Seguitemi. Vi farò pescatori di uomini. Pecorso esegetico



SFONDO STORICO NEL QUALE S'INNESTANO LE CHIAMATE ALLA SEQUELA DI GESÙ

Gesù svolse la sua azione in una precisa epoca della storia del suo popolo e del mondo. In tale situazione, assunse le idee e i dati di fatto come venivano presentati dal giudaismo del suo tempo, e si servì di essi. Anzi, egli venne proprio in qualità di colui che portava a compimento la storia religiosa d’Israele. Per tale motivo si presentò come un rabbì, cioè un maestro nella legge, raccolse attorno a sé dei discepoli e agganciò il suo messaggio alla fede d’Israele. Ebbene, per stabilire con esattezza quanto vi è di proprio e di originale nel messaggio e nell’azione di Gesù, bisogna prima conoscere ciò che è comune a lui e alla cerchia dei suoi discepoli e ai maestri della legge suoi contemporanei, i dottori e i rabbini del suo tempo e le loro scuole. Solo tenendo presente questo sfondo storico, potrà prendere esatto rilievo il concetto di sequela del Cristo, quale egli stesso l’intendeva.

1. Concetti e idee fondamentali

Ai concetti di «seguire» e di «sequela» corrisponde, nel tardo giudaismo, un doppio significato.
a) C’è innanzi tutto l’idea del seguire, dell’andar dietro, — specialmente degli studenti della Thorà (legge mosaica) al seguito del loro maestro. In Oriente, chi è posto in basso segue chi è collocato più in alto: così la donna va dietro all’uomo, il laico dietro al sacerdote, il povero dietro al ricco, e finalmente il discepolo dietro al suo maestro. Nel tardo giudaismo, il termine che indicava tale comportamento ben visibile nelle suddette situazioni, rimase contratto e circoscritto unicamente alla figura del discepolo che seguiva un particolare dottore della legge, e venne usato per estensione quale termine tecnico indicante lo stato di discepolo.
b ) C’è il significato «tipico» per indicare lo scolaro, il discepolo che apprende la legge. Questa maniera d’intendere venne accolta dalla Chiesa primitiva per designare il rapporto del discepolo di Gesù con il suo Maestro.
Il titolo di dottore della legge suona letteralmente: rabbì; che vuoi dire: «mio grande, mio signore, mio padrone».
Il rabbì rappresentava la massima autorità nel campo dell’insegnamento, ma al tempo stesso costituiva l’esempio che doveva essere imitato da chi voleva vivere in vera conformità alla legge.
A differenza dei maestri occidentali, il rabbì conviveva con i suoi discepoli e andava loro innanzi con l’esempio, dimostrando nella pratica quale fosse l’obbedienza dovuta alla legge di Mosè. Il concetto di «maestro» esprimeva tale comunanza di vita. E questa comunanza di vita costituiva una specie di noviziato nella legge; il concetto di «discepolo» indicava appunto un tal genere di scuola di vita.

