amore. Capii che l'amore solo fa agire le membra della Chiesa, che, se l'amore si spegnesse, gli apostoli non annunce­rebbero più il Vangelo, i martiri rifiuterebbero di versare il loro sangue... Capii che l'amore racchiude tutte le vocazioni, che l'amore è tutto, che abbraccia tutti i tempi e tutti i luoghi, in una parola che è eterno. Allora, nell'eccesso della mia gioia delirante, esclamai: Gesù, Amore mio, la mia vocazione l'ho trovata finalmente, la mia vocazione è l'amore! Sì, ho trovato il mio posto nella Chiesa, e questo posto, Dio mio, me l'avete dato voi! Nel cuore della Chiesa mia Madre, io sarò l'amore. Così, sarò tutto... e il mio sogno sara attuato!
255 - Perché parlare di gioia delirante? No, questa espressione non è giusta, è piuttosto la pace, la serenità del navigatore il quale scorge il faro del suo porto. Oh, faro lumi­noso dell'amore, so come arrivare a te, ho trovato il segreto per impadronirmi della tua fiamma! Sono soltanto una bimba, incapace, debole, eppure la mia debolezza stessa mi dà l'audacia di offrirmi come vittima al tuo amore, Gesù! In altri tempi le ostie senza macchia erano le sole gradi­te al Dio forte e potente. Per soddisfare la giustizia divina occorrevano vittime perfette, ma alla legge del timore è suc­ceduta la legge dell'amore, e l'Amore mi ha scelta per olo­causto, me, creatura debole e imperfetta. Questa scelta non è degna dell'amore?... Sì, affinché l'amore sia soddisfatto piena­mente, bisogna che si abbassi, che si abbassi fino al niente, per trasformare in fuoco questo niente...
256 - Gesù, lo so bene, l'amore si paga soltanto con l'amore, perciò ho cercato, ho trovato sollievo rendendoti amore per amore. «Usate le ricchezze che rendono ingiusti, per farvi degli amici i quali vi ricevano nei tabernacoli eterni». Ecco, Signore, il consiglio che tu dai ai tuoi discepoli dopo aver detto loro che «i figli delle tenebre sono più abili nelle loro faccende che i figli della luce». Figlia della luce, ho capito che i miei desideri di esser tutto, di far mie tutte le vocazioni, sono ricchezze che potrebbero rendermi ingiusta, allora le ho usate per farmi degli amici. Ricordando la preghie­ra di Eliseo al padre suo Elia quando osò chiedergli il suo duplice spirito, mi sono presentata dinanzi agli Angeli e ai Santi, e ho detto loro: «Sono la creatura più piccola, conosco la mia miseria e la mia debolezza, ma so anche quanto piaccia ai cuori nobili, generosi, far del bene, perciò, vi supplico, beati abitanti del cielo, vi supplico di adottarmi come frglia;tutta vostra sarà la gloria che mi farete acquistare, ma degnatevi di esaudire la mia preghiera, è temeraria, lo so, tuttavia oso chie­dervi di ottenermi il vostro duplice amore.
257 - Gesù, non posso approfondire la mia supplica, temerei di rimanere schiacciata sotto il peso dei miei desideri audaci. La mia scusa è che sono una bambina, i bimbi non riflettono alla portata delle loro parole, eppure i loro genitori, quando si trovano sopra un trono, se possiedono tesori immen­si, non esitano a contentare i desideri dei piccoli esseri che amano quanto se stessi. Per far loro piacere commettono follie, arrivano alla debolezza! Ebbene, io sono la figlia della Chiesa, e la Chiesa è Regina, poiché è tua Sposa, divino Re dei re. Non a ricchezze e a gloria (si trattasse anche della gloria del Cielo) ambisce il cuore del bambino. La gloria, capisce che è, per diritto, dei suoi fratelli, gli Angeli e i Santi. La gloria di lui sarà il riflesso di quella che si irradierà dalla fronte di sua Madre. Quello che chiede, è l'amore, sa una cosa sola, amarti, Gesù! Gli sono interdette le opere clamorose, non può predicare il Vangelo, non può versare il suo sangue; ma che importa, i suoi fratelli lavorano al suo posto, e lui, bimbo piccolo, sta li, pro­prio vicino al trono del Re e della Regina, ama per i suoi fratel­li i quali combattono. Ma in quale modo testimonierà il suo amore, poiché l'amore si prova con le opere? Ebbene, il fan­ciullo getterà fiori, profumerà il trono reale, canterà con la sua voce argentina il cantico dell'amore...
258 - Sì, Amato, la mia vita si consumerà così. Non ho altri mezzi per provarti il mio amore, se non gettar dei fiori, cioè non lasciar sfuggire alcun piccolo sacrificio, alcuna pre­mura, alcuna parola, e profittare di tutte le cose piccole, e farlo per amore... Voglio soffrire per amore e perfino gioire per amore, così getterò fiori davanti al tuo trono; non ne incon­trerò uno senza sfogliarlo per te... poi, gettando fiori, canterò (sarebbe possibile piangere compiendo un'azione di tanta gioia?), canterò, anche quando dovrò cogliere i miei fiori in mezzo alle spine, e il canto sarà tanto più melodioso quanto più le spine saranno lunghe e pungenti. Gesù, a che ti serviranno i miei fiori e i miei canti? Lo so bene, questa pioggia profumata, questi petali fragili senz'alcun valore, questi canti d'amore del cuore piccolo tra i piccoli, ti saranno cari, questi nulla ti faranno piacere, faranno sorridere la Chiesa trionfante, ella raccoglierà i miei fiori sfogliati per amore, e facendoli passare per le tue mani divine, Gesù, que­sta Chiesa del Cielo vorrà giocare col suo bimbo piccolo, e get­terà anch'essa quei fiori i quali avranno acquisito, sotto il tuo tocco divino, un valore infinito, e li getterà sulla Chiesa dolo­rante per spegnere le fiamme di essa, li getterà sulla Chiesa militante per farle avere la vittoria!
259 - Gesù mio, ti amo, amo la Chiesa mia Madre, mi ricordo che «il minimo moto di amor puro le è più utile che non tutte le altre opere riunite insieme»ma l'amore puro esiste nel mio cuore? I miei desideri immensi non sono un sogno, una follia? Ah, se così fosse, Gesù, illuminami. Tu Io sai, io cerco la verità: se i miei desideri sono temerari, falli sparire, perché questi desideri sono per me il martirio più grande... Eppure lo sento, Gesù, dopo aver sospirato verso le regioni più alte dell'amore, se dovessi non raggiungerie un giorno, avrei gustato più dolcezze nel mio martirio, nella mia follia, di quan­ta non ne godrei in mezzo alle gioie della patria, a meno che, per mezzo di un miracolo, tu non mi tolga il ricordo delle mie speranze terrestri. Allora lasciami godere, durante il mio esilio, le delizie dell'amore! Lasciami assaporare le dolci amarezze del mio martirio! Gesù, Gesù, se è tanto delizioso il desiderio di amarti, che sarà possederti, godere del tuo amore?
260 - In qual modo può, un'anima imperfetta quanto la mia, aspirare a possedere la pienezza dell'Amore? Gesù, mio primo, mio solo Amico, tu che amo unicamente, dimmi, quale mistero è questo? Perché non riservi queste aspirazioni immen­se alle anime grandi, alle aquile che roteano altissime? Io mi considero come un uccellino debole, coperto di un po' di piu­ma lieve; non sono un'aquila, ho dell'aquila soltanto gli occhi e il cuore perché, nonostante la mia piccolezza estrema, oso fis­sare il Sole divino, il Sole dell'Amore, e il mio cuore prova tut­te le aspirazioni dell'aquila... L’uccellino vorrebbe volare verso quel Sole che affascina gli occhi, vorrebbe imitare le aquile, sue sorelle che vede elevarsi fino alla divina dimora della san­tissima Trinità... Ahimè! Tutto quello che può fare, è sollevare le sue alucce, ma volar via, questo non è nelle sue piccole pos­sibilità. Che ne sarà di lui? Morirà di dolore vedendosi così impotente? No! L’uccellino non se ne affliggerà nemmeno. Con un abbandono audace vuol fissare ancora il suo Sole divi­no: niente gli fa paura, né vento, né pioggia, e se le nuvole pesanti nascondono l'Astro d'amore, l'uccellino non cambia posto, sa che di là dalle nubi il Sole splende sempre, che la sua luce non si offuscherà nemmeno per un attimo.
261 - In certi momenti il suo cuore si trova assalito dalla tempesta, gli pare che non esistano altre cose se non le nubi che lo circondano; e allora è il momento della gioia perfetta per il povero esserino debole. Che felicità per lui restare lì ugualmente, e fissare la luce invisibile la quale si nasconde alla sua fede! Gesù, fino da ora capisco il tuo amore per l'uccelli­no, perché non si allontana da te... Ma io lo so, e tu lo sai, spesso questo cosino minimo e imperfetto, pur rimanendo al suo posto (cioè sotto i raggi del Sole), si lascia distrarre un poco dalla sua occupazione unica, becca un granellino di qua o di là, corre dietro a un vermiciattolo... Poi, trovando una pozzanghera, si bagna le piume appena spuntate, vede un fiore che gli piace, allora la sua piccola testa si occupa di quel fio­re... e poi, non potendo planare come le aquile, il povero uccellino s'interessa ancora alle piccolezze della terra. Tuttavia, dopo questi malestri, invece di andare a nascondersi in un angolino per piangere la sua miseria e morir di pentimento, l'uccellino si volge verso il Sole amato, presenta ai raggi bene­fici le alucce bagnate, geme come la rondine, e con un canto dolce racconta tutti i particolari della sua infedeltà, pensando nel suo abbandono temerario di acquistare così maggior dirit­to, attirare più pienamente l'amore di Colui che non è venuto a chiamare i giusti, bensì i peccatori.
262 - Se l'Astro adorato rimane sordo al lamento cinguet­tato della sua creaturina, se rimane velato, ebbene, la creaturina resta bagnata, accetta di essere intirizzita di freddo, e si rallegra ancora di questa sofferenza che ha pur mentata... Gesù, com'è felice il tuo uccellino di essere debole e piccolo. Oh, che sareb­be di lui se fosse grande? Mai avrebbe l'audacia di comparire alla tua presenza, di sonnecchiare dinanzi a te... Si, ecco un'altra debolezza dell'uccellino: quando vuoi fissare il Sole divino e le nuvole gli impediscono di vedere anche un solo raggio, nono­stante la sua buona volontà gli occhi gli si chiudono, la testolina si nasconde sotto l'ala, e il povero esserino si addormenta, cre­dendo di fissar sempre il suo Astro amato. Quando si desta, non si cruccia; il suo cuoricino rimane in pace, ricomincia il suo uffi­cio d'amore, invoca gli Angeli e i Santi i quali s'innalzano come aquile verso il fuoco divorante oggetto della sua brama, e le aquile, impietosite, proteggono il fratellino, e mettono in fuga gli avvoltoi che vorrebbero divorarlo.
263 - Gli avvoltoi, immagini dei demoni, l'uccellino non li teme, non è destinato a diventar la loro preda, bensì sarà preda dell'Aquila che egli contempla nel centro del Sole d'amore. O Verbo divino, tu sei l'Aquila adorata, io ti amo. Tu mi attiri, sei tu che, slanciandoti verso la terra dell'esilio, hai voluto soffrire e morire per attirare le anime fino al seno dell'intimità eterna del­la Santissima Trimtà, sei tu che, risalendo verso la Luce inacces­sibile ove soggiornerai sempre, resti pur sempre nella valle delle lacrime, nascosto entro l'aspetto di un'Ostia bianca... Aquila eterna, tu vuoi nutrire della tua sostanza divina me, povero esse­rino che rientrerei nel nulla se il tuo sguardo divino non mi des­se la vita minuto per minuto. Oh, Gesù, lasciami dire, nell'ecces­so della mia riconoscenza, lasciami dire che il tuo amore arriva fino alla follia... Come vuoi che, dinanzi a questa follia, il mio cuore non si slanci verso te? Come potrebbe aver limiti la mia fiducia? Per te, lo so, i Santi hanno fatto anch'essi delle follie, hanno fatto grandi cose perché erano aquile.
264 - Gesù, sono troppo piccola per fare cose grandi, e la follia mia è sperare che il tuo Amore mi accolga come vittima! La mia follia consiste nel supplicare le aquile, sorelle mie, per­ché mi ottengano la grazia di volare verso il Sole dell'Amore con le ali stesse dell'Aquila divina... Così, per quanto tempo tu lo vorrai, o mio Amato, il tuo uccellino rimarrà senza forza e senza ali; terrà sempre fissi in te gli occhi; vuole essere affascinato dal tuo sguardo divino, vuoi diventare preda del tuo Amore... Un giorno, oso sperano, Aquila adorata, verrai in cerca del tuo uccellino, e risalendo con lui al focolare dell'Amore, lo immergerai per l'eternità nell'abisso ardente di quell'Amore al qùale egli si è offerto come vlttrma...
265 - O Gesù, perché non posso dire a tutte le piccole anime quanto ineffabile è la tua condiscendenza... Sento che se, cosa impossibile, tu trovassi un'anima più debole, più pic­cola della mia, ti compiaceresti di colmarla con favori anche più grandi, se si abbandonasse con fiducia completa alla tua misericordia infinita. Ma perché desiderare di comunicare i tuoi segreti d'amore, Gesù, non sei tu solo che me li hai inse­gnati, e non puoi forse rivelarti ad altri? Sì, lo so, e ti scongiuro di farlo, ti supplico di abbassare il tuo sguardo divino sopra un gran numero di piccole anime... Ti supplico di scegliere una Legione di piccole vittime degne del tuo Amore....



SCRITTO AUTOBIOGRAFICO C
diretto a madre Maria di Gonzaga

1.APERTURA D'ANIMO CON LA NUOVA PRIORA (1897)

Dedica - Educazione forte di madre Maria di Gonzaga - Non vana compiacenza per le lodi - L'Ascensore divino - Missione presso le novizie - Annunzio della venuta dello Sposo - Prova della fede - Comprensione per i peccatori e tattica di vittoria - Indifferenza per una vita breve o lunga, accanto o lontana dalle sorelle dilette - Sicurezza e pace nell'obbedienza

