Gianfranco Ravasi. "Quando accadranno queste cose?"


Partiamo da una domanda iniziale che i discepoli rivolgono a Gesù. Egli, sostando davanti al monumentale tempio gerosolimitano eretto da Erode, aveva annunziato la futura rovina di quell’edificio.

I discepoli, allora, gli avevano chiesto: «Di’ a noi quando accadranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo » (Matteo 24,3). È evidente che, nel loro quesito, essi intrecciano eventi diversi tra loro: la distruzione del tempio da parte dei Romani nel 70, la nuova venuta di Cristo giudice della storia e la fine del mondo. Si concentrano qui alcuni interrogativi che hanno tormentato la Chiesa delle origini e che hanno vari riflessi nel Nuovo Testamento (si leggano, ad esempio, le Lettere di Paolo ai Tessalonicesi o il libro dell’Apocalisse o la Seconda Lettera di Pietro nella finale del cap. 3 e così via).

Queste domande sono usate da Matteo come cornice per il cosiddetto “discorso escatologico”, il quinto e ultimo intervento ampio di Gesù, presente nei capp. 24-25 di quel Vangelo. Il termine “escatologico” è di matrice greca e indica le “realtà ultime”, cioè la fine della storia, ma anche il fine di tutto l’essere. Non si tratta, infatti, di una dissoluzione nel nulla ma di una redenzione, di una salvezza, di una nuova creazione («cielo nuovo e terra nuova», Apocalisse 21,1), comprendente il giudizio divino discriminante tra bene e male (si legga Matteo 25,31-46, una pagina memorabile che vede Cristo protagonista di questo atto ultimo della storia umana).

Il discorso escatologico di Cristo non vuole descrivere i fenomeni fisici o gli eventi terminali che sigleranno la fine del mondo, anche se in apparenza le immagini usate sembrano inclinare in questa linea.

In realtà, si tratta di simboli desunti da una letteratura popolare nel giudaismo di quei secoli, presente anche nella Bibbia col libro di Daniele, e denominata “apocalittica”. Il termine di genesi greca designa una “rivelazione” (si pensi all’Apocalisse di Giovanni): essa ha come meta l’apertura simbolica del sipario sul destino ultimo dell’essere e dell’esistere. Proprio perché essa si affaccia su un ignoto tenebroso, questa letteratura ama segni, visioni, scene che recano impresse sensazioni di terrore o di indecifrabilità.

Cristo ricorre a questo apparato non per elaborare previsioni su quell’evento estremo, bensì per creare tensione e impegno nei confronti del regno di Dio, già inaugurato con la sua venuta ma destinato a raggiungere una meta di pienezza futura, un po’ come aveva fatto balenare nella parabola del granello di senape che cresce fino a diventare un albero (Matteo 13,31-32).
In questa luce si comprende la frase sorprendente che abbiamo ritagliato da quel discorso. A Gesù poco interessa fare oroscopi sulla fine del mondo oppure sugli antefatti storici: essi sono certamente inseriti nel piano salvifico divino.

Egli, invece, nella sua esistenza storica e umana si interessa solo di ciò che riguarda la sua missione, ossia instaurare le basi del regno di Dio, un progetto di salvezza, di liberazione, di amore che fiorirà pienamente in quell’eternità, destinata a subentrare «a quel giorno e a quell’ora» della fine che il Padre celeste ha disegnato nel suo piano generale di creazione e di redenzione. In questa frase di Gesù brilla, quindi, la sua umanità reale e non fittizia.
La divinità, alla quale egli partecipa come Figlio di Dio, sarà invece svelata nella sua risurrezione e nel suo ritorno al Padre.

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