2. Che cosa s’intendeva nel giudaismo al tempo di Gesù con i due termini di «discepolo» e di «seguace»

Dopo la distruzione del tempio e della città di Gerusalemme e dopo la deportazione in Babilonia operata da Nabucodonosor nell’anno 587 a. C., la religiosità d’Israele venne a fondarsi di preferenza sulla legge, cioè sulla volontà rivelata dal Dio dell’alleanza nei cinque libri di Mosè. Cominciò così a comparire la sinagoga; e, unito a quest’ultima, sorse di solito un edificio per la scuola. Inoltre si formò, accanto al ceto sacerdotale, quello degli esperti nella legge, i dottori delle Sacre Scritture, di cui facevano parte di preferenza elementi laici. Dopo il ritorno dall’esilio, il ceto dei dottori della legge si sviluppò in Israele come un’istituzione stabile.
Secondo la concezione farisaica del tempo di Gesù, la Thorà, o legge mosaica, rappresentava, insieme al tempio, il « cuore » della religiosità israelitica. Entrò a far parte della legge anche la tradizione orale degli «antichi», che riguardava l’interpretazione e l’applicazione delle prescrizioni della legge. Anch’essa venne fatta risalire, nel suo germe, a Mosè. Lo scopo della teologia giudaica consisteva nel sottomettere tutti i campi della vita alla volontà rivelata dal Dio dell’alleanza nella legge di Mosè.
Secondo il concetto degli scribi e farisei al tempo di Gesù, il regno messianico sarebbe giunto improvvisamente quel sabato in cui tutti i membri d’Israele avessero osservato con la più scrupolosa fedeltà la legge mosaica.
Gli scribi e i farisei guardavano con odio e con disprezzo agli strati incolti e miserabili della popolazione giudaica, cui non era possibile lo studio della Thorà: ai loro occhi, infatti, per quelli c’era poca speranza, giacché non conoscevano la legge e quindi nemmeno potevano osservarla.
Nella concezione dei rabbini, inoltre, la cognizione esatta della legge poteva venire conseguita solo con lo studio presso qualcuno dei dottori della legge riconosciuti dall’autorità giudaica (si comprende, così, molto bene la domanda contenuta in Gv 7, 15: «Come fa costui a conoscere le Scritture senza aver avuto un’istruzione?»).
I dottori della legge o rabbini uscivano di preferenza dai ranghi del laicato e consideravano loro fondatore ed esemplare a cui ispirarsi lo scriba Esdra, il quale era venuto a Gerusalemme per incarico dell’imperatore persiano Artaserse II nell’anno 398 a.C.. Esdra riformò religiosamente la comunità ebraica costituitasi dopo l’esilio, e pose a fondamento dei rapporti sociali degli ebrei la legge di Mosè (Esd. 7,1-28; 8,1-36; Neh 8-9; Esd 9,1-10,17).
I rabbini non andavano alla ricerca di discepoli e, a differenza di Gesù, non chiamavano nessuno a far parte della loro scuola. In ogni caso, occuparsi della legge costituiva per ogni autentico israelita il supremo dei suoi doveri. La professione di rabbino venne perciò ad acquistare il rango più elevato fra tutte le attività religiose e umane degli ebrei.
Il discepolo era libero di scegliersi il proprio rabbì, come pure, dopo un certo tempo, gli era data la possibilità di unirsi ad un altro maestro. In ogni caso, il discepolo di un rabbino mirava a diventare a sua volta un dottore della legge.
Ogni rabbino aveva facoltà di accogliere chiunque fra i propri discepoli, come pure poteva rifiutare il candidato qualora lo ritenesse disadatto alla sua scuola. Disadatti e incapaci venivano reputati tutti coloro che presentavano un notevole difetto corporale (tutti i mali erano considerati come castighi mandati da Dio per le colpe personali o per i peccati degli antenati), coloro che non appartenevano alla pura razza giudaica, oppure coloro che esercitavano un mestiere che faceva contrarre impurità legali (per es. macellai, conciatori di pelli, medici), o che comunque venissero giudicati in continuo pericolo di peccare (per es. gli addetti ai dazi e alle gabelle). Le donne poi erano escluse completamente.
Il corso scolastico comprendeva soprattutto tre attività: l’ascoltare, l’imparare e il servire il maestro. Inoltre, il discepolo doveva accompagnare il proprio rabbì dappertutto, specialmente nella sinagoga, nella scuola, nei viaggi e nelle discussioni con altri dottori della legge. Egli aveva l’obbligo di ascoltare attentamente tutto ciò che il maestro diceva, sempre restando a debita distanza da lui, come esigeva la dignità che rivestiva il rabbino.