J.M.JT. giugno 1897


266 - Madre tanto amata, ella mi ha espresso il desiderio che io completi con lei il mio canto delle misericordie del Signore. Questo dolce canto l'avevo cominciato con la sua figlia cara, Agnese di Gesù, la mamma incaricata da Dio di guidarmi nei giorni dell'infanzia; con quella madre dovevo cantare le grazie largite al fiore umile della Vergine Santa quand'era nella sua primavera, ma è con lei che debbo cantare la felicità di questa piccola corolla ora che i raggi timidi dell'aurora hanno fatto posto agli ardori del mezzogiorno. Sì, con lei e per rispondere al suo desiderio cercherò di ridire i sentimenti dell'anima mia, la mia riconoscenza verso il buon Dio, verso lei che me lo rappresenta visibilmente; non è, infat­ti, nelle sue mani materne che mi sono offerta interamente al Signore? Ricorda, Madre, quel giorno?... Sento che il suo cuore non saprebbe dimenticano. Quanto a me, debbo attendere il Cielo perché non trovo, quaggiù, parole atte a tradurre ciò che accadde nel mio cuore in quel giorno benedetto.
267 - Madre cara, c'è un altro giorno nel quale il cuore mio si attaccò ancor più al suo, se ciò è possibile; fu quando Gesù le impose novamente il fardello del superiorato. In quel giorno, lei seminò tra le lacrime, ma in Cielo sarà colma di gioia vedendosi carica di fasci di fiori preziosi. Oh, Madre mia, perdoni alla mia semplicità fanciullesca, sento che lei mi permette di parlarle senza ricercare ciò che una giovane reli­giosa può dire alla sua Priora. Forse non mi manterrò sempre entro i limiti prescritti agli inferiori, ma, oso dirlo, è colpa sua: agisco con lei come una figlia perché lei agisce con me non gia come una Priora, bensì come una Madre.
268 - Lo sento bene, è il Signore che mi parla sempre attraverso lei. Varie sorelle pensano che ella mi abbia viziata, che da quando sono entrata nell'arca santa, io non abbia ricevuto da lei se non carezze e complimenti, ma non è così; vedrà, Madre mia, nel quaderno che contiene i miei ricordi d'infanzia, ciò che penso della educazione forte e materna che ho ricevuta da lei. Dal più profondo del cuore la ringrazio per non avermi rispar­miata. Gesù sapeva bene che era necessaria l'acqua vivificante dell'umiliazione per il suo povero fiore, questo era troppo debo­le per mettere radici senza un tale soccorso, ed è per mezzo suo, Madre, che l'aiuto gli è stato concesso.
269 - Da un anno e mezzo Gesù ha voluto cambiare il modo per dar vita al suo fiore, l'ha trovato senza dubbio abba­stanza annaffiato, perché ora è il sole che lo rende rigoglioso, Gesù dà a lui soltanto il suo sorriso, e per mezzo suo, Madre amata. Il fiore, anziché appassire, sotto questo sole dolce prende forza meravigliosamente, in fondo al calice conserva le gocce preziose di rugiada che ha ricevute, e queste gocce gli ricordano sempre che è piccolo e debole. Tutte le creature possono ben curvarsi verso lui, ammirarlo, soffocarlo di lodi: non so perché, ma questo non saprebbe aggiungere una sola goccia di falsa gioia alla gioia verace che esso gusta intimamente, vedendosi quello che è agli occhi di Dio: un povero piccolo nulla. Dico che non capisco perché, ma non è forse perché è stato preservato dall'acqua delle lodi per tutto il tempo nel quale il suo piccolo calice non era abbastanza pieno della rugiada dell'umiliazione? Ora non c’è più pericolo, al contrario, il fiore trova così delizio­sa la rugiada di cui è pieno, che si guarderebbe bene dal cam­biarla con l'acqua tanto banale dei complimenti.
270 - Non voglio parlare, Madre cara, dell'amore e della fiducia che lei mi dimostra; non creda che il cuore di sua figlia sia insensibile, solamente sento bene che non ho da temere nulla ora, al contrario posso goderne, riferendo al Signore ciò che di buono egli si è degnato mettere in me. Se piace a lui far­mi sembrare migliore di quanto non sia, ciò non mi riguarda, è libero di agire come vuole. Oh, come sono diverse le vie per le quali il Signore conduce le anime! Nella vita dei Santi, vedia­mo che ce ne sono molti i quali non hanno voluto lasciare niente di loro dopo la morte, non il minimo ricordo, né il più piccolo scritto. Ce ne sono altri, invece, come la nostra Madre santa Teresa, i quali hanno arricchito la Chiesa con le loro rive­lazioni sublimi, non temendo di rendere noti i segreti del Re, affinché egli sia più conosciuto e più amato dalle anime. Quale di questi due generi di santi piace più al Signore? Mi sembra, Madre mia, che gli siano ugualmente graditi, poiché tutti han­no seguito l'impulso dello Spirito Santo, e il Signore ha detto: «Dite al giusto che tutto è bene». Sì, tutto è bene, quando si cerca soltanto la volontà di Gesù; è per questo che io povero piccolo fiore obbedisco a Gesù, cercando di far piacere alla mia Madre amata.
271 - Lei lo sa, Madre, ho sempre desiderato essere una santa, ma ahimè, ho sempre accertato, quando mi sono parago­nata ai santi, che tra essi e me c'è la stessa differenza che tra una montagna la cui vetta si perde nei cieli, e il granello di sab­bia oscura calpestata sotto i piedi dei passanti. Invece di sco­raggiarmi, mi sono detta: il buon Dio non può ispirare desideri inattuabili, perciò posso, nonostante la mia piccolezza, aspirare alla santità; diventare più grande mi è impossibile, debbo sop­portarmi tale quale sono con tutte le mie imperfezioni, nondi­meno voglio cercare il mezzo di andare in Cielo per una via ben diritta, molto breve, una piccola via tutta nuova. Siamo in un secolo d'invenzioni, non vale più la pena di salire gli scalini, nelle case dei ricchi un ascensore li sostituisce vantaggiosa­mente. Vorrei anch'io trovare un ascensore per innalzarmi fino a Gesù, perché sono troppo piccola per salire la dura scala della perfezione. Allora ho cercato nei libri santi l'indicazione dell'ascensore, oggetto del mio desiderio, e ho letto queste parole pronunciate dalla Sapienza eterna: «Se qualcuno è picco­lissimo, venga a me». Allora sono venuta, pensando di aver trovato quello che cercavo, e per sapere, o mio Dio, quello che voi fareste al piccolissimo che rispondesse al vostro appello, ho continuato le mie ricerche, ed ecco ciò che ho trovato: «Come una madre carezza il suo bimbo, così vi consolerò, vi porterò sul mio cuore, e vi terrò sulle mie ginocchia!». Ah, mai parole più tenere, più armoniose hanno allietato l'anima mia, l'ascen­sore che deve innalzarmi fino al Cielo sono le vostre braccia, Gesù! Per questo non ho bisogno di crescere, al contrario biso­gna che resti piccola, che lo divenga sempre più.
272 - Dio mio, avete superato la mia speranza, ed io voglio cantare le vostre misericordie. «Voi mi avete istruita fin dalla mia giovinezza e fino ad oggi ho annunciato le vostre meraviglie, continuerò a manifestarle nell'età più tarda - Salmo LXX». Quale sarà per me questa tarda età? Mi pare che potrebbe essere ora, perché duemila anni non sono agli occhi del Signore più di venti anni o di un giorno solo. Non creda, Madre cara, che la sua figliola desideri lasciarla... non creda che consideri una grazia più grande morire all'aurora piuttosto che al tramonto. Quello che stima, che unicamente desidera è far piacere a Gesù. Ora che egli sembra avvicinarsi per attirar­mi nella sua gloria, io mi rallegro. Da lungo tempo ho capito che il buon Dio non ha bisogno di nessuno (ancor meno di me che di altri) per far del bene sulla terra. Madre mia, mi perdo­ni se la rattristo... Vorrei tanto rallegrarla, ma crede lei che se le sue preghiere non sono esaudite sulla terra, se Gesù per qualche giorno separa la figlia dalla madre, quelle preghiere non saranno esaudite in Cielo?
273 - il suo desiderio è, lo so bene, che io compia accan­to a lei una missione molto dolce e facile; questa missione non potrò assolverla dall'alto dei cieli? Come disse Gesù un giorno a san Pietro, così lei ha detto a sua figlia: «Pasei i miei agnelli», e io mi sono meravigliata, ho detto a lei: «sono troppo piccola»... l'ho supplicata di fare pascolare lei stessa i suoi agnellini e di custodirmi, di farmi pascolare per grazia con essi. E lei, Madre amata, rispondendo un poco al mio giusto desiderio, ha custodito gli agnellini con le pecore, ma coman­dandomi di farli spesso pascolare all'ombra, di indicar loro le erbe migliori e più fortificanti, di mostrar loro chiaramente i fiori brillanti che non debbono mai toccare se non per schiac­ciarli sotto i loro passi. Lei non ha temuto, cara Madre, che io facessi smarrire i suoi agnelli; la mia inesperienza, la mia giovi­nezza non l'hanno affatto spaventata, forse lei si è ricordata che spesso al Signore piace concedere la sapienza ai piccoli, e che un giorno, pieno di gioia, egli ha benedetto suo Padre per­ché ha nascosto i propri segreti ai prudenti e li ha rivelati ai più piccoli. Madre mia, lei lo sa, sono ben rare le anime che non misurino la potenza divina secondo i loro corti pensieri; si ammette che dappertutto sulla terra esistano eccezioni, soltan­to Iddio non ha il diritto di farne! Da lungo tempo, lo so bene, questo modo di commisurare l'esperienza agli anni viene prati­cato fra gli uomini, perché nella sua adolescenza il santo re David cantava al Signore: «Sono giovane e disprezzato». Nello stesso Salmo 118 tuttavia non esita a dire: «Sono diventato più prudente dei vegliardi: perché ho cercato la vostra volontà... La vostra parola è la lampada che rischiara i miei passi... Sono pronto a compiere i vostri ordini e non sono tur­bato da nulla».
274 - Madre cara, lei non ha esitato a dirmi un giorno che il Signore illuminava l'anima mia, che egli mi dava anche l'espe­rienza degli anni. Oh, Madre! sono troppo piccola per avere della vanità ora, sono troppo piccola anche per comporre belle frasi e farle credere che ho molta umiltà; preferisco convenire semplicemente che l'Onnipotente ha fatto grandi cose nell'ani­ma di colei che è figlia della sua divina Madre, e la più grande è di averle mostrato la sua piccolezza, la sua impotenza. Madre cara, lei lo sa bene, il Signore si è degnato far passare l'anima mia per varie prove; ho sofferto molto da quando sono sulla terra, ma, se nella mia infanzia ho sofferto con tristezza, ora non soffro più così, bensì nella gioia e nella pace, e sono vera­mente felice di soffrire. Bisogna che lei conosca tutti i segreti dell'anima mia per non sorridere leggendo queste righe, per­ché, se si giudica dalle apparenze, può esserci un anima meno provata della mia? Oh, se la prova che io soffro da un anno apparisse agli sguardi, che stupore! Madre amata, lei la conosce questa prova, tuttavia ne parlerò ancora perché la considero una grande grazia che ho ricevuto sotto il suo priorato benedetto.
275 - L’anno scorso il Signore mi ha concesso la consola­zione di osservare il digiuno di quaresima in tutto il suo rigore. Non mi ero sentita mai così forte, e questa forza si mantenne fino a Pasqua. Tuttavia, il giorno del Venerdì santo, Gesù volle darmi la speranza di andare ben presto a vederlo in Cielo. Com'è dolce questo ricordo! Dopo essere rimasta al sepolcro fino a mezzanotte, rientrai nella nostra cella, ma avevo appena posato la testa sul cuscino che sentii un fiotto salire, salire qua­si bollendo fino alle mie labbra. Non sapevo cosa fosse, ma pensai che forse morivo e l'anima era colma di gioia... Tuttavia, la lampada era spenta, dissi a me stessa che dovevo aspettare fino al mattino per assicurarmi della mia feli­cità, perché mi pareva sangue quello che avevo vomitato. La mattina non si fece attendere molto, svegliandomi pensai subi­to che avrei avuto una notizia allegra, mi avvicinai alla finestra, costatai che non mi ero ingannata. L'anima mia fu piena di una consolazione grande, ero persuasa intimamente che Gesù nel giorno commemorativo della sua morte volesse farmi udire il primo richiamo. Era come un dolce murmure lontano che mi annunciasse l'arrivo dello Sposo. Con immenso fervore assi­stei a Prima e al capitolo del perdono. Avevo fretta di veder giungere il mio turno per confidarle, chiedendole perdono, Madre mia cara, la mia speranza e la mia felicità; ma aggiunsi che non soffrivo affatto (cosa verissima), e la supplicai di non concedermi alcunché di particolare. Realmente ebbi la conso­lazione di passare la giornata del Venerdì santo come desidera­vo. Mai le austerità del Carmelo mi erano sembrate così deli­ziose, la speranza di andare in Cielo mi faceva esultare di leti­zia. Quando arrivò la sera di quel giorno felice, bisognò ripo­sarsi, ma, come la notte precedente, Gesù misericordioso mi dette lo stesso segno che il mio ingresso nella vita eterna non era lontano...
276 - Godevo allora di una fede tanto viva, tanto chiara, che il pensiero del Cielo formava tutta la mia felicità, non potevo credere che vi fossero degli empi i quali non avessero la fede. Credevo che parlassero contro il loro stesso pensiero negando l'esistenza del Cielo, del bel Cielo ove Dio stesso vor­rebbe essere la loro ricompensa eterna. Nei giorni tanto gioiosi della Pasqua, Gesù mi ha fatto sentire che esistono davvero anime senza fede, le quali per l'abuso delle grazie hanno per­duto questo tesoro immenso, sorgente delle sole gioie pure e vere. Ha permesso che l'anima mia fosse invasa dalle tenebre più fitte, e che il pensiero del Cielo, dolcissimo per me, non fosse più se non lotta e tormento... Questa prova non doveva durare per qualche giorno, non per qualche settimana: termi­nerà soltanto all'ora segnata da Dio misericordioso, e... quest'ora non è ancora venuta. Vorrei esprimere ciò che penso, ma, ahimè, credo che sia impossibile. Bisogna aver viaggiato sotto questo tunnel cupo per capirne l'oscurità. Cercherò tuttavia di spiegarmi per mezzo di un paragone.
277 - Suppongo d'esser nata in un paese circondato da una bruma spessa, mai ho contemplato l'aspetto ridente della natura inondata, trasfigurata dallo splendore del sole; fin dall'infanzia, è vero, ho inteso parlare dì queste meraviglie, so che il paese nel quale sono nata non è la mia patria, che ce n'è un'altra alla quale debbo aspirare incessantemente. Non è una storia inventata da un abitante del paese triste ove sono, è una realtà sicura perché il Re della patria luminosa è venuto a vivere trentatré anni nel pae­se delle tenebre; ahimè! Le tenebre non hanno capito che quel Re divino era la luce del mondo. Ma, Signore, la vostra figlia ha capito la vostra luce divina, vi chiede perdono per i suoi fratelli, accetta di nutrirsi per quanto tempo voi vorrete del pane del dolore e non vuole alzarsi da questa tavola colma dì amarezza alla quale mangiano i poveri peccatori prima del giorno che voi avete segnato. Ma anche lei osa dire a nome proprio e dei suoi fratelli:«Abbiate pietà di noi Signore perché siamo poveri peccatori!» Oh, Signore, rimandateci giustificati... che tutti coloro i quali non sono illuminati dalla fiaccola limpida della fede, la vedano, finalmente... Gesù, se è necessario che la tavola insozzata da essi sia purificata da un'anima la quale vi ama, voglio ben mangiare sola il pane della prova fino a quando vi piaccia intro­durmi nel vostro regno luminoso. La sola grazia che vi chiedo è di non offendervi mai!
278 - Madre amata, quello che le scrivo è disordinato; la mia piccola storia che somigliava a una fiaba si è cambiata a un tratto in preghiera, non so quale interesse lei potrà trovare a leggere tutti questi pensieri confusi ed espressi male. Ma io non scrivo per fare opera letteraria, bensì per obbedienza; se l'annoio, almeno ella vedrà che la sua figliola ha dato prova di buona volontà. Continuerò dunque senza scoraggiarmi il mio piccolo paragone al punto in cui l'avevo lasciato. Dicevo che la certezza di andare via, un giorno lontano, dal paese triste e tene­broso mi è stata data fin dall'infanzia; non solamente credevo ciò che ascoltavo dalle persone più importanti dì me, ma anche ave­vo in fondo al cuore le aspirazioni verso una regione più bella. Come il genio di Cristoforo Colombo gli fece intuire che esisteva un mondo nuovo, allorché nessuno ci pensava, così io sentivo che un'altra terra mi avrebbe servito un giorno di stabile dimora. Ma ad un tratto le nebbie che mi circondano divengono piu spesse, penetrano nell'anima mia e l'avviluppano in tal modo che non riesco più a ritrovare in essa l'immagine così dolce della mia Patria, tutto è scomparso! Quando voglio riposare il cuore stanco delle tenebre che lo circondano, ricordando il paese lumi­noso al quale aspiro, il mio tormento raddoppia; mi pare che le tenebre, assumendo la voce dei peccatori, mi dicano facendosi beffe dì me: «Tu sogni la luce, una patria dai profumi più soavi, tu sogni di possedere eternamente il Creatore di tutte queste meraviglie, credi uscire un giorno dalle brume che ti circondano. Vai avanti! Vai avanti! Rallegrati della morte che ti darà non già ciò che speri, ma una notte più profonda, la notte del niente». Madre carissima, l'immagine che ho voluto dare delle tenebre che oscurano l'anima mia è tanto imperfetta quanto un abbozzo paragonato al modello; ma non voglio continuare a scriverne, temerei di bestemmiare... ho paura d'aver già det­to troppo...
279 - Che Gesù mi perdoni se gli ho fatto dispiacere, ma egli sa bene che, pur non avendo il godimento della fede, mi sforzo tuttavia di compierne le opere. Credo di aver compiuto più atti di fede da un anno, che non in tutta la vita. Ad ogni occasione nuova di battaglia, quando il nemico mi provoca, mi conduco da valoroso; sapendo che la viltà consiste proprio nel battersi in duello, volgo la schiena all'avversario senza degnar­lo di uno sguardo; corro verso il mio Gesù, gli dico che sono pronta a versar fino all'ultima stilla di sangue per testimoniare che esiste un Cielo. Gli dico che sono felice di non godere di quel bel Cielo qui, sulla terra, affinché egli l'apra per l'eternità ai poveri increduli. Così, nonostante questa prova che mi toglie ogni godimento, posso dir tuttavia: «Signore, voi mi colmate dì gioia con tutto ciò che fate - Salmo XCI». Perché, esiste forse una gioia più grande che soffrire per amore vostro? Più la sofferenza è intima, più nascosta è agli occhi delle creature, e tanto più vi rallegra, o Dio mio! Ma se, cosa impossibile, doveste ignorare voi stesso la mia sofferenza, sarei felice di possederla se per mezzo di essa potessi impedire e riparare una sola colpa commessa contro la fede.
280 - Madre amata, le sembra forse che io esageri la mia prova; in realtà, se lei giudica dai sentimenti che esprimo nelle poesiole che ho composto quest'anno, le sembrerò un'anima colma di consolazione, per la quale il velo della fede si è quasi squarciato, e tuttavia... non è più un velo per me, è un muro che si alza fino ai cieli e copre le stelle. Quando canto la feli­cità del Cielo, il possesso eterno di Dio, non provo gioia alcu­na, perché canto semplicemente ciò che voglio credere. A volte, è vero, un minimo raggio scende a illuminare la mia notte, allora la prova s'interrompe per un attimo, ma subito dopo, il ricordo di questo raggio, invece che rallegrarmi, rende ancor più fitte le mie tenebre. Madre mia, non ho mai sentito come ora quanto il Signore è dolce e misericordioso: mi ha mandato questa prova soltanto quando ho avuto la forza dì sopportarla; credo che se l'avessi avuta prima sarei precipitata nello scoramento. Ora essa toglie qualsiasi soddisfazione naturale che io avrei potu­to trovare nel desiderio del Cielo. Mi sembra ora che niente m'impedisca di partire, perché non ho più grandi desideri, se non quello di amare sino a morire di amore (9 giugno).
281 - Madre cara, sono tutta meravigliata vedendo quello che le ho scritto ieri, quali scarabocchi! La mia mano tremava in modo tale che mi fu impossibile continuare, e ora rimpian­go perfino di aver tentato di scrivere, spero di poterlo fare oggi più leggibilmente perché non sono più a letto, bensì in una bella poltroncina bianca. Sento bene, Madre, che tutto quello che le dico non è conseguente, ma sento anche, prima di parlarle del passato, il bisogno di esporle i miei sentimenti presenti, più tardi forse ne avrò perduto il ricordo. Voglio dirle prima di tutto quanto sono commossa per tutte le sue delicatezze materne. Ah, mi creda, il cuore della sua figlia è pieno di riconoscenza, mai dimenticherò tutto quello che le devo. Madre mia, soprattutto mi commuovono la novena che lei fa a Nostra Signora delle Vittorie e le Messe che lei fa dire per ottenere la mia guarigione. Sento che tutti questi teso­ri spirituali fanno un gran bene all'anima mia; all'inizio della novena le dicevo, Madre mia, che bisognava, o che la Vergine mi guarisse, o che mi portasse in Cielo, perché trovavo ben tri­ste per lei e la comunità di avere a carico una giovane religiosa malata; ora ben volentieri rimarrò malata tutta la vita se ciò fa piacere al Signore, e consento perfino a che la mia vita sia lun­ghissima, la sola grazia che desidero è che essa sia spezzata dall'amore.
282 - No, non temo una vita lunga, non rifiuto la lotta, perché «il Signore è la rupe sulla quale sono elevata, è lui che addestra le mie mani alla lotta e le mie dita al combattimento. E il mio scudo, spero in lui. - Salmo CXLIII». Così, mai ho chie­sto al Signore di morir giovane, pur avendo sempre sperato che sia questa la sua volontà. Spesso il Signore si contenta dei desideri di lavorare per la sua gloria, e lei sa, Madre, che i miei desideri sono tanto grandi. Lei sa anche che Gesù mi ha pre­sentato più di un calice amaro e lo ha allontanato dalle mie labbra prima che lo bevessi, ma non prima di avermene fatto assaporare l'amarezza. Madre amata, il santo re David aveva ragione quando cantava: «Com'è buono, com'è dolce per dei fratelli abitare insieme in comunione perfetta». E’ vero, l'ho sentito molto spesso ma bisogna che questa unione sulla terra abbia luogo nel sacrificio. Non è affatto per vivere con le mie sorelle che sono venuta al Carmelo, è unicamente per rispon­dere alla chiamata di Gesù; presentivo bene che sarebbe stata una ragione di sofferenza continua vivere con le proprie sorel­le, quando non si vuole concedere niente alla natura.
283 - Come si può dire che sia più perfetto allontanarsi dai propri cari? Si è mai rimproverato a dei fratelli di combat­tere sullo stesso campo di battaglia, si è mai fatto loro rimpro­vero di volare insieme per cogliere la palma del martirio? Sen­za dubbio si è giudicato con ragione che essi si facevano corag­gio a vicenda, ma altresì che il martirio di ciascuno diveniva il martirio di tutti. Così accade nella vita religiosa che i teologi chiamano un martirio. Dandosi a Dio, il cuore non perde la sua tenerezza naturale, anzi, questa tenerezza cresce divenen­do più pura e più divina. Madre cara, con questa tenerezza amo lei e amo le mie sorelle; sono felice di combattere in famiglia per la gloria del Re dei Cieli, ma sono pronta anche a volare sopra un altro campo di battaglia, se il Divino Generale me n'esprimesse il desiderio. Un comando non sarebbe necessario, ma uno sguar­do, un semplice segno.
284 - Da quando sono entrata nell'arca benedetta, ho sempre pensato che, se Gesù non mi portasse presto in Cielo, avrei la sorte della piccola colomba di Noè; che un giorno il Signore aprirebbe la finestra dell'arca e mi direbbe di volare lontano lontano verso rive infedeli, portando con me il ramo­scello di olivo. Madre mia, questo pensiero ha fatto crescere l'anima mia, mi ha fatto aleggiare più in alto, al disopra delle cose create. Ho capito che anche al Carmelo potevano esserci delle separazioni, che soltanto in Cielo l'unione sarà completa ed eterna; allora ho voluto che l'anima mia abiti nei Cieli, che guardi le cose della terra soltanto da lontano. Ho accettato non soltanto di esiliarmi in mezzo a un popolo sconosciuto, ma, cosa che mi era ben più amara, ho accettato l'esilio per le mie sorelle. Mai dimenticherò il 2 agosto 1896, il giorno in cui partirono i missionari: in quel giorno si parlò seriamente del­la partenza di madre Agnese di Gesù. Ah, non avrei voluto fare un gesto per impedirle di partire; sentivo tuttavia una grande tristezza, trovavo che l'anima sua tanto sensibile, così delicata, non era fatta per vivere in mezzo ad anime che non l'avrebbero capita; mille altri pensieri si affollavano nel mio spirito, e Gesù taceva, non comandava alla tempesta. Ed io gli dicevo: Dio mio, per amore vostro accetto tutto: se voi lo vole­te, voglio soffrire fino a morire di dolore. Gesù si contentò dell'accettazione, ma dopo qualche mese si parlò della parten­za di suor Genoveffa e di suor Maria della Trinità; allora fu un altro genere di patimento, molto intimo, profondo: mi raffigu­ravo tutte le prove, le delusioni che avrebbero sofferte, e il mio cielo era coperto di nubi... soltanto il fondo del cuore rimane­va nella calma, nella pace.
285 - Madre amata, la sua prudenza seppe scoprire la volontà di Dio, e da parte sua lei proibì alle sue novizie di pen­sare per ora a lasciare la culla della loro infanzia religiosa; ma le loro aspirazioni lei le capiva poiché lei stessa, Madre, aveva chiesto nella sua giovinezza di andare a Saigon; è così che spesso i desideri delle madri trovano viva eco nell'anima delle figlie. Ora il suo desiderio apostolico trova nell'anima mia, lei lo sa, una eco fedele; mi permetta di confidarle perché ho desiderato, e desidero ancora, se la Santa Vergine mi guarirà, lasciare per una terra straniera l'oasi deliziosa nella quale vivo felice sotto il suo sguardo materno. Occorre, Madre mia (me l'ha detto lei), per vivere nei Carmeli stranieri una vocazione particolare, molte anime si credono chiamate là senza esserlo; lei mi ha anche detto che io avevo questa vocazione, e che soltanto la mia salute era un ostacolo; so bene che quest'ostacolo scomparirebbe se il Signore mi chiamasse lontano, perciò vivo senza inquietudi­ne. Se dovessi un giorno abbandonare il mio caro Carmelo, ciò non accadrebbe senza ferite, Gesù non mi ha dato un cuore insensibile, e proprio perché sono capace di soffrire, desidero dare a Gesù tutto quello che posso dargli. Qui, Madre cara, vivo senz'alcun impaccio di preoccupazioni per la misera terra, ho soltanto da assolvere la dolce e facile mis­sione che lei mi ha affidata. Qui sono colmata dalle sue pre­mure materne, non sento la povertà perché non mi è mai mancato nulla ma, soprattutto, qui sono amata da lei e da tutte le sorelle, e quest'affetto mi è dolce. Ecco perché sogno un monastero ove sarei sconosciuta, e avrei da soffrire la povertà, la mancanza d'affetto, insomma, l'esilio del cuore.
286 - Non con l'intenzione di rendere dei servizi al Car­melo che volesse ospitarmi, lascerei tutto ciò che mi è caro; senza dubbio farei tutto il possibile, ma conosco la mia inetti­tudine e so che, facendo del mio meglio, non arriverei a far bene, perché non ho, come dicevo or ora, conoscenza alcuna delle cose della terra. Unico mio scopo sarebbe dunque com­piere la volontà del buon Dio, sacrificarmi per lui nel modo che gli piacerà.Sento bene che non avrei alcuna delusione, perché, quan­do ci si dispone a una sofferenza schietta e senz'alcuna mitiga­zione, la minima gioia diventa una sorpresa insperata, e poi lei lo sa, Madre, la sofferenza di per sé diviene la gioia più grande allorché la si ricerca come il tesoro più prezioso. No! non partirei con l'intenzione di godere il frutto delle mie fatiche; se fosse questo il mio scopo, non proverei la pace dolce che m'inonda, e soffrirei invece per non potere concreta­re la mia vocazione verso le missioni lontane. Da gran tempo non appartengo più a me stessa, mi sono offerta totalmente a Gesù, egli è dunque libero di far di me ciò che preferisce. Mi ha dato l'attrattiva verso un esilio completo, mi ha fatto capire tutte le sofferenze che troverei in esso, chiedendomi se volevo bere questo calice fino alla feccia; subito ho voluto prendere la coppa che Gesù mi presentava, ma lui, ritirando la mano, mi ha fatto capire che l'accettazione gli bastava.
287 - Madre mia, da quali inquietudi ci liberiamo facen­do il voto di obbedienza! Come sono felici le semplici religio­se! La loro unica bussola è la volontà dei superiori, e sono sempre sicure di trovarsi sul retto sentiero, non hanno da temere d'ingannarsi nemmeno se a loro pare che i superiori certamente sbaglino. Ma quando non si guarda più la bussola infallibile, quando ci si allontana dalla via che essa ci indica, e si fa ciò col pretesto di far la volontà di Dio, come se egli non guidasse chiaramente coloro che pure tengono il suo posto, subito l'anima si smarrisce nei sentieri aridi ove l'acqua della grazia le viene a mancare Madre cara, lei è la bussola che Gesù mi ha dato per con­durmi sicuramente alla riva eterna. Quanto mi è dolce fissare su lei il mio sguardo, e compiere così la volontà del Signore! Dopo che egli mi ha permesso di soffrire le tentazioni contro la fede, egli stesso ha aumentato nel mio cuore lo spirito di fede, e questo mi fa vedere in lei non soltanto una Madre la quale mi ama e che io amo, ma soprattutto mi fa vedere Gesù vivo nell'anima sua, Gesù che mi comunica la propria volontà attraverso lei. So bene Madre mia, che ella mi tratta da anima debole, come bimba coccolata, così non duro fatica a portare il fardello dell'obbedienza, ma mi sembra, secondo ciò che sento nel profondo di me, che non cambierei condotta, e che il mio affetto verso lei non soffrirebbe diminuzione se mi trattas­se severamente, perché vedrei ancora la volontà di Gesù nel suo modo di agire, per il più gran bene della mia anima
288 - Quest'anno, cara Madre, il Signore mi ha concesso la grazia di capire che cosa è la carità; prima lo capivo, è vero, ma in un modo imperfetto, non avevo approfondito queste parole di Gesù: «Il secondo comandamento è simile al primo: amerai il prossimo tuo come te stesso». Mi dedicavo soprat­tutto ad amare Dio, e amandolo ho capito che l'amore deve tradursi non soltanto in parole, perché: «Non coloro che dico­no: Signore, Signore! entreranno ned regno dei Cieli, bensì coloro che fanno la volontà di Dio». Questa volontà Gesù l'ha fatta conoscere varie volte, dovrei dire quasi in ciascuna pagina del suo Vangelo; ma nell'ultima cena, quand'egli sa che il cuore dei suoi discepoli brucia ancor più di amore per lui che si è dato ad essi nell’effabile mistero della Eucaristia, questo dolce Salvatore vuole dare un comandamento nuovo. Dice loro con tenerezza inesprimibile: «Vi do un comandamento nuovo, di amarvi reciprocamente; come io ho amato voi, amatevi l'un l'altro. Il segno dal quale tutti conosceranno che siete miei discepoli sarà che vi amate scambievolmente» In qual modo Gesù ha amato i suoi discepoli, e perché li ha amati? Ah, non erano le loro qualità naturali che potevano attirarlo, c'era tra loro e lui una distanza infinita. Egli era la Scienza, la Sapienza eterna; essi erano dei poveri pescatori igno­ranti e pieni di pensieri terrestri. Tuttavia Gesù li chiama suoi amici, suoi fratelli. Vuole vederli regnare con lui nel regno di suo Padre, e per aprir loro questo regno vuole morire sopra una croce, perché ha detto: «Non c'è amore più grande che dare la vita per coloro che amiamo».
289 - Madre amata, meditando su queste parole di Gesù ho capito quanto l'amore mio per le mie sorelle era imperfetto, ho visto che non le amavo come le ama Dio. Capisco ora che la carità perfetta consiste nel sopportare i difetti degli altri, non stupirsi delle loro debolezze, edificarsi dei minimi atti di virtù che essi praticano, ma soprattutto ho capito che la carità non deve restare affatto chiusa nel fondo del cuore: «Nessuno - ha detto Gesù - accende una fiaccola per metterla sotto il mog­gio, ma la mette sul candeliere affinché rischiari tutti coloro che sono in casa». Mi pare che questa fiaccola rappresenti la carità la quale deve illuminare, rallegrare, non soltanto coloro che mi sono più cari, ma tutti coloro che sono nella casa, senza eccettuar nessuno.
290 - Quando il Signore aveva comandato al suo popolo di amare il prossimo come se stesso, non era venuto ancora sulla terra; così, sapendo bene a qual punto si ami la propria persona, non poteva chiedere alle sue creature un amore piu grande per il prossimo. Ma quando Gesù dà ai suoi apostoli un comandamento nuovo, il comandamento proprio suo, come dirà altrove, non parla di amare il prossimo come se stessi, bensì di amarlo come lui, Gesù, l'ha amato, come l'amerà fino alla consumazione dei secoli. Signore, so che voi non comandate alcunché d'impossibi­le, conoscete meglio di me la mia debolezza, la mia imperfezio­ne, voi sapete bene che mai potrei amare le mie sorelle come le amate voi, se voi stesso, o mio Gesù, non le amaste ancora in me. E perché voi volevate concedermi questa grazia, che avete fatto un comandamento nuovo. Oh, come l'amo, il vostro comandamento, poiché mi dà la sicurezza che la volontà vostra è di amare in me tutti coloro che voi mi comandate di amare. Sì, lo sento, quando sono caritatevole è Gesù solo che agisce in me, più sono unita con lui, più amo anche tutte le mie sorelle. Quando voglio aumentare in me quest'amore, soprattutto quando il demonio cerca di mettermi davanti agli occhi dell'anima i difetti di quella o quell'altra sorella che mi è meno simpatica, mi affretto a cercare le sue virtù, i suoi buoni desideri; mi dico che, se l'ho vista cadere una volta, ella può bene avere riportato un gran numero di vittorie che nasconde per umiltà, e perfino ciò che mi pareva un errore può benissi­mo essere, a causa dell'intenzione, un atto di virtù.
291 - Non duro fatica a persuadermene, perché un giorno ho fatto una piccola esperienza che mi ha dimostrato come non si debba giudicare mai. Fu durante una ricreazione, la portiera suonò due colpi, bisognava aprire la porta grande degli operai per far entrare degli alberi destinati al presepio. La ricreazione non era gaia perché lei non c'era, Madre cara, perciò io pensa­vo che se m'avessero mandato a servire da «terza», sarei stata ben contenta; la madre sottopriora mi disse proprio di andare io, oppure la consorella che si trovava accanto a me. Io comin­ciai a togliermi subito il grembiule, abbastanza lentamente affinché la mia compagna si liberasse del suo prima di me, per­ché pensavo di farle piacere lasciandole la possibilità di essere «terza». La suora che sostituiva la portiera ci guardava ridendo, e quando vide che mi ero alzata ultima, mi disse: «Avevo ben pensato che non sarebbe stata lei a guadagnare una perla per la sua corona, andava troppo piano...». Certamente tutta la comunità credette che avessi agito per natura, e non saprei dire quanto bene all'anima mi abbia fatto una cosa così piccola, rendendomi indulgente per le debolezze delle altre. Ciò mi impedisce anche di provare un senso di vanità quando sono giudicata favorevolmente, perché mi dico questo: poiché prendono per imperfezione i miei pic­coli atti di virtù, potranno altrettanto bene ingannarsi pren­dendo per virtù ciò che è soltanto imperfezione. Allora dico con san Paolo: «Mi metto ben poco in angustie per il giudizio di qualsiasi tribunale umano. Non mi giudico io stessa, colui che mi giudica e' il Signore». Così per rendere favorevole quel giudizio, o piuttosto per non essere giudicata affatto, voglio aver sempre pensieri caritatevoli, perché Gesù ha detto: «Non giudicate, non sarete giudicati».
292 - Madre mia, leggendo ciò che ho scritto, potrebbe credere che la pratica della carità non mi sia difficile. E’ vero, da qualche mese non ho più da combattere per praticare que­sta bella virtù; non voglio dire con ciò che non mi accada mai di fare errori, oh, sono ben troppo imperfetta per questo! ma non mi costa grande fatica rialzarmi quando sono caduta, per­ché in un certo combattimento ho riportato vittoria; così la milizia celeste mi viene ora in soccorso, non potendo ammette­re di vedermi vinta dopo che sono stata vittoriosa nella glorio­sa lotta che cercherò di descrivere. C'è in comunità una consorella la quale ha il talento di dispiacermi in tutte le cose, le sue maniere, le sue parole, il suo carattere mi sembrano molto sgradevoli. Tuttavia è una santa religiosa che deve essere graditissima al Signore, perciò io, non volendo cedere all'antipatia naturale che provavo, mi son detta che la carità non deve consistere nei sentimenti, bensì nelle ope­re; allora mi sono dedicata a fare per questa consorella ciò che avrei fatto per la persona più cara. Ogni volta che la incontravo, pregavo il buon Dio per lei, offrendogli tutte le sue virtù e i suoi meriti. Sentivo che ciò era bene accetto a Gesù, perché non c’è artista al quale non piaccia ricevere lodi per le sue opere, e Gesu, l'artista delle anime, è felice quando non ci si ferma all'esterno, e invece, penetrando fino al santuario intimo che egli si è scelto come dimora, se ne ammira la bellezza. Non mi contentavo di pregar molto per la sorella che mi suscitava tanti conflitti interni, cercavo di farle tutti i favori possibili, e quando avevo la tentazione di risponderle sgarbatamente, mi limitavo a farle il più amabile dei miei sorrisi, e cercavo di stornare la conversazione perché è detto nell'Imitazione: «E meglio lasciar ciascuno nel suo sentimento piuttosto che fermarsi a contestare» Spesso anche, quando non ero in ricreazione (voglio dire durante le ore di lavoro), avendo a che fare per uffcio con que­sta consorella, quando i miei contrasti intimi erano troppo vio­lenti, fuggivo come un disertore. Poiché ignorava assolutamen­te quello che sentivo per lei, mai ha supposto i motivi della mia condotta, e rimane persuasa che il suo carattere mi è pia­cevole. Un giorno in ricreazione mi ha detto press'a poco que­ste parole, tutta contenta: «Mi potrebbe dire, suor Teresa di Gesù Bambino, che cosa l'attira verso me, perché ogni volta che mi guarda, la vedo sorridere?». Ah, quello che mi attirava, era Gesù nascosto in fondo all'anima di lei... Gesù che rende dolce quello che c'è di più amaro. Le risposi che le sorridevo perché ero contenta di vederla (beninteso non aggiunsi che era dal punto di vista spirituale).
293 - Madre cara, l'ho già detto, il mio mezzo supremo per non essere vinta nei combattimenti è la diserzione, lo usa­vo già, questo mezzo, durante il noviziato, mi è sempre riuscito perfettamente. Voglio citare, Madre, un esempio che credo la farà sorridere. Durante una delle sue bronchiti, venni un mat­tino piano piano a riportarle le chiavi della grata della Comu­nione, perché ero sacrestana; in fondo, non ero affatto contra­nata per quell'occasione di vederla, ne ero anzi molto conten­ta, ma mi guardai bene dal farlo conoscere. Una consorella, animata di santo zelo e che in realtà mi amava molto, vedendo­mi entrare da lei, Madre mia, credette che l'avrei svegliata, e volle prendermi le chiavi, ma io ero troppo smaliziata per dar­ gliele e cedere i miei diritti. Le dissi con la maggior cortesia possibile che anch'io desideravo non svegliarla, che stava a me restituire le chiavi. Capisco ora che sarebbe stato ben più per­fetto cedere a quella consorella, giovane, è vero, ma sempre più anziana di me. Non lo capivo allora, perciò, volendo asso­lutamente entrare dietro a quella, nonostante che ella mi spin­gesse la porta per impedirmi di passare, ben presto il guaio che temevamo accadde: il rumore che facevamo le fece aprire gli occhi. Allora, Madre mia, tutto ricadde su me, la povera consorella alla quale avevo resistito si mise a tirar fuori tutto un discorso il cui fondo era questo: E suor Teresa di Gesù Bambino che ha fatto rumore... mio Dio, come è sgradevole, ecc. Io che sentivo tutto il contrario, avevo una gran voglia di difendermi; fortunatamente mi venne un'idea luminosa: mi dissi che certamente, se avessi cominciato a giustificarmi, non avrei potuto mantenere la pace dell'anima, sentivo altresì che non avevo abbastanza virtù per lasciarmi accusare senza dir nulla, perciò l'ultima tavola di salvezza era la fuga. Pensare e fare fu tutt'uno, partii senza tamburo né tromba, mentre la consorella continuava il suo discorso che somigliava alle impre­cazioni di Camilla contro Roma. Il cuore mi batteva tanto forte che mi fu impossibile andar lontano, e mi sedetti sulle scale per godere in pace il frutto della mia vittoria. Non era un atto di grande valore, è vero, ma credo tuttavia sia meglio non esporsi alla battaglia quando la sconfitta è sicura.
294 - Ahimè! quando mi riporto al tempo del mio novi­ziato, vedo quanto ero imperfetta... Mi affliggevo per cose tan­to piccole che ora ne rido. Oh, com'è buono il Signore d'aver fatto crescere l'anima mia e averle dato le ali. Tutte le reti dei cacciatori non potrebbero farmi paura perché: «Invano si get­tano le reti davanti a coloro che hanno le ali» (Prov.). Più tardi, senza dubbio, il tempo attuale mi parrà ancora pieno d'imperfezioni, ma ora non mi stupisco più di nulla, non mi affliggo vedendo che sono la debolezza stessa, al contrario, in essa mi glorifico e mi aspetto giorno per giorno di scoprire in me nuove imperfezioni.
295 - Ricordandomi che la «carita' copre una moltitudine di peccati», attingo a questa miniera feconda che Gesù ha aperto dinanzi a me. Nel Vangelo, il Signore spiega in che cosa consiste il suo «comandamento nuovo». Dice in S. Matteo: «Sapete che è Stato detto: Amerete il vostro amico e odierete il vostro nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici, pregate per coloro che vi perseguitano». Senza dubbio, nel Carmelo non s'incontrano nemici, ma in definitiva ci sono delle simpa­tie, ci si sente attratti verso una consorella, mentre un'altra vi farebbe fare un lungo giro per evitare d'incontrarla, così, pur senza saperlo, ella diviene un soggetto di persecuzione. Ebbe­ne! Gesù mi dice che questa sorella bisogna amarla, che biso­gna pregare per lei, quand'anche la sua condotta mi portasse a credere che ella non mi ami: «Se voi amate coloro che vi ama­no, che merito ne avrete? perché anche i peccatori amano coloro che li amano» (S. Luca, VI).
296 - Ma non basta amare, bisogna dimostrarlo. Si è naturalmente felici di fare un dono a un amico, soprattutto ci piace fare delle sorprese, ma ciò non è affatto carità, perché lo fanno anche i peccatori. Ecco ciò che Gesù m'insegna ancora: «Date a chiunque vi chiede; e se vi prendono ciò che vi appar­tiene, non lo richiedete». Dare a tutte coloro che chiedono, è meno dolce che offrire spontaneamente per l'impulso del cuo­re; ancora, quando ci chiedono gentilmente, non ci costa di dare; ma se per disgrazia non usano parole abbastanza delica­te, subito l'anima si ribella se non è radicata nella carità. Trova mille motivi per rifiutare quello che le viene chiesto, e, solo dopo aver fatto sentire a chi domanda la sua indelicatezza, le accorda infine come grazia ciò che quella desidera, oppure le fa un lieve favore che avrebbe richiesto un tempo venti volte minore a quello che c'è voluto per far valere diritti immaginari. Se è difficile dare a chiunque domanda, lo è ancora di più lasciar prendere quel che ci appartiene senza pretendere che ce lo restituiscano. Madre mia, dico che è difficile, piuttosto dovrei dire che sembra difficile, perché il giogo del Signore è soave e leggero; quando lo si accetta, sentiamo subito la sua dolcezza ed esclamiamo col Salmista: «Ho corso nella via dei vostri comandamenti, dopo che voi avete dilatato il mio cuo­re». Soltanto la carità può dilatare il mio cuore. O Gesù, da quando questa fiamma dolce mi consuma, corro con gioia sul­la via del vostro comandamento nuovo. Voglio correre in essa fino al giorno felice nel quale, unendomi al corteo verginale, potrò seguirvi negli spazi infiniti, cantando il vostro cantico nuovo, quello dell'Amore.
297 - Dicevo: Gesù non vuole che io reclami ciò che mi appartiene; ciò dovrebbe sembrarmi facile e naturale, poiché niente è mio. Ai beni della terra ho rinunciato per il voto di povertà, non ho dunque il diritto di lamentarmi se mi viene tolta una cosa che non mi appartiene, e debbo invece rallegrar­mi quando mi accade di sentirla, la povertà. In altri tempi mi pareva di non essere attaccata a nulla, ma da quando ho capito le parole di Gesù, vedo che, all'atto pratico, sono molto imper­fetta. Per esempio, delle cose necessarie per dipingere nessuna e mia, lo so bene; ma se, mettendomi all'opera, trovo pennelli e pitture tutti sottosopra, se un regolo o un temperino sono span­ti, la pazienza è li lì per abbandonarmi e devo prendere il coraggio a due mani per non richiedere con una certa amarezza gli oggetti che mi mancano. Bisogna bene, a volte, chiedere le cose indispensabili, ma facendolo con umiltà non si manca al comandamento di Gesù, anzi, si agisce come i poveri, i quali tendono la mano per ricevere ciò che loro è necessano: se ven­gono respinti, non se ne meravigliano, nessuno deve loro niente. Ah, quale pace inonda l'anima quando s'innalza al di sopra dei sentimenti della natura! Non esiste gioia paragonabile a quella che gusta il vero povero di spirito. Se chiede con distacco una cosa necessaria, e non soltanto questa cosa gli viene rifiutata, ma addirittura cercano di prendere quello che ha, egli segue il con­siglio di Gesù: «Abbandonate anche il vostro mantello a colui che vuol litigare per avere il vostro vestito»
298 - Abbandonare il proprio mantello è, mi sembra, rinunziare ai propri ultimi diritti, considerarsi come la serva, la schiava delle altre. Quando si è lasciato il proprio mantello è più facile camminare, correre, perciò Gesù aggiunge: «E chiun­que vi forzi a fare mille passi, fatene duemila di più con lui». Così non basta dare a chiunque mi chieda qualche cosa, bisogna che io vada incontro ai desideri, che mi mostri molto grata ed onorata di rendermi utile, e se prendono una cosa a mio uso, non debbo mostrare di rimpiangerla, ma al contrario sembrar felice di esserne sbarazzata. Madre cara, son ben lon­tana dal praticare quello che comprendo, tuttavia il solo desi­derio che ne ho, mi dà la pace.
299 - Più ancora che negli altri giorni, sento che mi sono spiegata malissimo. Ho fatto una specie di discorso sulla carità che deve averla stancata nel leggerlo; mi perdoni, Madre cara, e pensi che in questo momento le infermiere praticano riguar­do a me ciò che io sto scrivendo: non esitano a fare duemila passi là dove venti basterebbero, ho dunque potuto contem­plare la carità in atto! Senza dubbio l'anima mia deve sentirse­ne tutta profumata; quanto al mio spirito, confesso che si è un poco paralizzato davanti a una simile dedizione, e la mia pen­na ha perduto di leggerezza. Perché mi sia possibile trascrivere i miei pensieri, bisogna che io sia come il passero solitario e veramente ciò mi accade assai di rado. Appena comincio a prendere la penna, ecco una buona consorella che mi passa vicino con la forca sulla spalla. Crede distrarmi facendo due chiacchiere, fieno, anatre, polli, visita del dottore, tutto è tirato in ballo; per dire il vero, non dura a lungo, ma di consorelle caritatevoli ce n'è più d'una, e a un tratto un'altra rivoltatrice di fieno mi depone dei fiori sulle ginocchia, credendo forse d'ispirarmi idee poetiche. Io che in questo momento non ne ho bisogno, preferirei che i fiori restassero a dondolare sui loro steli. Finalmente, stanca di aprire e chiudere questo famo­so quaderno, apro un libro (che non vuol restare aperto) e dico risolutamente che copio pensieri dei Salmi e del Vangelo per la festa di Nostra Madre. È ben vero, perché non faccio economia di citazioni.
300 - Madre cara, la divertirei, credo, raccontandole tutte le avventure mie nei boschetti del Carmelo non so se ho potu­to scrivere dieci righe senza essere disturbata; ciò non dovreb­be farmi ridere né divertirmi, tuttavia per amore di Dio e delle mie sorelle (così caritatevoli verso me) cerco di aver l'aria con­tenta e soprattutto di esserlo... Ecco qua, una rivoltatrice si allontana dopo avermi detto con tono compassionevole: «Pove­ra sorellina, la deve stancare scrivere così tutto il giorno». -«Stia tranquilla - le ho risposto - pare che io scriva molto, ma in verità non scrivo quasi nulla». - «Tanto meglio! - mi ha det­to con un'aria rassicurata - ma è lo stesso, io son contenta che qui si stia rivoltando il fieno, perché la distrae sempre un pochino» -. Infatti, è una distrazione così grande per me (sen­za contar le visite delle infermiere) che non mentisco dicendo: non scrivo quasi nulla. Per fortuna non mi scoraggio facilmente, e per dimo­strarglielo, Madre mia, finirò di spiegarle ciò che Gesù mi ha fatto capire riguardo alla carità. Finora le ho parlato soltanto dell'esterno, ora vorrei confidarle come io capisco la carità pura­mente spirituale. Sono ben sicura che non tarderò a confonde­re una e l'altra, ma, Madre mia, poiché parlo a lei, è certo che non le sarà difficile cogliere il mio pensiero e sbrogliare la matassa di sua figlia.
301 - Non sempre è possibile al Carmelo praticare alla lettera le parole del Vangelo, si è talvolta costrette, per ragioni di ufficio, a rifiutare un piacere; ma quando la carità ha gettato radici profonde nell'anima, si mostra anche all'esterno. C'e' un modo così garbato di rifiutare quello che non si può fare, che il rifiuto fa piacere quanto il dono. E vero che ci si perita meno a chiedere un favore a una consorella sempre disposta a farlo, eppure Gesù ha detto: «Non evitate colui che vuole un presti­to da voi». Così, sotto pretesto che si sarebbe costrette a rifiutare, non dobbiamo allontanarci dalle consorelle che han­no l'abitudine di chieder sempre dei piaceri. E nemmeno si deve essere condiscendenti al fine di far bella figura o nella speranza che un'altra volta la sorella cui facciamo un favore ce lo restituisca, perché nostro Signore ha detto anche: «Se voi prestate a coloro dai quali sperate ricevere qualche cosa, che merito ne avrete? Perché anche i peccatori prestano ai pecca­tori alfine di riceverne altrettanto. Ma quanto a voi, fate del bene, prestate senza sperar nulla, e la vostra ricompensa sara grande». Sì! la ricompensa è grande anche sulla terra. Su questa via non c’è che il primo passo che costi. Prestare senza sperar niente sembra duro alla natura, si preferirebbe regalare, perché una cosa donata non appartiene più. Quando vi vengo­no a dire con espressione convintissima: «Sorella, ho bisogno del suo aiuto per qualche ora, ma stia tranquilla, ho il permes­so di Nostra Madre e le restituirò il tempo che lei mi dà, per­ché so quanto lei è occupata»; veramente, quando sappiamo benissimo che mai quel tempo prestato da noi ci verrà restituirlo, sarebbe più piacevole dire: «gliene faccio dono». Ciò con­tenterebbe l'amor proprio, perché dare è un atto più generoso che prestare, e poi facciamo sentire alla consorella che non contiamo sui servizi di lei... Oh, gl'insegnamenti di Gesù come sono contrari ai sentimenti della natura! Senza il soccorso del­la sua grazia sarebbe impossibile non solamente metterli in pratica, bensì anche capirli.