Il metodo d’insegnamento era costituito da forme proverbiali, da ritornelli mnemonici e da catene di frasi, quali; «Il rabbì NN diceva... Il rabbì XY diceva..., e io dico...». Queste lezioni venivano ribadite da continue ripetizioni, e sviluppate poi mediante il dialogo.
Il discepolo aveva il diritto di fare domande ed era suo compito di imparare possibilmente a memoria, parola per parola, tutto l’insegnamento del maestro allo scopo di poterlo poi tramandare o anche maggiormente sviluppare quando, a sua volta, sarebbe diventato un rabbì. La didattica delle domande usata dai rabbini e il sistema dialogante dovevano innanzi tutto aiutare ad applicare la legge alla vita quotidiana. In pratica, si trattava quasi esclusivamente di sottoporre ogni campo dell’esistenza del giudeo alla volontà di Dio.
Sull’idea che chi conosce perfettamente la legge, non può non metterla anche in pratica, si fonda un detto capitale del rabbinismo: «È più importante servire la legge (= il dottore della legge) che non studiarla».
Il discepolo del rabbì, divenuto suo servo, metteva i sandali al maestro, gli spianava la strada, conduceva l’asino su cui il maestro montava, lo serviva a tavola e l’accompagnava in tutti i suoi viaggi. Su uno sfondo come questo, l’azione compiuta da Gesù di lavare i piedi ai suoi discepoli (Gv 13) acquista tutto il carattere di un segno (lo stesso impatto, poi, deve averla avuta l’espressione di Gesù riportata in Lc 22, 27: «Io sto in mezzo a voi come colui che serve»).
I discepoli di Gesù mostrarono di seguire la comune usanza, quando trasportarono remando il loro Maestro attraverso il lago (Mc 4,35s.), quando gli diedero aiuto nel distribuire il cibo alla folla affamata (Mc 5,37ss.; 8,6), quando gli procurarono l’asino per il suo solenne ingresso a Gerusalemme (Mc 11,1ss.) e, infine, preparandogli la Pasqua, con il relativo sgozzamento dell’agnello (Mt. 26,17ss.).
Ma, soprattutto, i discepoli di Gesù si dimostravano «discepoli» per il fatto che «camminavano dietro a lui», cioè lo seguivano e lo accompagnavano. Cosi i discepoli di Gesù si recano alla sinagoga insieme col loro Maestro, siedono attorno a lui durante la predica sulla montagna, e specialmente in quella che fu «l’aula scolastica di Gesù», cioè la casa di Pietro.
Essi sono presenti alle dispute con sadducei, farisei e dottori della legge; pongono a Gesù delle domande per meglio intendere il suo insegnamento; Gesù li istruisce e chiede loro di imprimersi bene nella mente le sue istruzioni e di trasmetterle ad altri.
I discepoli di Gesù vengono riconosciuti come facenti parte della sua scuola e tali considerati dai discepoli di Giovanni Battista e di fronte ai farisei e ai dottori della legge.
Il discepolo d’un rabbino, da ultimo, giunto al quarantesimo anno di età, poteva essere ordinato rabbì mediante l’imposizione delle mani da parte d’uno dei rabbini più in vista. Con questa cerimonia gli veniva trasmesso lo spirito di Mosè, allo stesso modo che Mosè aveva fatto per il suo successore Giosuè (Num 27,18-23; Deut 34,9). Il discepolo così ordinato poteva presentarsi a sua volta ufficialmente come un rabbì e raccogliere discepoli attorno a sé.
Al tempo di Gesù tutte queste cose non erano ancora strettamente richieste, e un israelita considerato insignito di qualità profetiche poteva presentarsi in pubblico alla stessa maniera dei rabbini, raccogliendo attorno a sé una cerchia di discepoli. In tali casi, però, le autorità giudaiche esigevano che il profeta legittimasse il suo diritto a essere considerato tale mediante una prova particolare del potere da lui ricevuto. I contemporanei annoverarono tra i rabbini legittimati in questo modo, alla stregua di profeti, anche il Battista e Gesù.
Parecchi rabbini, poi, insegnavano che, dopo la scomparsa dei profeti propriamente detti, il loro spirito fosse passato ai rabbini medesimi. Essi pretendevano, infatti, di annunciare in nome di Dio le volontà da lui collegate all’alleanza e alla salvezza, e di essere incaricati a farle osservare in Israele. I rabbini improntavano perciò decisamente della loro influenza l’intera vita religiosa e sociale degli ebrei di Palestina. In una simile situazione dovevano scoppiare necessariamente forti motivi di contrasto tra Gesù e la categoria dei maestri autorizzati del suo tempo.