2. IL COMANDAMENTO NUOVO DI GESÙ (1897)

Amarsi come Cristo ci ha amato - Non giudicare - Vittorie pratiche - Esigenze della carita' evangelica - Gioia del vero povero di spirito - Premu­re indiscrete - Servi di tutti e senza diritti - Il «pennellino» di Gesù all'ope­ra - Potenza della preghiera - Pane corroborante dell'umiliazione - Suor San Pietro - In coro e al bucato - Due «fratelli» sacerdoti e missionari -«Attiratemi! noi correremo... » - La preghiera dell'ultima sera - Amore e fiducia illimitata in Dio.


302 - Madre mia, Gesù mi ha concesso la grazia di farmi penetrare i misteri profondi della carità; se potessi esprimere ciò che capisco, lei intenderebbe una melodia di cielo, ma ahimè! ho soltanto dei balbettii infantili da farle intendere... Se le parole stesse di Gesù non mi servissero di sostegno, sarei tentata di chiederle grazia e lasciar la penna. Ma no, bisogna che continui per obbedienza quello che per obbedienza ho cominciato. Madre amata, scrivevo ieri che i beni di quaggiù non mi appartengono e perciò dovrei trovar facile non richiederli se qualcuno me li prendesse. I beni del Cielo non mi appartengono, maggiormente mi vengono prestati dal Signore il quale può ritogliermeli senza che io abbia diritto di lamentarmi. Tuttavia i beni che vengono direttamente da Dio, gli slanci dell'intelligen­za e del cuore, i pensieri profondi, tutto ciò forma una ricchezza alla quale ci attacchiamo come a un bene proprio che nessuno ha il diritto di toccare... Per esempio, se in «licenza» si comuni­ca a una consorella qualche luce ricevuta durante l'orazione e, poco tempo dopo, questa consorella parlando con un'altra le dice ciò che le è stato confidato come se l'avesse pensato lei stes­sa, sembra che ella si appropri di ciò che non è suo. Oppure in ricreazione si dice a voce bassa ad una compagna una parola piena di spirito e opportunissima; se quella la ripete ad alta voce senza far conoscere la fonte da cui proviene, ciò sembra ancora un furto alla proprietaria, la quale non la reclama, ma avrebbe voglia di farlo, e coglierà la prima occasione per far sentire con finezza che altri si è impadronito dei suoi pensieri.
303 - Madre mia, non potrei spiegarle così bene questi sentimenti tristi della natura, se non li avessi provati nel mio cuore, e mi piacerebbe cullarmi nella dolce illusione che essi abbiano visitato soltanto il mio, se lei non mi avesse comanda­to di ascoltare le tentazioni delle sue care piccole novizie. Ho molto imparato assolvendo la missione da lei affidatami, soprat­tutto mi sono trovata costretta a praticare ciò che insegnavo alle altre; perciò ora lo posso dire, Gesù mi ha fatto la grazia di non essere più attaccata ai beni dello spirito e del cuore che a quelli della terra. Se mi accade di pensare o dire una cosa che piaccia alle mie sorelle, trovo del tutto naturale che se ne impadroniscano come di una loro proprietà. Questo pensiero appartiene allo Spirito Santo e non a me, poiché san Paolo dice che non possiamo, senza quello Spirito di amore, chiama­re «Padre» il Padre nostro che è nei Cieli. È perciò ben libe­ro di servirsi di me per dare un buon pensiero a un'anima; se stimassi che quel pensiero fosse mio, sarei come «l'asino che portava le reliquie», il quale credeva che gli omaggi resi ai santi fossero rivolti a lui.
304 - Non disprezzo i pensieri profondi che nutriscono l'anima e la uniscono a Dio, ma da lungo tempo ho capito che non bisogna appoggiarsi ad essi e far consistere la perfezione nel ricevere molte luci. I pensieri più belli sono un nulla senza le opere; è vero che gli altri possono cavarne gran profitto se si umiliano e testimoniano a Dio la loro riconoscenza in quanto permette loro di prender parte al festino di un'anima che egli arricchisce con le sue grazie; ma se quest'ultima si compiace dei suoi bei pensieri e fa la preghiera del fariseo, diventa simile a uno il quale muoia di fame davanti a una tavola ben fornita, mentre tutti i suoi invitati ne attingono nutrimento abbondan­te, e gettano talvolta uno sguardo d'invidia sul possessore di tanti beni. Ah, come soltanto Dio conosce il fondo dei cuori! E le creature, quali corti pensieri hanno! Quando vedono un'anima più illuminata delle altre, subito ne deducono di essere amate meno di quella, da Gesù, e di non potere essere chiamate alla stessa perfezione. Da quando il Signore non ha più il diritto di usare una delle sue creature per dispensare alle anime, che egli ama, il nutrimento necessario? Al tempo di faraone Dio aveva ancora questo diritto, perché nella Scrittura dice a quel re: «Ti ho elevato apposta per fare splendere in te la mia potenza, affinché venga annunciato il mio Nome su tutta la terra». I secoli sono succeduti ai secoli da quando l'Altissi­mo pronunciò queste parole, e, dopo, la sua condotta non ha cambiato; sempre si è servito delle sue creature come di stru­menti per compiere l'opera sua nelle anime.
305 - Se la tela dipinta da un artista potesse pensare e parlare, certamente non si lamenterebbe di essere toccata e ritoccata senza posa da un pennello, e non invidierebbe nem­meno la sorte di questo strumento, perché saprebbe che non al pennello ma all'artista che lo maneggia ella è debitrice della sua bellezza. Il pennello da parte sua non potrebbe gloriarsi del capolavoro che ha fatto, sa bene che gli artisti non sono impacciati, che ridono delle difficoltà e si compiacciono di sce­gliere talvolta strumenti deboli e difettosi. Madre amata, sono un pennellino scelto da Gesù per dipingere l'immagine sua nelle anime che lei mi ha affidate. Un artista non si serve di un pennello solo, gliene occorrono alme­no due: il primo è il più utile, con esso dà le tinte generali, copre completamente la tela in poco tempo; l'altro, piccino, gli serve per i particolari. Madre mia, ella mi raffigura il pennello prezioso di cui Gesù si serve con amore quando vuol fare ungrande lavoro nell'anima delle figlie, e io sono quello piccolissimo che egli si degna usare dopo, per le minime rifiniture.
306 - La prima volta che Gesù si servì del suo pennellino fu verso l'8 dicembre 1892. Sempre ricorderò quel periodo come un tempo di grazia. Le confiderò, Madre cara, questo dolce ricordo. A quindici anni, quand'ebbi la felicità di entrare nel Car­melo, trovai una compagna di noviziato la quale mi aveva preceduta di qualche mese; aveva otto anni più di me, ma il suo carattere infantile faceva dimenticare la differenza di età; perciò ella ebbe ben presto, Madre mia, la gioia di vedere le due piccole postulanti intendersi a meraviglia e divenire inse­parabili. Per favorire quest'affetto nascente che a lei sembrava dovesse portare dei frutti, ci aveva permesso di avere insieme di quando in quando dei piccoli colloqui spirituali. La mia cara compagna m'incantava con la sua innocenza, col suo carat­tere espansivo, ma d'altra parte io stupivo vedendo come l'affezione che ella nutriva verso di lei era molto diversa da quella che nutrivo io. Avrei desiderato anche che cambiasse varie cose nella sua condotta riguardo alle consorelle. Fin da quel tempo il buon Dio mi fece capire che la sua misericordia non si stanca di attendere certe anime, alle quali dà la sua luce soltanto per gradi, perciò mi guardavo bene dall'anticipare l'ora della mia consorella, e aspettavo pazientemente che pia­cesse a Gesù farla arrivare.
307 - Riflettendo un giorno al permesso che lei ci aveva dato di intrattenerci come è detto nelle nostre sante costituzio­ni: «Per infiammari di più nell'amore del nostro Sposo», pensai con tristezza che le nostre conversazioni non raggiungevano lo scopo desiderato. Allora il Signore mi fece sentire che il momen­to era venuto, e che non bisognava più temere di parlare, oppure che dovevo cessare quelle conversazioni; esse somigliavano, infatti, ai colloqui fra amiche nel mondo. Quel giorno era un sabato; l'indomani, durante il mio ringraziamento, sup­plicai il Signore di ispirarmi parole dolci e convincenti, o piut­tosto di parlare egli stesso per mezzo mio. Gesù esaudì la mia preghiera, permise che il risultato colmasse interamente la mia speranza, perché:«Coloro che volgeranno i loro sguardi verso lui, saranno illuminati» (Salmo XXXIII) e «la luce si è alzata nelle tenebre per coloro che hanno il cuore retto». La prima parola si rivolge a me e la seconda alla mia compagna, la quale veramente aveva il cuore retto. Arrivata l'ora nella quale avevamo risoluto di stare insie­me, la povera sorellina gettando gli occhi su me vide subito che non ero più la stessa; si sedette accanto a me arrossendo, e io, appoggiando la sua testa sul mio cuore, le dissi, con le lacri­me nella voce, tutto quello che pensavo di lei, ma con espres­sioni così tenere, mostrandole un affetto così grande, che ben presto le sue lacrime si confusero con le mie. Riconobbe con grande umiltà che tutto quello che dicevo era vero, mi promise di cominciare una nuova vita e mi chiese come una grazia di avvertirla sempre riguardo alle sue mancanze. Finalmente, nel momento di separarci, il nostro affetto era divenuto tutto spi­rituale, non c'era più niente di umano. In noi si attuava quel passo della Scrittura: «Il fratello che è aiutato dal fratello è come una città fortificata».
308 - Quello che Gesù fece col suo pennellino sarebbe stato ben presto cancellato se egli non avesse agito per mezzo suo, Madre, compiendo l'opera nell'anima che voleva tutta per sé. La prova parve molto amara alla mia povera compagna, ma la fermezza con la quale ella, Madre mia, le portò aiuto finì per trionfare, e allora io potei consolar colei che mi era stata data per sorella fra tutte e spiegarle in che consiste il vero amore. Le mostrai che amava se stessa e non già lei, Madre, le dissi in qual modo io amavo lei e i sacrifici che avevo dovuto fare all'ini­zio della vita religiosa per non attaccarmi a lei in modo mate­riale, come il cane si attacca al padrone. L'amore si nutre di sacrifici: più l'anima si priva di soddisfazioni naturali, più la sua tenerezza diventa forte e disinteressata.
309 - Ricordo che, quand'ero postulante, avevo talvolta delle tentazioni così violente di entrare da lei, Madre, per tro­vare qualche po' di conforto, che ero costretta a passare rapi­damente davanti all'ufficio e aggrapparmi alla ringhiera delle scale. Mi veniva alla mente una folla di permessi da chiedere, insomma, Madre amata, trovavo mille ragioni per contentare la mia natura. Come sono soddisfatta ora d'essermene privata fin dall'inizio della vita religiosa! Già godo la ricompensa pro­messa a coloro che combattono coraggiosamente. Non sento più necessario rifiutarmi tutte le consolazioni del cuore, per­ché l'anima mia è rafforzata da Colui che io volevo amare uni­camente. Vedo con gioia che, amandolo, il cuore si dilata, e può dare incomparabilmente più tenerezza ai suoi cari che se fosse concentrato in un amore egoista e infruttuoso.
310 - Madre cara, le ho ricordato il primo lavoro che Gesù e lei hanno compiuto per mezzo mio; era soltanto il pre­ludio di quelli che dovevano essermi affidati. Quando mi fu dato di penetrare nel santuario delle anime, capii subito che l'impegno era superiore alle mie forze; allora mi misi nelle braccia del Signore, come un bambinello, e nascondendo il mio viso tra i suoi capelli, gli dissi: «Signore, sono troppo pic­cola per nutrire le vostre figlie: se volete dare per mezzo mio ciò che conviene a ciascuna, empite la mia povera mano, ed io, senza abbandonare le vostre braccia, senza nemmeno voltarmi, darò i vostri tesori all'anima che mi chiederà il cibo. Se lo tro­verà di suo gusto, saprò bene che ciò non sarà dovuto a me, bensì a voi. Al contrario, se si lamenterà e troverà amaro ciò che le presento, la pace mia non sarà turbata, e cercherò di convincerla che questo cibo viene da voi, e mi guarderò bene dal cercarne un altro per lei».
311 - Madre mia, quando capii che mi era impossibile far qualcosa con le mie forze, il compito datomi da lei non mi par­ve più difficile, sentii che la sola cosa necessaria era di unirmi sempre più intimamente col Signore, e «il resto mi verrà dato per soprappiù». In realtà, la mia speranza non è stata mai delusa, il buon Dio si è degnato di colmare la mia piccola mano quante volte ciò è stato necessario per nutrire l'anima delle mie sorelle. Le confesso, Madre cara, che se mi fossi appoggiata sia pur pochissimo alle mie proprie forze, avrei ben presto reso le armi. Da lontano pare tutto rosa far del bene alle anime, far loro amare Dio più e meglio; insomma, modellarle secondo le nostre vedute e secondo i nostri pensieri personali. Da vicino, è tutto il contrario, la tinta rosa è scomparsa, si sente che far del bene è tanto impossibile senza il soccorso del Signore quanto far brillare il sole in piena notte. Si sente che bisogna assoluta­mente dimenticare i propri gusti, i nostri concetti personali, e guidare le anime sul cammino che Gesù ha tracciato loro, senza tentare di farle camminare sulla nostra via.
312 - Ma non è questo ancora il più difficile; quello che mi costa più che tutto il resto è di osservare le mancanze, le imperfezioni più leggere, e scatenar contro esse una guerra a morte. Stavo per dire: disgraziatamente per me! (ma no, sareb­be viltà), dico dunque: fortunatamente per le mie consorelle; da quando ho preso posto tra le braccia di Gesù, sono come la scolta che guardi il nemico dalla torre di guardia più alta di una fortezza. Nulla sfugge al mio occhio; spesso mi meraviglio di vederci tanto chiaro, e trovo che il profeta Giona è ben degno di scusa se si dette alla fuga anziché andare ad annunciar la rovina di Ninive. Preferirei mille volte ricevere dei rimproveri anziché farne agli altri, ma sento che è proprio necessario che ciò mi sia di sofferenza: e ciò, perché quando si agisce per natu­ra, è impossibile che l'anima cui vogliamo rivelare le sue colpe capisca i propri torti; essa vedrà una cosa sola: «1a consorella incaricata di dirigermi è arrabbiata con me, e tutto ricade su me, che sono animata dalle intenzioni migliori».
313 - Lo so bene, che le sue agnelline mi trovano severa. Se leggessero queste righe, direbbero che non sembra mi deb­ba costar molto inseguirle, parlar loro severamente mostrando la loro bella lana sporca, oppure riportare loro qualche bel fiocco di lana che si sono lasciate strappare dai rovi della stra­da. Le agnellette possono dire tutto quel che vogliono: in fon­do, sentono che le amo di un amor vero, che mai imiterò «il mercenario, il quale, vedendo avvicinarsi il lupo, lascia il greg­ge, e fugge». Sono pronta a dar la vita per loro, ma il mio affetto è così puro, che non desidero che lo conoscano. Mai, per grazia di Gesù, ho cercato di attirarmi i loro cuori, ho capito che la mia missione era di condurle a Dio e di far loro capire questo: ella è quaggiù, Madre mia, il Gesù visibile che debbono amare e rispettare.
314 - Le ho già detto che, istruendo le altre, ho imparato molto anch'io. Ho visto, come prima cosa, che tutte le anime hanno più o meno gli stessi combattimenti, ma che, d'altra parte, sono tanto differenti l'una dall'altra. Si capisce quello che dice il padre Pichon: «Ci sono molte più differenze tra le anime che tra i volti». Perciò è impossibile agir con tutte allo stesso modo. Con certe anime, sento che mi debbo fare picco­la, non temere di umiliarmi confessando i miei conflitti, i miei difetti; vedendo che ho le stesse debolezze che hanno loro, le mie sorelline mi rivelano a loro volta le mancanze che rimpro­verano a loro stesse, e si sentono confortate dal fatto che io le conosca per esperienza. Con altre, ho visto che, per far loro del bene, occorre molta fermezza, e non tornar mai su ciò che è stato detto. Abbassarsi in questi casi non sarebbe umiltà, bensì debolezza. il Signore mi ha fatto la grazia di non farmi temere la guerra, debbo fare il mio dovere a qualunque costo. Più d'una volta mi hanno detto: «Se lei vuole ottenere qualco­sa da me, bisogna che mi prenda con dolcezza, per forza non otterrà nulla». Io so che nessuno è buon giudice nella propria causa, e che un bimbo, al quale il medico faccia subire un'ope­razione dolorosa, grida a squarciagola e dice che il rimedio è peggiore del male; eppure, quando si trova guarito, qualche giorno dopo, è tutto felice di poter giocare e correre. Lo stesso accade alle anime, ben presto riconoscono che un po' d'amaro è preferibile allo zucchero, e non temono di confessarlo.
315 - Qualche volta non posso fare a meno di sorridere intimamente vedendo quale cambiamento abbia luogo dall'oggi al domani, è fiabesco. Mi dicono: «Ha avuto ragione ieri di essere severa; da principio ero rivoltata, ma poi mi sono ricor­data di tutto, e ho visto che lei era molto giusta. Ascolti: quan­do ieri sono andata via, pensavo: "E finita, vado a trovare Nostra Madre, e le dico che non tratterò più con suor Tere­sa". Ma ho sentito che era il diavolo a ispirarmi così, e poi mi è parso che lei stesse pregando per me; allora sono rimasta buo­na buona, e la luce ha cominciato a splendere, ma ora bisogna che lei m'illumini del tutto, e per questo eccomi qua». La con­versazione s'ingrana subito; io sono arcifelice di poter seguire la china del cuore, facendo a meno di servire pietanze amare. Sì, ma... mi accorgo ben presto che non si può correr troppo, una parola potrebbe distruggere il bell'edificio costruito tra le lacrime. Se ho la disavventura di pronunciare qualche sillaba che sembri attenuare ciò che ho detto il giorno avanti, vedo la sorellina che si dà da fare per riattaccarsi ai rami... allora fac­cio, nell'intimo, una preghiera, e la verità trionfa sempre. Ah, preghiera e sacrificio formano tutta la mia forza, sono le armi invincibili che Gesù mi ha date, toccano le anime ben più che i discorsi, ne ho fatto esperienza spesso. Una fra tutte queste esperienze mi ha fatto una impressione dolce e profonda.