STRUTTURA DEL PASSO

Il racconto di Mt 4,18-22 è parallelo a Mc 1,16-20 e concorda sostanzialmente con Luca 5,1-11 che colloca però la chiamata nel contesto della pesca miracolosa. Il racconto di Matteo è introdotto senza agganci con il contesto, l’espressione: "mentre camminava lungo il mare di Galilea", è una formula generale di raccordo. Eppure, nello stesso tempo ha lo scopo di presentare la nuova veste missionaria di Gesù (v. 18). L’evangelista lo coglie mentre si sposta «lungo il mare di Galilea» (cfr. 4, 15). Egli non aspetta come il Battista i visitatori in riva al Giordano, ma va incontro ad essi nel loro impegno quotidiano, cercando di coinvolgere uomini alla sua causa. Non occorre la montagna o il recinto sacro (cfr. Es 3,1; Is 6,1) per inquadrare la chiamata; essa può avvenire ovunque, come Dio non è circoscritto a un luogo o a un altro (Gv 4,21-22).
Nel presentare la vocazione dei primi discepoli, Matteo segue lo schema del genere letterario del racconto di vocazione.
La chiamata dei primi discepoli, così come la troviamo raccontata dai Vangeli, è una trattazione teologica sulla vocazione. Le designazioni di “scena ideale” o di “racconto didattico” non sono improprie. La storia di una vocazione, stando alle confessioni di Geremia, non è così lineare o magica, ma l’autore più che ricostruire i fatti, offre modelli interpretativi del fenomeno vocazionale e punti di confronto per una scelta cristiana.
Queste le caratteristiche dello “schema vocazionale”:

1. Indicazione della situazione: colui che è chiamato viene incontrato nell’esercizio della sua professione (Mc 2,l4a; 1Re 19,19a).
2. Chiamata: effettuata mediante chiamata o azione simbolica (Mc 2,14b; 1Re 19,19b).
3. Sequela: abbandono della professione precedente, dei genitori, ecc. (Mc 2, 14c; 1Re 19,21b).

Due esempi:

La chiamata di Eliseo (1Re 19,19-20):

Partito dì lì, Elia incontrò Eliseo figlio di Safat. Costui arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il decimosecondo.
Elia, passandogli vicino, gli gettò addosso il suo mantello.
Quegli lasciò i buoi e corse dietro a Elia, dicendogli: «Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò». Elia disse: «Va’ e torna, perché sai bene che cosa ho fatto di te».
Il motivo dell’indugio frapposto in 1Re 19,20 (congedo del padre: «Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò») è trascurato nel nostro testo paradigmatico, mentre lo ritroviamo in Mt 8,21 (E un altro dei discepoli gli disse: “Signore, permettimi di andar prima a seppellire mio padre”. Ma Gesù gli rispose: “Seguimi e lascia i morti seppellire i loro morti”) e Lc 9,57-62 (Mentre andavano per la strada, un tale gli disse: “Ti seguirò dovunque tu vada”. Gesù gli rispose: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”. A un altro disse: “Seguimi”. E costui rispose: “Signore, concedimi di andare a seppellire prima mio padre”. Gesù replicò: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu và e annunzia il regno di Dio”. Un altro disse: “Ti seguirò, Signore, ma prima lascia che io mi congedi da quelli di casa”. Ma Gesù gli rispose: “Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio”).

La chiamata di Levi (Mc 2,14):

Nel passare, vide Levi, il figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Egli, alzatosi, lo seguì.
La nostra pericope è costituita da due scene parallele (vv. 18-20 / vv. 21-22), dove la seconda è modellata sulla prima.