316 - Fu durante la quaresima: allora mi occupavo di una sola novizia che si trovava qui e della quale ero l'angelo. Mi venne a trovare una mattina, era tutta raggiante: «Ah, se sapesse - disse - che cosa ho sognato stanotte! Ero presso mia sorella, e volevo staccarla da tutte le vanità che le piacciono tanto, perciò le ho spiegato la strofa di Vivere d'amore: "Amarti, Gesù, che perdita feconda! Ogni mio aroma è tuo, per sempre". Sentivo bene che queste parole le penetravano nell'anima, ed ero felice. Stamattina, svegliandomi, ho pensato che il Signore forse vuole che gli dia quest'anima. Se io le scri­vessi dopo quaresima, per raccontarle il mio sogno, e dirle che Gesù la vuole tutta per sé?». Io, senza pensarci su, le dissi che poteva ben tentare, ma prima bisognava chiedere il permesso a Nostra Madre. Poiché la quaresima era lontana dalla fine, lei, Madre cara, rimase assai sorpresa per una richiesta che le parve troppo anticipata; e, certamente ispirata dal Signore, rispose che le carmelitane non debbono salvare le anime per mezzo di lettere, bensì per mezzo della preghiera. Ascoltando la sua decisione capii subito che era di Gesù, e dissi a Suor Maria della Trinità: «Bisogna che ci mettiamo all'opera, preghiamo molto. Quale gioia se alla fine della qua­resima, fossimo esàudite!». Oh, misericordia infinita del Signo­re, che si compiace ascoltare la preghiera dei suoi figli! Alla fine della quaresima un'anima di più si consacrava a Nostro Signore. Era un vero miracolo della grazia, miracolo ottenuto dal fervore di un'umile novizia.
317 - Come è grande la potenza della preghiera! La si direbbe una regina la quale abbia ad ogni istante libero àdito presso il re e possa ottenere tutto ciò che chiede. Non è affatto necessario per essere esaudite leggere in un libro una bella for­mula composta per la circostanza; se così fosse, ahimè! come sarei da compatire! Al di fuori dell'Ufficio divino, che sono indegnissima di recitare, non ho il coraggio di sforzarmi a cercare nei libri le belle preghiere: ciò mi fa male alla testa, ce ne sono tante! E poi sono tutte belle, le une più delle altre. Non ce la farei a dirle tutte, e, non sapendo quale sceglie­re, faccio come i bimbi che non sanno leggere, dico molto semplicemente al buon Dio quello che gli voglio dire, senza far belle frasi, e sempre mi capisce. Per me la preghiera è uno slancio del cuore, è un semplice sguardo gettato verso il Cielo, è un grido di gratitudine e di amore nella prova come nella gioia, insomma è qualche cosa di grande, di soprannaturale, che mi dilata l'anima e mi unisce a Gesù.
318 - Non vorrei però, Madre cara, farle credere che io reciti senza devozione le preghiere in comune, nel coro o negli eremitaggi. Al contrario, amo molto le preghiere in comune, perché Gesù ha promesso di «trovarsi in mezzo a coloro che si riuniscono nel suo nome»; sento allora che il fervore delle mie sorelle supplisce al mio. Ma da sola (ho vergogna di con­fessarlo), la recita del rosario mi costa più che mettermi uno strumento di penitenza. Sento che lo dico così male! Ho un bell'impegnarmi nel meditare i misteri del rosario, non arrivo a fissare il mio spirito. Per lungo tempo mi sono afflitta per que­sta mancanza di devozione che mi meravigliava, perché amo tanto la Vergine Santa, tanto che mi dovrebbe esser facile fare in onor suo le preghiere che le piacciono. Ora me ne cruccio meno, penso che la Regina dei Cieli è mia madre, vede certo la mia buona volontà e se ne contenta. Qualche volta, se il mio spirito è in un'aridità così grande che mi è impossibile trarne un pensiero per unirmi al buon Dio, recito molto lentamente un Padre nostro e poi il saluto angelico; allora queste preghiere mi rapiscono, nutrono l'anima mia ben più che se le avessi recitate precipitosamente un centi­naio di volte. La Santa Vergine mi mostra che non è affatto sdegnata con me, non manca mai di proteggermi appena l'invoco. Se mi sopravviene una preoccupazione, una difficoltà, subito mi vol­go a lei, e sempre, come la più tenera delle madri, ella prende cura dei miei interessi. Quante volte parlando alle novizie mi è accaduto di invocarla e sentire i benefizi della sua protezione materna.
319 - Spesso le novizie mi dicono: «Ma lei ha una rispo­sta a tutto, io questa volta credevo metterla nell'impaccio. Ma dove le va a cercare le cose che ci dice?». Qualcuna di loro è tanto candida da credere che io legga nelle loro anime, e ciò perché mi è accaduto di prevenirle dicendo loro quello che pensavo. Una notte, una delle mie compagne aveva risolto di nascondermi un'afflizione che la faceva soffrire molto. La incontro fin dal mattino, mi parla con un viso sorridente, e io, senza rispondere a ciò che mi dice, esclamo con tono convinto: «Lei soffre». Se avessi fatto cader la luna ai suoi piedi, credo che non mi avrebbe guardata con maggiore sbalordimento. Lo stupore di lei era così grande che assalì anche me, per un atti­mo fui presa da un timore soprannaturale. Ero ben sicura di non avere il dono di leggere nelle anime, ed ero io stessa sor­presa di avere azzeccato così preciso. Sentivo che il Signore era tanto vicino, che, senz'accorgermene, avevo detto, come un bambino, parole le quali non venivano da me, bensì da lui.
320 - Madre cara, lei capisce che tutto è permesso alle novizie; bisogna che possano dir tutto ciò che pensano senza restrizione alcuna, il bene come il male. Ciò riesce loro tanto più facile con me, in quanto non mi debbono il rispetto che si deve a una maestra. Non posso dire che Gesù mi faccia cam­minare esteriormente sulla via delle umiliazioni, si contenta di umiliarmi nel fondo dell'anima; agli occhi delle creature tutto mi riesce bene, seguo il sentiero degli onori per quanto ciò sia possibile in religione. Capisco che non per me, bensì per gli altri, debbo camminare su questo cammino così pericoloso. In realtà, se passassi agli occhi della comunità come una religiosa colma di difetti, inabile, senza intelligenza né giudizio, sarebbe impossibile per lei, Madre, farsi aiutare da me. Ecco perché il Signore ha gettato un velo su tutti i miei difetti intimi ed ester­ni. Questo velo, talvolta, mi attira dei complimenti da parte delle novizie, e io sento bene che non me li fanno per adula­zione, ma che esprimono i loro sentimenti ingenui; veramente ciò non mi saprebbe ispirare vanità, perché ho sempre dinanzi alla mente il ricordo di ciò che sono.
321 - Tuttavia, mi viene qualche volta un desiderio gran­de di ascoltare qualcosa che non sia lode. Lei sa, Madre cara, che preferisco l'aceto allo zucchero; l'anima mia si stanca di un nutrimento troppo indolcito, e Gesù permette allora che le venga servita una insalatina ben agra, ben piccante, non ci manca nulla fuorché l'olio, e ciò le dà un sapore di più... Que­sta ottima insalatina mi viene servita dalle novizie quando meno me l'aspetto. Il Signore solleva il velo che nasconde le mie imperfezioni, allora le mie piccole care consorelle, veden­domi quale sono, non mi trovano più affatto di loro gusto. Con una semplicità che mi rapisce, mi dicono tutti i conflitti intimi che io provoco in esse, e quello che ad esse dispiace in me; insomma, non si peritano più che se si trattasse di una terza persona, sapendo che mi fanno un piacerone agendo così. Ah, realmente, è più che un piacere, è un banchetto delizioso che colma di gioia l'anima mia. Non posso nemmeno spiegarmi in qual modo una cosa che dispiace tanto alla natura possa diven­tar causa di una felicità così grande; se non l'avessi provato, non lo crederei. Un giorno avevo un desiderio particolare di essere umiliata, e una novizia si assunse il compito di soddi­sfarmi tanto bene che pensai subito a Semei nel momento in cui malediceva David, e riflettei: «Sì, è proprio il Signore che le ordina di dirmi tutte queste cose». E l'anima mia assaporava squisitamente il cibo amaro che le veniva servito con tanta abbondanza. È così che Dio degna prendersi cura di me. Non può darmi sempre il pane fortificato della umiliazione esterna, ma di quando in quando mi permette di «nutrirmi con le briciole che cadono dalla tavola dei figli». Com'è grande la sua mise­ricordia, potrò cantarla soltanto in Cielo!
322 - Madre amata, poiché con lei cerco di cominciare a cantarla fin dalla terra, questa misericordia infinita, debbo anco­ra dirle un gran vantaggio spirituale che ho tratto dalla missione affidatami da lei. Un tempo, quando una consorella faceva qual­che cosa che mi dispiaceva, o mi sembrava irregolare, mi dicevo: se potessi manifestarle ciò che penso, mostrarle che ha torto, quanto bene ciò mi farebbe! Da quando ho praticato un po' il mestiere le assicuro, Madre mia, che ho cambiato affatto di sen­timento. Quando mi accade di vedere una consorella commette­re una azione che mi sembra imperfetta, ho un respiro di sollie­vo e dico: che felicità! non è una novizia, non sono obbligata a riprenderla. E poi subito cerco di scusarla e di attribuirle le buone intenzioni che certamente ella ha. Da quando sono mala­ta, Madre, le premure che lei mi prodiga mi hanno ancora istrui­ta molto riguardo alla carità. Nessun farmaco le sembra troppo costoso, e se uno non riesce efficace, lei, senza stancarsi, ne pro­va un altro. Quando andavo alla ricreazione, quante attenzioni mi usava perché fossi in un posto buono, protetta dalle correnti d'aria! Insomma, se volessi dir tutto, non finirei più! Pensando a tutto ciò, mi sono detta che dovrei avere per le debolezze spirituali delle mie sorelle la compassione che lei ha per me, Madre cara, curandomi con tanto amore.
323 - Ho notato (ed è perfettamente naturale) che le con­sorelle più sante sono le più amate, ricerchiamo la loro conver­sazione, facciamo loro piaceri non richiesti; insomma, queste anime capaci di sopportare mancanze di riguardo e di delica­tezza si vedono circondate dall'affetto di tutte. Si può applica­re a loro una parola di san Giovanni della Croce, nostro Padre: «Tutti i beni mi sono stati dati quando non li ho cercati per amor proprio» Invece, le anime imperfette non sono cercate affatto; sen­za dubbio nei loro riguardi ci si limita alla cortesia religiosa, ma, forse per il timore di dir loro parole poco gentili, evitiamo la loro compagnia. Dicendo le anime imperfette, non voglio parlare soltanto delle imperfezioni spirituali, perché le più san­te saranno perfette solo in Cielo; voglio alludere alla mancanza di giudizio o di educazione, alla insofferenza che hanno certi caratteri, tutte cose che non rendono la vita troppo piacevole. So bene che queste infermità morali sono croniche, non c'è speranza di guarigione, ma so altresì che lei, Madre, non cesse­rebbe di curarmi e portarmi sollievo se anche restassi ammala­ta per tutta la vita. Ecco la conclusione che ne traggo: debbo ricercare in ricreazione, in «licenza», la compagnia delle sorel­le che mi sono meno gradevoli, fare presso queste anime ferite l'ufficio del buon Samaritano. Una parola, un sorriso amabile bastano spesso perché un'anima triste si espanda.
324 - Ma assolutamente non per raggiungere questo sco­po voglio praticare la carità, tanto più che ben presto mi sco­raggerei: una parola che potessi aver detto con la migliore intenzione, verrebbe forse interpretata tutta di traverso. Così, per non perdere tempo, voglio essere amabile con tutte (e in modo particolare con le sorelle meno amabili) per rallegrare Gesù e rispondere al consiglio che egli dà nel Vangelo su per giù in questi termini: «Quando fate un festino, non invitate soltanto i vostri parenti ed amici, per timore che essi vi invitino a loro volta, e così abbiate ricevuto la vostra ricompensa; ma invitate i poveri, gli zoppi, i paralitici, e sarete felici che essi non possano ricambiarvi, perché il Padre vostro che vede nel segreto ve ne compenserà». Quale festa potrebbe offrire una carmelitana alle sue sorel­le se non un'agape spirituale composta di carità amabile e gioio­sa? Per me, non ne conosco altra, e voglio imitare san Paolo il quale si rallegrava con coloro che trovava nella gioia; è vero altresì che piangeva con gli afflitti, e le lacrime debbono esserci qualche volta nel festino che io voglio imbandire, ma sempre cercherò che alla fine quelle lacrime si mutino in gioia, poiché il Signore ama coloro che danno con gioia.
325 - Ricordo un atto di carità che il Signore m'ispirò quand'ero ancora novizia, fu poca cosa, tuttavia il Padre nostro, il quale vede nel segreto e guarda più alla intenzione che alla grandezza dell'atto, me ne ha gia' compensata, senza attendere l'altra vita. Fu al tempo in cui suor San Pietro andava ancora nel coro e in refettorio. All'orazione della sera stava di faccia a me: alle 6 meno 10 bisognava che una religiosa si movesse per condurla in refettorio, perché le infermiere allora avevano troppe malate per venire a prenderla. Mi costava molto offrir­mi per questo piccolo servizio, perché sapevo che non era faci­le contentare questa buona suor San Pietro, la quale soffriva tanto che non gradiva cambiamenti di accompagnatrice. Eppu­re non volevo perdere un'occasione tanto bella per esercitare la carità, ricordandomi che Gesù ha detto: «Quello che farete al più piccolo dei miei l'avrete fatto a me». Mi offrii perciò umilmente per condurla, e ci volle del bello e del buono per fare accettare i miei servizi! Finalmente mi misi all'opera, e con tanta buona volontà che riuscii perfettamente. Ogni sera, quando vedevo suor San Pietro scuotere la sua clessidra, sapevo che quel gesto voleva dire: Partiamo! E incre­dibile come mi costava scomodarmi, specie all'inizio, tuttavia lo facevo immediatamente, e poi cominciava tutta una cerimonia. Bisognava smuovere e portare il panchetto in un certo qual modo, soprattutto senza fretta; dopo aveva luogo la passeggia­ta. Si trattava di seguire la povera inferma sostenendola alla cin­tola; lo facevo con quanta più dolcezza mi era possibile, ma se, per disgrazia, ella moveva un passo falso, le pareva subito che io la reggessi male e che stesse per cadere. «Ah, Dio mio! lei va troppo svelta, mi fracasserò». Se tentavo di andare ancor più lentamente: «Ma faccia attenzione, mi segua! Non la sento più la sua mano, m'ha lasciata andare, casco; ah, lo dicevo io che lei è troppo giovane!». Finalmente arrivavamo senza incidenti al refettorio; là sopravvenivano altre difficoltà, si trattava di far sedere suor San Pietro, e di agire destramente per non ferirla, bisognava tirarle su le maniche (anche questo, in un certo modo), e dopo ero libera, potevo andare. Con le sue povere mani storpiate sistemava il pane nella ciotola, come poteva. Me ne accorsi, e ogni sera, prima di lasciarla, le facevo anche que­sto piccolo servizio. Siccome lei non me l'aveva chiesto, fu mol­to commossa per la mia premura, e con questo mezzo che io non avevo cercato, guadagnai del tutto le sue buone grazie e soprattutto (l'ho saputo più tardi) perché, dopo averle tagliato il pane, le facevo il mio più bel sorriso prima di andar via.
326 - Madre cara, forse lei si meraviglierà che io le scriva questo piccolo atto di carità passato ormai da tanto tempo. L'ho raccontato perché sento che debbo cantare, a causa di esso, le misericordie del Signore. Ha degnato lasciarmene il ricordo con un profumo che m'induce a praticare la carità. Rammento qualche volta alcuni particolari che sono, per l'ani­ma mia, una brezza di primavera. Eccone uno che mi si pre­senta alla memoria: una sera d'inverno stavo assolvendo, come al solito, il mio piccolo compito, faceva freddo, era buio... A un tratto intesi in lontananza il suono armonioso di uno stru­mento musicale, e mi raffigurai un salone brillante di luci e di ori, vidi delle fanciulle eleganti le quali si trattavano graziosamente a vicenda con piglio di mondo; poi lo sguardo cadde sulla povera malata che sostenevo, invece di una musica udivo ogni tanto i suoi gemiti, invece degli ori vedevo i mattoni del nostro chiostro austero, rischiarato appena da una pallida luce. Non posso esprimere ciò che avvenne nell'anima mia: il Signo­re la illuminò con i raggi della verità i quali superarono tal­mente lo sfolgorio tenebroso delle feste della terra, che non finivo di credere alla mia felicità. Ah, per goder mille anni di feste mondane, non avrei dato i dieci minuti del mio umile ufficio di carità. Se già nella sofferenza, in mezzo alla lotta, si può vivere un attimo di felicità che supera tutte le gioie della terra, pen­sando che il buon Dio ci ha sottratti al mondo, che sarà nel Cielo quando vedremo in letizia e riposo eterni la grazia incomparabile che il Signore ci ha fatta scegliendoci per «abi­tare nella sua casa», vero vestibolo del Cielo?
327 - Non sempre con trasporti di allegrezza ho praticato la carità, ma al principio della mia vita religiosa Gesù mi volle far sentire quanto è dolce vederlo nell'anima delle sue spose; così quando conducevo suor San Pietro, lo facevo con tanto amore che mi sarebbe stato impossibile far meglio se avessi dovuto condurre Gesù stesso. La pratica della carità non mi è sempre stata così dolce, lo dicevo ora, Madre cara; per darne una prova, le racconterò certi piccoli combattimenti che certa­mente la faranno sorridere. Per lungo tempo, all'orazione della sera, mi trovavo davanti a una consorella la quale aveva una buffa mania, e penso... molti lumi, perché raramente si serviva di un libro. Ecco in qual modo me ne accorgevo: appena la consorella era arrivata, si metteva a fare uno strano rumore che somigliava a quello di due conchiglie fregate una contro l'altra. Me ne accorgevo io sola, perché ho l'orecchio finissimo (un po' troppo, qualche volta). Impossibile dire, Madre mia, fino a che punto quel rumorino mi stancava: avevo gran voglia di voltar la testa e guardar la colpevole, la quale, sicuramente, non si accorgeva del suo tic, sarebbe stato l'unico modo per richiamarla alla realtà; ma in fondo al cuore sentivo che era meglio sopportar la cosa per amor di Dio e per non far dispia­cere alla consorella. Me ne stavo perciò buona buona, cercavo di unirmi al buon Dio, dimenticare il rumonno... tutto inutile, sentivo il sudore che m'inondava, ed ero costretta a fare sol­tanto un'orazione di sofferenza, ma, pur soffrendo, cercavo il modo di farlo senza irritazione, bensì in pace e gioia, almeno nel profondo dell'anima. Allora mi sforzavo d'amare il rumorino tanto sgradevole; non cercavo più di non udirlo (cosa impossibile), ma facevo attenzione ad ascoltarlo bene come se fosse stato un concerto fascinoso, e tutta l'orazione mia (che non era certo quella di quiete) trascorreva nell'offerta di quel concertino a Gesù.