ANALISI

Gesù è la figura dominante nell’episodio, il soggetto dei verbi principalivedere, dire, chiamare. Tutto è messo in movimento dalla sua parola autorevole. L’unico verbo, nel testo originale greco, che ha una posizione chiave e che non descrive un’azione di Gesù è seguirono (vv. 20.22), ma presenta la reazione alla chiamata e qualifica il modello della risposta.
Non sono i quattro fratelli che scelgono Gesù, ma è Gesù che li sceglie. Il testo non è per niente interessato alla psicologia dei personaggi, non vengono date neanche le motivazioni della loro pronta obbedienza, si vuol semplicemente far percepire la potenza della chiamata e la pronta risposta dei chiamati.
Questo modello di discepolato non deriva dal modello rabbinico, come si è visto. In Mt 8,19 abbiamo un episodio che riflette appunto la consuetudine del tempo: «Allora uno scriba si avvicinò e gli disse: “Maestro, io ti seguirò dovunque tu andrai”. Gli rispose Gesù: “Le volpi hanno le loro tane…”». Qui invece è Gesù che ha l’iniziativa, che sceglie.

PRIMA SCENA (VV. 18-20)


1. Indicazione della situazione e dei personaggi

L’indicazione lungo il mare di Galilea (v. 18) anticipa il mestiere delle coppie di fratelli, allo stesso modo che in 1Re 19,19 la coppia di buoi simboleggiava il mestiere di Eliseo.
Gesù vide le due coppie di fratelli (1Re 19,19: Elia incontra Eliseo), viene messa in rilievo la sua iniziativa. La vocazione è un invito, ma prima ancora una scelta (chissà perché gli evangelisti accentuano il primo aspetto e dimenticano il secondo…). L’iniziativa ricade esclusivamente su Dio, nel caso particolare su Gesù. Egli è colui che chiama e per il quale si è chiamati. Il primo invito passa attraverso il suo sguardo. L’evangelista sottolinea per due volte «vide» (vv. 18.21). In Giovanni Gesù «vede» Natanaele, prima che Pietro gli parlasse del Messia (1,48). Si tratta di uno sguardo di predilezione. «Fissatolo, lo amò» afferma Marco in un’altra circostanza (10, 21). Gesù va incontro non agli uomini in senso generico, ma a particolari persone designate con il loro nome proprio.
Nella presentazione delle due coppie dì fratelli si attribuisce a Simone un ruolo preminente; lo si nomina per primo e, a differenza degli altri, con il nome impostogli da Gesù: Pietro (16,18). Le coppie sono presentate secondo una gradazione che tiene conto del rango delle persone.
Simone e Andrea sono colti nell’esercizio del loro mestiere (v. 18): gettano in mare la rete (gettare e riparare le reti sono attività che caratterizzano i pescatori): è già anticipato, in qualche modo, il mestiere dei futuri pescatori di uomini.

2. Chiamata

La formula introduttiva: disse loro (v. 19), concentra l’attenzione del lettore sulle parole che Gesù sta per pronunciare (in greco abbiamo un presente: “dice loro”). Egli non chiama, come Elia, per incarico di Dio (1Re 19,16), non chiama mediante un’azione simbolica alla maniera dei profeti (1Re 19,19: Elia getta il suo mantello di profeta su Eliseo), ma mediante la sua parola autorevole, come nell’AT faceva Dio con i profeti (Ger 1,4-10).
L’espressione: "seguitemi", letteralmente "su, dietro di me", mette in evidenza il legame con la persona. Il rapporto rabbi-discepolo veniva generalmente definito come un imparare la Legge (Torah). Qui non è il verbo imparare, ma il verbo seguire a caratterizzare il rapporto Gesù-discepolo. Non esistono nel rabbinismo racconti di vocazione dove lasequela (cfr. 9,9: seguimi) abbia il senso di comunione di vita. Gesù non ha impostato la comunità dei suoi discepoli al modo rabbinico; non ha dato vita a una scuola di apprendimento della Legge, ma a un discepolato in cui il rapporto personale, il legame con lui costituiva l’elemento fondante.
L’adesione a Gesù è espressa con una richiesta assoluta e senza condizioni: seguitemi (su, dietro di me). Gesù agisce con piena autorità così come Dio si comportava nella chiamata dei profeti (cfr. 1Re 19,15-21; 1Sam 16,1ss.).
Alla chiamata, Gesù aggiunge una promessa: i chiamati si trasformeranno al suo seguito da pescatori di pesci in pescatori di uomini, vale a dire in missionari, in apostoli.
L’espressione pescatori di uomini, che chiaramente si richiama al precedente mestiere dei chiamati, potrebbe essere stata pensata da Gesù in contrapposizione a Ger 16,16-18 («Ecco, io invierò numerosi pescatori - dice il Signore - che li pescheranno; quindi invierò numerosi cacciatori che daranno loro la caccia su ogni monte, su ogni colle e nelle fessure delle rocce… Innanzi tutto ripagherò due volte la loro iniquità e il loro peccato…»). Ma in Geremia abbiamo un invio che ha carattere di condanna, qui invece i discepoli non sono inviati per condannare ma per portare il dono della salvezza.
Può darsi, invece, che Gesù abbia attinto quest’espressione dall’ambiente che gli si presentava agli occhi e l’abbia trasferita ai suoi uditori, per indicare il nuovo genere di lavoro che saranno invitati a compiere, lavoro che non comporta meno sforzo e meno delusioni del precedente (cfr. Lc 5,5: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola…»). La metafora sottolinea che gli uomini sono sfuggenti come i pesci, ma c’è un modo per “catturarli”: non arrendersi.
La promessa è formulata al futuro (vi farò): la vocazione e la missionenon avvengono nello stesso momento, la missione si sviluppa solo dal discepolato, dalla consuetudine di vita con Gesù.
E qua il pensiero va subito a Marco 3,13-15: «Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demòni».

3. Sequela

La risposta dei chiamati viene presentata come esemplare e immediata:subito (v. 20). Essi abbandonano immediatamente il loro mestiere, la loro vecchia vita. Per la prima coppia di fratelli si mette in rilievo la rinuncia al mestiere (lasciate le reti).


SECONDA SCENA (VV. 21-22)



1. Indicazione della situazione e dei personaggi

Nella seconda scena (vv. 21-22) resta presupposta la stessa localizzazione della prima: andando oltre, vide altri due fratelli. Anche qui abbiamo lo sguardo “che elegge” di Gesù. Giacomo si distingue perché è nominato per primo e con il patronimico figlio di Zebedeo (per distinguerlo da altre persone che potevano portare lo stesso nome?). Si sottolinea così che si tratta di una chiamata personale, individuale. Anche la seconda coppia viene caratterizzata come una coppia di pescatori; essi stanno riparando le reti. La frase riguardante i pescatori di uomini vale anche per loro.

2. Chiamata

La chiamata di Gesù nella seconda scena è riferita in discorso indiretto; il testo più breve presuppone quello della scena precedente. Ai figli di Zebedeo, Gesù non fa nessuna proposta: si “accontenta” di «chiamarli» (ekalesen: v. 21), ma è evidente che li chiama per la stessa causa. Il verbo “kaleò” ha il senso di chiamata alla salvezza, in questo caso alla sequela di Cristo.