328 - Un'altra volta ero alla lavanderia, davanti a una consorella la quale mi lanciava schizzi d'acqua sporca sul viso ogni volta che sollevava i fazzoletti sul lavatoio; il mio primo moto fu di fare un passo indietro, e asciugarmi la faccia: così la consorella che mi aspergeva avrebbe capito quanto mi avrebbe giovato se fosse stata un po' più calma e attenta, ma pensai subito come sarei stata sciocca a rifiutar diamanti e gemme che mi venivano offerti così generosamente, e mi guardai bene dal far trasparire il mio conflitto. Feci tutti i miei sforzi per deside­rare di ricevere tant'acqua sporca, in modo che da ultimo ave­vo preso gusto davvero a quel nuovo genere di aspersione, e promisi a me stessa di tornare un'altra volta a un posticino così felice, ove si ricevevano tanti tesori. Madre cara, lei vede che sono una piccolissima anima e non posso offrire al buon Dio che piccolissime cose. Ancora mi succede spesso di lasciarmi sfuggire quei sacrifici minuti che danno tanta pace all'anima; non me ne scoraggio, sopporto di avere un po' meno pace, e cerco di essere più vigilante un'altra volta.
329 - Il Signore è così buono con me che mi è impossibi­le aver paura di lui, mi ha dato sempre quello che ho desidera­to, o piuttosto mi ha fatto desiderare quello che mi voleva dare. Così, poco tempo prima che la prova contro la fede cominciasse, mi dicevo: veramente non ho grandi prove este­riori, e perché ne avessi di interiori bisognerebbe che il buon Dio cambiasse la mia via; non credo che lo faccia, eppure non posso vivere sempre così nel riposo... quale mezzo dunque tro­verà Gesù per mettermi alla prova? La risposta non si fece attendere e mi mostrò come colui che amo non è a corto di mezzi: senza cambiar la mia strada, mi mandò la prova che doveva mescolare una salutare amarezza a tutte le mie gioie. Ma non soltanto quando vuole provarmi, Gesù me lo fa pre­sentire e desiderare. Da grandissimo tempo avevo il desiderio, che mi pareva completamente inattuabile, di avere un fratello sacerdote; pensavo spesso che se i fratellini miei non fossero volati al Cielo, avrei avuto la felicità di vederli salire all'altare; ma poiché il buon Dio li ha scelti per farne degli angiolini, non potevo più sperare di vedere il mio sogno tradotto nella realtà. Ed ecco, Gesù non solamente mi ha fatto la grazia che deside­ravo, bensì mi ha unita con i legami dell'anima a due apostoli suoi, i quali sono divenuti fratelli miei... Voglio, Madre cara, raccontarle nei particolari in qual modo Gesù soddisfece il mio desiderio e anche lo superò, perché io non desideravo che un fratello prete il quale tutti i giorni pensasse a me sul santo altare.
330 - Fu la nostra santa Madre Teresa a mandarmi come dono profumato di festa nel 1895 il mio primo fratello. Ero alla lavanderia, molto occupata nel mio lavoro, quando Madre Agnese di Gesù, prendendomi in disparte, mi lesse una lettera che aveva ricevuto allora. Un giovane seminarista, ispirato, dice­va lui, da santa Teresa, chiedeva una sorella la quale si dedicas­se in modo particolare alla salvezza dell'anima sua e l'aiutasse con preghiere e sacrifici quando fosse missionario, affinché egli potesse essere strumento di salvezza per molte anime. Pro­metteva un ricordo costante, quando avesse potuto offrire il santo sacrificio, per colei che divenisse sua sorella. Madre Agnese di Gesù mi disse che voleva me come sorella del futuro missionario. Madre mia, dirle la mia felicità sarebbe cosa impossibile. Il mio desiderio soddisfatto in modo insperato mi fece nascere nel cuore una gioia che chiamerò infantile, perché debbo risa­lire ai giorni della mia infanzia per trovare il ricordo di quelle gioie tanto vive che l'anima è troppo piccola per contenerie; da anni non avevo gustato un tal genere di felicità. Sentivo che sotto questo aspetto l'anima mia era nuova, come se fossero state toccate per la prima volta delle corde musicali dimentica­te fino allora.
331 - Capivo gli obblighi che m'imponevo, perciò mi misi all'opera cercando di raddoppiare di fervore. Bisogna ricono­scere che, da principio, non ebbi consolazioni per incitare il mio zelo; dopo aver scritto una gradevole lettera piena di affet­to, di sentimenti nobili, per ringraziare madre Agnese di Gesù, il mio giovane fratello non dette più segno di vita fino al luglio seguente, mandò soltanto il suo biglietto da visita nel novem­bre per dire che entrava in caserma. A lei, Madre cara, il Signore aveva riservato di compiere l'opera cominciata. Senza dubbio si possono aiutare i missionari con la preghiera e col sacrificio, pure talvolta, quando piace a Gesù di unire due anime per la sua gloria, permette che di quando in quando possano comunicarsi i loro pensieri, ed incitarsi a vicenda ad amare Dio maggiormente; ma per questo è necessaria una volontà espressa dell'autorità, perché mi pare che altrimenti questa corrispondenza farebbe più male che bene, se non al missionario, almeno alla carmelitana continuamente indotta dal suo genere di vita a ripiegarsi su se medesima. Allora, invece di unirla al buon Dio, questa corrispondenza (sia pure a distanza) che ella avrebbe ricercata, le occuperebbe lo spirito; immagi­nando monti e mari, non farebbe altro che procurarsi, sotto pretesto di zelo, una distrazione inutile. Per me, in questa come in tutte le altre cose, sento necessario, affinché le mie lettere facciano bene, che siano scritte per obbedienza, e io provi piuttosto ripugnanza che piacere scrivendole. Così quando parlo con una novizia cerco di farlo mortificandomi, evito di rivolgerle domande che soddisferebbero la mia curiosità; se essa comincia un discorso interessante e poi passa a un altro che mi annoia, senz'aver finito il primo, mi guardo bene dal ricordarle l'argomento che ha lasciato a mezzo, perché mi pare che non possiamo far punto bene quando ricerchiamo noi stessi.
332 - Madre diletta, m'accorgo che non mi correggerò mai: eccomi ancora una volta arrivata ben lontana dal mio argomento, con tutte le mie dissertazioni; mi scusi, la prego, e permetta che ricominci alla prossima occasione poiché non posso fare altrimenti! Lei agisce come il Signore, il quale non si stanca di ascoltare quando gli dico con tutta semplicità le mie pene e le mie gioie quasi che lui non le sappia già. Anche lei, Madre, conosce da gran tempo ciò che penso e tutti gli avvenimenti un po' degni di memoria della mia vita; non potrei dunque informarla di cose nuove. Non posso fare a meno di ridere pensando che le scrivo scrupolosamente tante cose che lei sa bene quanto me. In sostanza, Madre cara, io le obbedi­sco, e se ora non trova interesse nella lettura di queste pagine, forse la distrarranno nei suoi vecchi giorni e le serviranno in seguito per accendere il fuoco, così non avrò perduto il mio tempo... Ma mi piace di parlare come una bambina; non cre­da, Madre, che io ricerchi quale utilità possa avere il mio pove­ro lavoro; poiché lo faccio per obbedienza, mi basta di per sé, e non mi affliggerei affatto se lei lo bruciasse davanti ai miei occhi prima di averlo letto.
333 - È tempo che io riprenda la storia dei miei fratelli, i quali occupano ora un posto così grande nella mia vita. L'anno scorso alla fine di maggio, mi ricordo che ella un giorno mi fece chiamare prima del refettorio. Il cuore mi batteva forte quando entrai da lei; mi domandavo che cosa potesse aver da dirmi, perché era la prima volta che mi faceva chiamare così. Dopo avermi detto di sedere, ecco ciò che mi propose: «Vuole occuparsi degli interessi spirituali di un missionario, il quale deve essere ordinato sacerdote, e partire prossimamente?». E poi, Madre, mi lesse la lettera di quel giovane Padre, affin­ché io sapessi esattamente ciò che egli chiedeva. Il mio primo sentimento fu di gioia, che cedette subito al timore. Le spiegai che, avendo già offerto i miei meriti per un futuro apostolo, credevo di non poterlo fare anche secondo le intenzioni di un altro e che, del resto, vi erano molte religiose migliori di me le quali avrebbero potuto rispondere al suo desiderio. Tutte le mie obiezioni furono inutili, lei mi rispose che si possono ave­re vari fratelli. Allora le domandai se l'obbedienza non poteva raddoppiare i meriti. Lei mi rispose di sì, dicendomi varie cose che mi mostravano come io potessi accettare senza scrupoli un altro fratello. In fondo, Madre mia, io la pensavo come lei, e poiché «lo zelo di una carmelitana deve abbracciare il mon­do», io penso di potere essere utile a più di due missionari, e non potrei dimenticare di pregare per tutti, senza tralasciare i semplici sacerdoti la cui missione talvolta è difficile quanto quella degli apostoli i quali predicano agli infedeli. Insomma, voglio esser figlia della Chiesa com'era la nostra Madre santa Teresa e pregare secondo le intenzioni del Santo Padre, sapen­do che queste intenzioni abbracciano l'universo. Tale è lo sco­po generale della mia vita, ma questo non mi avrebbe impedi­to di pregare e di unirmi in modo particolare alle opere dei miei piccoli cari angeli, se fossero stati sacerdoti. Ed ecco in qual modo mi sono unita spiritualmente agli apostoli che Gesù mi ha dato come fratelli: tutto quello che mi appartiene, appartiene a ciascuno di loro, sento bene che il Signore è troppo buono per far le parti, è così ricco che dà, senza misura, tutto quello che gli chiedo... Ma non creda, Madre mia, che mi perda in lunghe enumerazioni.
334 - Da quando ho due fratelli e le mie sorelline novizie, se volessi chiedere in particolare per ciascun'anima ciò di cui ha bisogno, temerei molto di dimenticare qualcosa d'impor­tante. Alle anime semplici non occorrono mezzi complicati. Poiché io sono tra quelle, un mattino, durante il ringraziamen­to, Gesù mi ha dato un mezzo semplice per compiere la mia missione. Mi ha fatto capire questa parola dei Cantici: «Attirami! noi correremo all'odore dei tuoi profumi» Gesù, dun­que non è nemmeno necessario dire: «Attirando me, attira le anime che amo!». Questa semplice parola: «Attirami!», basta. Signore, lo capisco, quando un'anima si è lasciata captare dall'odore inebriante dei tuoi profumi, non saprebbe correre da sola, tutte le anime che ama sono trascinate a seguirla; ciò avviene senza costrizione, senza sforzo, è una conseguenza naturale della sua attrazione verso te. A somiglianza di un tor­rente che si getta impetuoso nell'oceano, e travolge dietro di sé tutto ciò che ha trovato sul suo passaggio, così, Gesù mio, l'anima che si sprofonda nell'oceano del tuo amore, attira con sé tutti i tesori che possiede...
335 - Signore, lo sai: non ho altri tesori se non le anime che a te è piaciuto unire alla mia; questi tesori me li hai affidati tu. Oso perciò far mie le parole che tu rivolgesti al Padre cele­ste nell'ultima sera che ti vide ancora sulla terra, viaggiatore e mortale. Gesù, mio amato, non so quando finirà il mio esilio... Per più di una sera ancora canterò in terra straniera le tue misericordie, ma verrà finalmente anche per me la sera ultima; allora vorrei poterti dire, o Dio mio: «Ti ho glorificato sulla terra; ho compiuto l'opera che mi hai dato da fare; ho fatto conoscere il tuo nome a coloro che mi hai dato: erano tuoi, e me li hai dati. Ora conosco che tutto ciò che mi hai dato viene da te; perché ho comunicato loro le parole che mi hai comuni­cate, le hanno ricevute ed hanno creduto che mi hai mandato tu. Prego per coloro che mi hai dato, perché sono tuoi. Io non sono più nel mondo; essi vi sono, ed io ritorno a te. Padre San­to, conserva a causa del tuo nome quelli che mi hai dato. Ven­go ora a te, ed affinché la gioia che viene da te sia perfetta in essi, dico questo finché sono ancora nel mondo. Non ti prego di toglierli dal mondo, ma di conservarli dal male. Essi non sono del mondo, come anch'io non sono del mondo. Non pre­go solamente per essi, bensì anche per quelli che crederanno in te attraverso quanto udranno da loro. Padre mio, desidero che dove io sarò, quelli che tu mi hai dato siano con me, e che il mondo conosca che tu li hai amati come hai amato me».
336 - Sì, Signore, questo vorrei ripetere dopo di te, prima di volarmene tra le tue braccia. E forse temerità? Ma no, da lungo tempo mi hai permesso di essere audace con te. Come il padre del figliuol prodigo al suo maggiore, tu hai detto a me: «Tutto ciò che è mio, è tuo». Le tue parole, Gesù, sono dun­que mie, ed io posso servirmene per attirare sulle anime unite con me i favori del Padre celeste. Ma, Signore, quando dico che dove sarò io desidero che ci siano anche coloro che tu mi hai dato, non pretendo che essi non possano arrivare ad una gloria ben più alta di quella che ti piacerà dare a me, voglio chiederti semplicemente che un giorno ci troviamo tutti riuniti nel tuo bel Cielo. Lo sai, mio Dio, non ho desiderato mai se non di amarti, non ambisco ad altra gloria. Il tuo amore mi ha prevenuta fin dall'infanzia, è cresciuto con me, ed ora è un abisso del quale non posso scandagliare la profondità. L'amore attira l'amore, così, Gesù mio, il mio si slancia verso di te, vorrebbe colmare l'abisso che l'attira, ma ahimè! è meno che una goccia di rugia­da perduta nell'oceano! Per amarti come tu mi ami, mi è necessario far mio il tuo stesso amore, soltanto allora trovo il riposo. O Gesù, è forse una illusione, ma mi sembra che tu non possa colmare un'anima con più amore di quanto hai dato alla mia; per questo oso chiederti di «amare coloro che mi hai dato come hai amato me stessa». Un giorno, in Cielo, se io scoprirò che tu li ami più di me, me ne rallegrerò riconoscen­do fin da ora che quelle anime meritano l'amor tuo ben più della mia; ma quaggiù non posso concepire un'immensità di amore più grande di quello che ti è piaciuto prodigarmi gratui­tamente, senza mio merito alcuno.
337 - Madre mia cara, torno a lei finalmente; sono tutta stupita di ciò che ho scritto, perché non ne avevo l'intenzione, ma poiché è scritto, bisogna che rimanga. Tuttavia, prima di riprendere la storia dei miei fratelli, voglio dirle, Madre mia, che non applico a quelli, bensì alle mie piccole sorelle, le prime parole prese dal Vangelo: «Ho comunicato a loro le parole che tu mi hai comunicato...» perché non mi credo capace di istruire dei missionari, per grazia di Dio non sono ancora abba­stanza orgogliosa per questo! Similmente non sarei stata in gra­do di dare consigli alle mie sorelle, se lei, Madre mia, che mi rappresenta il Signore, non mi avesse dato grazia per questo. Pensavo invece ai suoi cari figli spirituali, i quali sono miei fratelli, quando scrivevo queste parole di Gesù e le altre che seguono: «Non ti prego di toglierli dal mondo... ti prego anche per coloro che crederanno in te attraverso quanto udranno da loro». Come potrei infatti non pregare per le anime che essi salveranno nelle loro missioni lontane con la sofferenza e con la predicazione?
338 - Madre mia, mi sembra di doverle ancora dare qual­che spiegazione riguardo al passo del Cantico dei Cantici: «Attirami, noi correremo», perché ciò che ho voluto dirne mi pare poco comprensibile. «Nessuno, ha detto Gesù, può seguir­mi se il Padre mio che mi ha mandato non l'attira». Dopo, per mezzo di parabole sublimi e spesso anche senza usare di questo mezzo tanto familiare al popolo, egli ci insegna che basta bussare perché ci venga aperto, cercare per trovare, e tendere la mano umilmente per ricevere ciò che chiediamo. Egli dice ancora che quanto chiediamo al Padre in suo nome, egli ce lo concede. Per questo senza dubbio lo Spirito Santo, prima della nascita di Gesù, dettò questa preghiera profetica: «Attirami, noi correremo». Cos'è dunque chiedere di essere attirati se non di unirsi in modo intimo a ciò che capta il cuore? Se il fuoco e il ferro avessero intelligenza, e quest'ultimo dicesse all'altro: attirami, non proverebbe che desidera identificarsi col fuoco, in modo che esso lo compenetri e lo intrida con la sua essenza brucian­te, e sembri diventare tutt'uno con lui? Madre cara, ecco la mia preghiera: chiedo a Gesù di attirarmi nel fuoco del suo amore, di unirmi a lui così strettamente che in me viva e agisca lui. Sento che, quanto più il fuoco dell'amore infiammerà il mio cuore, quanto più dirò: «Attirami», tanto più le anime che si avvicineranno a me (povero piccolo detrito di ferro inutile, se mi allontanassi dalla fornace divina) correranno anch'esse rapidamente all'effiuvio dei profumi del loro Amato, poiché un anima infiammata di amore non sa rimanere inattiva; senza dubbio resta ai piedi di Gesù, come santa Maddalena, ascolta la sua parola dolce e infuocata. Benché sembri non dar nulla, essa dà ben più che Marta, la quale si agita per tante cose e vorrebbe essere imitata dalla sorella. Gesù non biasima affatto il lavoro di Marta, la sua Madre divina per tutta la vita si è sot­tomessa umilmente a questo lavoro, poiché doveva preparare il pasto per la sacra Famiglia. Egli vorrebbe correggere la preoc­cupazione eccessiva 43 della sua ospite ardente. Tutti i santi l'hanno capito; soprattutto, forse, quelli che riempirono l'uni­verso con l'irradiazione della dottrina evangelica. Non è forse dall'orazione che santi come Paolo, Agostino, Giovanni della Croce, Tommaso d'Aquino, Francesco, Domenico, e tanti altri grandi amici di Dio hanno attinto questa scienza divina la qua­le meraviglia i geni più grandi? Un saggio ha detto: «Datemi una leva, un punto d'appoggio, ed io solleverò il mondo». Quello che Archimede non ha potuto ottenere, perché la sua richiesta non si rivolgeva a Dio ed era espressa solo da un pan­to di vista materiale, i Santi l'hanno ottenuto pienamente. L'Onnipotente ha dato loro, come punto d'appoggio, se stesso sé solo; come leva, l'orazione che infiamma di un fuoco d'amore, e così essi hanno sollevato il mondo; così lo sollevano i santi della Chiesa militante, e lo solleveranno ancora i santi futuri, fino alla fine del mondo.
339 - Mia cara Madre, adesso vorrei dirle che cosa inten­do per «effiuvio dei profumi» dell'Amato. Poiché Gesù è sali­to al Cielo, posso seguire solo le tracce che egli ha lasciato, ma sono tracce così luminose, così profumate! Se appena do un'occhiata al santo Vangelo, respiro il profumo della vita di Gesù, e so da quale parte correre... Non mi slancio verso il primo posto, ma verso l'ultimo; invece di farmi avanti insieme col fariseo, ripeto, piena di fiducia, la preghiera umile del pub­blicano, soprattutto seguo l'esempio della Maddalena. La sua audacia stupefacente, o piuttosto amorosa, che incanta il Cuore di Gesù, seduce il mio. Sì, lo sento, anche se avessi sulla coscienza tutti i peccati che si possono commettere, andrei, col cuore spezzato dal pentimento, a gettarmi tra le braccia di Gesù, poiché so quanto egli ami il figliuol prodigo che ritorna a lui. Non perché il Signore, nella sua misericordia prevenien­te, ha preservato la mia anima dal peccato mortale, io m'innal­zo a lui con la fiducia e con l'amore.


EPILOGO
Teresa di Gesù Bambino era già alla fine.

Ai primi di luglio era stata trasferita all'infermeria. Lì aveva scritto a matita le ultime righe del suo Manoscritto C. Con la febbre che la divorava, ma ancor più con un amore che la consumava tutta, aveva concluso il suo quadernetto «d'obbe­dienza», mormorando parole di fuoco sulla carità e sull'abban­dono fiducioso nella misericordia di Dio. Era un po' il suo testamento. Il testamento che la legava alle sorelle e alla Chie­sa. Ché in quei giorni i suoi panorami sembravano allargarsi incredibilmente. I Processi di beatificazione trasmettono espressioni profetiche che hanno dello strano sulla sua bocca. Si tratta di certezze che non ammettono dubbi o discussioni. Teresa parla dei suoi scritti autobiografici come di qualcosa che deve servire a fare amare Dio; accenna a difficoltà che la loro pubblicazione potrebbe incontrare; annuncia con termini chiari una sua missione. il sabato 17 luglio si era lasciata sfuggire: Sento che sto per entrare nel riposo... Ma sento soprattutto che sta per cominciare la mia missione, la mia missione di fare amare il buon Dio come l'amo io, di comunicare la mia piccola via alle anime. Se il buon Dio esaudirà i miei desideri, il mio cielo scorrera' sulla terra sino alla fine del mondo. Si, voglio passare il mio cielo a fare del bene sulla terra. Ciò che non è impossibile, perché gli Angeli, pur restando immersi nella visione beatifica, vegliano su di noi. Non potrò godere del riposo finché ci saranno anime da salvare. Ma quando l'Angelo avrà detto: Il tempo non è più!, allora mi riposerò, potrò gioire, perché il numero degli eletti sarà completo, e tutti saranno entrati nella gioia e nel riposo. Il mio cuore trasalisce a questo pensiero... Erano le idee che la possedevano in pieno in quei giorni. Il 13 luglio aveva scritto al chierico M. Bellière: Oh! fratello mio, come sono felice di morire!... Sono felice di morire, perché sento che questa è la volonta del buon Dio e che, molto più d'ora, potrò essere utile alle anime... Quando il mio caro fratellino partirà per l'Africa, lo seguirò, e non solo col pen­siero... Più che parlargli nel linguaggio della terra, sarò di conti­nuo accanto a lui, vedrò tutto quello che gli è necessario e non darò pace al buon Dio finché non mi avrà dato quanto desidero. Il giorno seguente era al p. Roulland che si rivolgeva: Conto molto di non stare inattiva in cielo, il mio desiderio è di lavorare ancora per la Chiesa e per le anime. E' quello che domando al buon Dio, e sono sicura che egli mi esaudirà. Forse che gli Angeli non si occupano continuamente di noi senza cessa­re mai di contemplare il volto di Dio, di perdersi nell'oceano senza rive dell'Amore? Perché Gesù non mi dovrebbe permette­re d'imitarli?... Ciò che mi attira verso la patria dei cieli, è la chiamata del Signore, è la speranza di amarlo finalmente come ho tanto desiderato e il pensiero che potrò farlo amare da una moltitudine di anime che lo benediranno in eterno. Mentre queste speranze sbocciano nel suo spirito, Teresa è immersa nella notte più oscura. Dalla Pasqua del 1896 la sua fede è sottoposta alle tentazioni più violente. È una specie di agonia, ben più terribile di quella fisica, che l'accompagnerà fino alla morte. Anche se esternamente pare nella letizia, se le sue poesie e le sue lettere paiono riflettere la gioia di una creatu­ra per la quale il velo della fede già si è squarciato, essa è in un “tunnel” di tenebra, senza un raggio di luce. Colpita della condizione dei fratelli senza fede, perché essi potessero giungere alla luce dell'incontro con Cristo, aveva pregato il Signore di essere ammessa «alla tavola dei peccatori». Il Signore l'aveva presa in parola, e le sue ultime settitnane più che mai diventaro­no una laboriosa ricerca di Dio nell'oscurità e nelle tenebre, un cantare ciò che voleva credere, un abbandonarsi generoso a Colui che si nascondeva per farsi cercare di più. Da lei e, con lei, da tante creature che essa fratemamente portava nel suo cuore. Nell'agosto, mentre il suo corpo andava consumandosi, le sfuggì una confessione che ha del tragico. Sapeste quali pensieri spaventosi m'ossessionano! Va impo­nendosi al mio spirito il ragionamento dei peggiori materialisti. Più tardi, in virtù dei nuovi continui progressi, la scienza spie­gherà tutto naturalmente, si darà una ragione di evidenza a tutto quello che esiste e che ancora costituisce problema. Quante cose infatti sono ancora da scoprire! ecc. Io sogno di fare del bene dopo la mia morte, ma non lo potrò fare!... Avere simili pensieri quando si ama tanto il buon Dio! In fin dei conti offro tutto questo per ottenere la luce della fede ai poveri increduli! Ma è proprio il 10 agosto che, dopo aver contemplato una immagine di Giovanna d'Arco prigioniera, esclama: I santi incoraggiano anche me nella mia prigione. Mi dico­no: Fino a quando sei nei ceppi, non puoi assolvere la tua mis­sione; ma più tardi, dopo la tua morte, verrà il tempo delle tue conquiste. Comunque, anche legata al letto, ancor «prigioniera», già si dava apostolicamente con un fervore commovente. Se, anco­ra in piedi, nonostante la spossatezza, si trascinava ogni giorno nella «passeggiata» impostale dall'obbedienza, «camminando per un missionario», ora, convinta dell'inutilità delle medicine, continua ugualmente a prenderle, «per un missionario che non ha possibilità di procurarsele»; per le anime offre tutto quello che ha, anche se questo la porterà a presentarsi a Dio «a mani vuote»; per un suo confratello che ha lasciato l'Ordine e per­corre la Francia seminando l'errore, prega, soffre e offre la sua ultima comunione il 17 agosto, festa di San Giacinto e onoma­stico del povero ex padre Loyson. E si abbandona, come dice a suor Maria del Sacro Cuore, a progetti, relativi alle grandi cose che farà in Cielo... Tornare sulla terra, recarsi lontano per aiutare i missionari, fare il possibile perché i bambini non muoiano senza il battesimo. Alla madre Maria di Gonzaga confida: Non mi rimane nulla in mano. Tutto quello che ho, tutto quello che gua­dagno è per la Chiesa e per le anime. E non teme di affermare che vuole acquistare meriti. Ma soggiunge subito: Si. Però non per me. Per i poveri peccatori, per le necessità di tutta la Chiesa, infine per gettare fiori a tutto il mondo, a giusti e peccatori. Pensa soprattutto ai fratelli senza fede, a quelli alla cui «mensa» aveva voluto sedere per portarli a Dio. E nelle ore angosciose, ossessionata da pensieri che vorrebbero strapparle nella fede il suo più grande tesoro, esclama: Offro tutte queste pene molto grandi per ottenere la luce della fede ai poveri incre­duli, per tutti coloro che s'allontanano dalla fede della Chiesa. Intanto la malattia progredisce. Se il 5 agosto cessano le emottisi violente che la tormentano dal 6 luglio, la tisi va facendo passi molto grandi. Di tanto in tanto la morte sembra imminente. Teresa, la quale confessa candidamente di non capire nulla della sua malattia, si abbandona tranquillamente. Atten­de che giunga il «ladro», un ladro di cui non ha affatto paura. «Il ladro è alla porta, le si dice; ne ha timore?». Per nulla, risponde. Non è alla porta, ma già dentro. Ma cos'è che lei chie­de, Madre? Se ho paura del ladro? Come vuole che abbia paura di uno che amo tanto! Ma il ladro gioca, pare. Teresa non se ne preoccupa: Non desidero di morire più che di vivere: amo quello che Egli fa. Tuttavia le sofferenze vanno aumentando. Le notti si fanno lunghe e insonni, piene di sofferenze e di incubi. Di giorno l'oppressione, resa più pesante dal calore, le toglie il respiro. Non ne può più. Anche il lento e sommesso salmodiare delle sorelle le è un martirio. I nervi non reggono. Scongiura perché si preghi per lei: Sapeste che cosa avvie­ne. Quanto poco basterebbe per perdere la pazienza... Non lo avrei mai creduto! Una espressione che richiama quella dell'11 agosto: Non avrei mai immaginato di soffrire tanto. Le sfuggono dei piccoli gridi involontari di sofferenza. Sembra soffocare. Ha l'impressione di essere distesa su delle punte dolorose. Non si sa, le sfugge, cosa significhi soffrire in tal modo. E avverte «di non lasciare a sua disposizione delle medi­cine velenose per uso esterno, consigliando di non lasciarne mai a portata di malati che soffrirebbero fino a perder la ragio­ne». Sarà quello che ripeterà ancora a tre giorni dalla morte a suor Maria della Trinità: Ah! se non avessi la fede, non potrei mai sopportare tante sofferenze. Mi meraviglio che tra coloro che non hanno fede non siano più numerosi quelli che si suicidano. Tuttavia è felice di soffrire. Non si pente di essersi consa­crata all'amore. Vuole vivere fino in fondo la sua grazia di sof­ferente. Ed è perfino lieta d'una giocondità contagiosa. Suor Maria dell'Eucaristia lo rivela ripetutamente nei biglietti che scrive al padre, il Sig. Guérin, dandogli il resoconto della malattia di Teresa. «Ha sempre pronta la parola per far ride­re... Se vedessi la nostra cara malatina, non potresti ritenerti dal ridere; bisogna che dica sempre qualcosa d'allegro. Dal momento che si è vista sicura di morire, è gaia quanto un frin­guello. Ci sono dei momenti nei quali si pagherebbe il posto per esserle accanto... Quanto al morale, è sempre la stessa cosa, la stessa allegria, facendo ridere tutti coloro che l'avvici­nano...». Dove la sorente, la vena nascosta di tanta letizia in mezzo a tanti dolori? E’ contenta solo della volontà di Dio, dirà alla fine d'agosto: Sono contenta di soffrire perché il buon Dio lo vuole. Avvicinandosi la fine, il suo cuore si dilata. La sofferenza aumenta, ma aumentano anche il realismo e la coerenza con cui l'accetta. Che cos'è scrivere belle cose sul­la sofferenza? Nulla, nulla! Bisogna esserci per sapere!... Volevo soffrire per il Signore, ed è vero che lo desidero. E insieme riconosce che tutta la forza le viene da Dio. Cosa diverrei se d Signore misericordioso non mi desse energia?... Oh! come deve essere buono il Signore, perché io riesca a soppor­tare tutto quello che soffro! Si sente il bambino al quale il Padre dà momento per momento quel poco che può sopportare. E ritorna di frequente a questo riferimento al bambino, tanto che madre Agnese le chiede in agosto il significato dell'immagine. E Teresa: Restare piccolo è riconoscere il proprio nulla, è attendere tutto dal buon Dio, è non inquietarsi a dismisura delle proprie colpe. Infine non è guadagnare fortuna, non inquietarsi di nulla. Anche presso i poveri, finché il bimbo è piccolo, gli si da' quanto è necessario. Ma appena diventa grande, suo padre non vuole più mantenerlo, e gli dice: «Adesso lavora! Puoi bastare a te stesso». Proprio per non sentire questo non ho mai voluto cresce­re. Non mi sento capace di guadagnarmi la vita, la vita eterna. Fin dal 21 settembre Teresa avverte d'essere in una spe­cie di agonia continua. Il 29 ci sarà il crollo. A mezzogiorno, rivolgendosi alla Priora, le dirà: Madre mia, è l'agonia? Come farò a morire? Non saprò mai morire! E dopo la visita del dot­tore chiederà ancora: E oggi?, manifestando la sua felicità alla risposta affermativa. Tuttavia il dolore la strazierà fino alla fine. Non ne posso più. Pregate per me. Se sapeste! Dopo Mat­tutino, di fronte al protrarsi delle sofferenze in aumento, gemerà: Sì, mio Dio, sì.. voglio proprio tutto. 30 settembre Teresa l'inaugurò con un pensiero alla Ver­gine. Per tutti quei mesi di martirio, aveva intensificato la sua unione contemplativa con la Madonna. Lo sguardo continuamente si era soffermato sulla statua del «Sorriso», trasferita in infermeria il giorno stesso nel quale vi era scesa Teresa. E a lei che si appoggia nell'ora grande. Come Gesù sulla Croce, guarda alla Madre. E da lei invoca la grazia di prepararla all'incontro con Dio. Nelle lunghe ore nelle quali va spegnendosi, dalle sue labbra escono espressioni che rivelano il suo stato, che dicono tutto il suo abbandono fedele al Signore. Il calice, è pieno fino all'orlo! Dio mio, sì, tutto quello che vuoi. Ma abbi pietà di me. Dio mio, Dio mio, voi siete tanto buono!... Oh, sì, voi siete buono, io lo so. Verso le tre del pomeriggio, Teresa mise le braccia in cro­ce. Madre Maria di Gonzaga le posò sulle ginocchia un'imma­gine della Madonna del Carmelo del Van Oer. La guardò un istante, e poi: Madre mia, mi presenti subito alla Vergine Santa. Mi pre­pari a ben morire. La Priora le rispose che, avendo sempre capito e pratica­to l'umiltà, la preparazione era fatta. Teresa, riflettuto un atti­mo, uscì umilmente nell'asserzione: Si, mi pare di avere sempre cercato solo la verita! Sì, ho capito l'umiltà del cuore. Poi cominciò a farsi più viva la sofferenza. Una sofferen­za dal volto nuovo, tuttavia. Teresa, pur nel martirio più dolo­roso, sembrava illuminata da una gioia profonda, da una forza sovrumana. Fu allora che le sfuggirono le parole: Tutto quello che ho scritto sui miei desideri di soffrire cor­risponde perfettamente alla verità. Non mi pento di essermi offerta all'Amore. Oh, no, non mi pento di essermi offerta all'Amore, anzi...Non avrei mai creduto possibile soffrire tanto! Mai! Mai! Non posso spiegarmelo se non con i desideri ardenti che ho avu­to di salvare le anime.
Ebbene. Avanti, avanti!... Non vorrei soffrire meno. Poi, verso le diciannove e qualche minuto, guardando il Crocifisso, le ultime parole: Oh... l'amo!... Dio mio... Vi amo!... Appena ebbe dette queste parole, Teresa cadde dolcemente indietro, la testa reclinata leggermente a destra. La madre Maria di Gonzaga richiamò in fretta la comunità, allon­tanata qualche istante prima, quando le condizioni dell'infer­ma sembravano stazionarie. E tutte le consorelle furono testi­moni di una espressione di gioia, ammirazione, tranquillità che per lo spazio di un Credo il volto della morente, stranamente tornato al suo colore, sembrò avere, mentre gli occhi erano fis­si verso l'alto, al di sopra della statua della Madonna del Sorri­so. Poi, serenamente diede l'ultimo respiro. Erano le 19,20 circa del 30 settembre 1897. Io non muoio: entro nella vita, aveva scritto il 9 giugno precedente a Maurizio Bellière. Quel giovedì sera Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo entrava veramente nella vita. Aveva inizio «il tempo del­le sue conquiste». Dal cielo cominciava a far scendere la «piog­gia di rose» promessa.


PREGHIERA ALLO SPOSO DIVINO

Teresa la scrisse per sé in occasione della sua professione religio­sa e ne portò l'autografo sul cuore per tutto quel giorno. 8 settembre 1890.

O Gesù, mio Sposo divino! che io non perda mai la seconda veste del mio battesimo! prendimi prima che com­metta la più leggera colpa volontaria. Che io non cerchi e non trovi mai se non te solo, che le creature siano un niente per me e che io sia un niente per loro, ma tu, Gesù, sii tutto! Che le cose della terra non possano mai turbare la mia anima, che niente turbi la mia pace. Gesù, non ti domando che la pace, ed anche l'amore, l'amore infinito senza altro limite che te, l'amore per cui non sia più io, ma te, o Gesù! Gesù, che per te io muoia martire, il martirio del cuore o del corpo, o piuttosto tutti e due! Concedimi di adempiere ai miei voti in tutta la loro perfezione e fammi comprendere ciò che dev'essere una sposa per te. Fa' che io non sia mai di peso alla comunità, ma che nessuno si occupi di me, che io sia con­siderata come qualcosa da calpestare, dimenticata come un gra­nellino di sabbia tuo, o Gesù! Che la tua volontà si compia in me perfettamente, che io raggiunga il posto che tu sei andato avanti a me a prepararmi Gesù, fa' che io salvi molte anime, che oggi neppure una sia dannata e che tutte le anime del purgatorio siano liberate. Gesù, perdonami se dico cose che non si devono dire: io non voglio che rallegrarti e consolarti!



ATTO D'OFFERTA ALL'AMORE MISERICORDIOSO DI DIO'. J.M.J.T.
Offerta di me stessa come vittima d'olocausto all'Amore misericordioso del Buon Dio.

Mio Dio! Trinità beata, desidero amarvi e farvi amare, lavo­rare per la glorificazione della santa Chiesa, salvando le anime che sono sulla terra e liberando quelle che sono nel purgatorio. Desidero compiere perfettamente la vostra volontà e arrivare al grado di gloria che m'avete preparato nel vostro regno. In una parola, desidero essere santa, ma sento la mia impotenza e Vi domando, o mio Dio, di essere voi stesso la mia santità. Poiché mi avete amata fino a darmi il vostro unico Figlio perché fosse il mio salvatore e il mio sposo, i tesori infiniti dei suoi meriti appartengono a me ed io ve li offro con gioia, sup­plicandovi di non guardare a me se non attraverso il volto di Gesù e nel suo cuore bruciante d'amore. Vi offro inoltre tutti i meriti dei Santi (che sono in cielo e sulla terra), i loro atti d'amore e quelli dei santi Angeli; vi offro infine, o beata Trinità, l'amore e i meriti della santa Vergine, mia madre diletta. A lei abbandono la mia offerta e la prego di presentarvela. Il suo Figlio divino, mio sposo diletto, nei giorni della sua vita mortale, ci ha detto «Tutto ciò che domanderete al Padre in nome mio, ve lo darà!». Sono dunque certa che esaudirete i miei desideri; lo so, mio Dio, più volete dare, più fate desiderare. Sento nel mio cuore desideri immensi e vi chiedo con tanta fiducia di venire a prendere possesso della mia anima. Ah! non posso ricevere la santa comunione così spesso come vorrei, ma, Signore, non siete l'Onnipotente?... Restate in me come nel tabernacolo, non allontanatevi mai dalla vostra piccola ostia... Vorrei consolarvi dell'ingratitudine dei cattivi e vi suppli­co di togliermi la libertà di dispiacervi. Se qualche volta cado per mia debolezza, il vostro sguardo divino purifichi subito la mia anima consumando tutte le mie imperfezioni, come il fuo­co che trasforma ogni cosa in se stesso... Vi ringrazio, o mio Dio, di tutte le grazie che m'avete accordato, in particolare di avermi fatta passare attraverso il crogiolo della sofferenza. Sarò felice di vedervi comparire, nel giorno finale, con lo scettro della croce. Poiché vi siete degna­to di darmi come eredità questa croce tanto preziosa, spero di rassomigliare a voi nel cielo e di veder brillare sul mio corpo glorificato le sacre stimmate della vostra passione. Dopo l'esilio della terra, spero di venire a godervi nella patria, ma non voglio ammassare dei meriti per il cielo, voglio lavorare solo per vostro amore, con l'unico scopo di farvi piace­re, di consolare il vostro Sacro Cuore e di salvare anime che vi ameranno eternamente. Alla sera di questa vita, comparirò davanti a voi a mani vuote, perché non vi chiedo, Signore, di contare le mie opere. Tutte le nostre giustizie hanno macchie ai vostri occhi. Voglio perciò rivestirmi della vostra giustizia e ricevere dal vostro amore il possesso eterno di voi stesso. Non voglio altro trono e altra corona che voi, o mio Diletto!... Ai vostri occhi il tempo è nulla. Un giorno solo è come mille anni, e perciò potete prepararmi in un istante a compa­rire davanti a voi... Per vivere in un atto di perfetto amore, mi offro come vitti­ma d'olocausto al vostro amore misericordioso, supplicandovi di consumarmi senza posa, lasciando traboccare nella mia anima i flutti d'infinita tenerezza che sono racchiusi in voi, e così pos­sa diventare martire del vostro amore, o mio Dio!... Che questo martirio, dopo avermi preparata a comparire davanti a voi, mi faccia infine morire e la mia anima si slanci senza alcuna sosta verso l'eterno abbraccio del vostro amore misericordioso... Voglio, o mio Diletto, ad ogni battito del cuore rinnovar­vi questa offerta un numero infinito di volte, fino a che, svani­te le ombre, possa ridirvi il mio amore in un a faccia a faccia eterno!... 

Maria Francesca Teresa del Bambino Gesù e del Volto Santo Gesù! 
rel. carm. md. Festa della Santissima Trinità, il 9 giugno dell'anno di grazia 1895.


VIVO D’AMORE


Alla sera d’Amore, parlando senza parabole, Gesù diceva: “Se qualcuno mi vuole amare per tutta la vita, osservi la mia parola. Mio Padre ed Io verremo a visitarlo. E facendo del suo cuorela nostra dimora, venendo a lui lo ameremo sempre!… Pieno di pace, vogliamo che dimori nel nostro cuore!… Viver d’amore è vivere della tua Vita, Re glorioso, delizia degli Eletti! Tu vivi per me, nascosto nell’ostia… Io voglio per Te nascondermi, o Gesù! Agli amanti occorre solitudine, un cuore a cuore che duri notte e giorno. Solo il Tuo sguardo fa la mia beatitudine. Vivo D’amore! Morire d’amore, ecco la mia speranza. Quando vedrò spezzarsi i miei lacci, il mio Dio sarà la mia Gran Ricompensa: non voglio possedere altri beni. Del suo amore voglio essere infiammata, voglio vederlo, unirmi a Lui per sempre. Ecco il mio cielo… ecco il mio destino. Vivere d’Amore!


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