3. Sequela

Giacomo e Giovanni, alla chiamata di Gesù, abbandonano il padre nella barca (v. 22), in questa seconda coppia si mette in rilievo la posposizione dei legami familiari (il padre; cfr. 1Re 19,20). La sequela si attua nel porsi al seguito dì Gesù (lo seguirono).
L’invito di Gesù è perentorio, la risposta deve essere immediata: per due volte Matteo ripete «subito» (vv. 20.22). È in entrambi i casi un distacco totale dalla vita, dalle attività, dal mondo precedente. Lasciare le reti (il mestiere) è meno che lasciare il padre (la famiglia), ma sono richiesti entrambi. Il prezzo della sequela è alto e il rischio estremo; l’unico conforto e l’unica sicurezza è la parola di Gesù. Il discorso dà l’impressione che la chiamata sia un ripiegamento verso Cristo; è invece un incamminarsi con lui, al suo fianco o al suo seguito verso i propri simili. È un servizio reso agli uomini su una linea di sacrificio e di abnegazione senza limiti. Gesù potendo essere ricco si è fatto povero per gli altri (2 Cor 8,9) e al posto di passare in mezzo ai propri simili da signore ha preferito esser il loro servo (Fil 2,5-9). Il cristiano è colui che porta la croce come il suo maestro (Mt 10,38; 16,24), ma non per fare un piacere a Dio, bensì per far valere il bene, i diritti dell’uomo. Per una tale missione non è che Dio chiami alcuni (gli apostoli) e trascuri gli altri, ma chiede il massimo a tutti (cfr. Mt 19,21:“Se vuoi essere perfetto, và, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi”). L’attuazione del regno di Dio (che è il contesto della felicità dell’uomo) deve avere la precedenza su tutto.
L’abbinamento della chiamata (Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni) ha forse lo scopo di sottolineare che non si va incontro a un isolamento, ma alla realizzazione di una nuova famiglia (la comunità dei discepoli di Cristo). Fin dall’inizio della vita pubblica del Messia i discepoli costituiscono la «famiglia» di Gesù e sono esortati a sentirsi «fratelli» tra di loro. Essi sono i suoi «amici».
Prima della Pasqua la sequela di Gesù si attua in senso concreto, reale; dopo la Pasqua nel seguire Gesù nella sua comunità, al servizio della sua causa.

DATI STORICI CHE EMERGONO DA QUESTO DOPPIO RACCONTO DI VOCAZIONE


• Innanzitutto il fatto della chiamata da parte di Gesù; non sono stati Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni a scegliersi il maestro come facevano i discepoli dei rabbini, ma è stato Gesù a sceglierli e chiamarli. La sua autorità e il rigore della chiamata sono caratteristici di Gesù.

• Il profilo carismatico di Gesù, ciò che univa i discepoli a Gesù non era la Legge né il suo studio, ma lo stesso Gesù e il suo messaggio.
• Il senso missionario della chiamata: la sequela dei discepoli è finalizzata all’annuncio del regno dì Dio, alla missione.
• Il mestiere precedente delle due coppie di fratelli. Simone è originario di Cafarnao o di Betsaida, in ogni caso nei pressi del lago di Galilea. E quindi del tutto probabile che esercitasse il mestiere di pescatore.
• Il rango e l’importanza dei discepoli nominati in precisa successione. Il ruolo dominante di Simone (Pietro) ci è noto dalla tradizione sinottica e da Paolo; nelle liste Pietro compare regolarmente al primo posto. Andrea ha un ruolo subordinato; Giacomo ricorre regolarmente prima di Giovanni, che assume un rilievo maggiore solo nella tradizione di Luca.

SCOPI CHE MATTEO SI PREFIGGE


• presentare alla comunità cristiana queste coppie di fratelli come modelli esemplari di sequela;
• indicare il fondamento dell’attività missionaria delle due coppie di fratelli.
• mostrare che questi quattro discepoli (e non altri) sono testimoni dell’agire di Gesù fin dall’inizio; tre di essi (Pietro, Giacomo e Giovanni) assisteranno anche ad altri avvenimenti importanti e riservati: la trasfigurazione (17,1) e la scena del Getsemani (26,37).

ATTUALIZZAZIONE

Questi due racconti di vocazione illustrano che cosa significhidiscepolato. Il discepolato si basa sulla chiamata di Gesù, le parole del quarto evangelista: «non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15,16) vanno al cuore della questione. La «chiamata» prende tutto il suo valore e la sua forza dall’autorità di colui che chiama. Gesù non da alcuna motivazione o spiegazione, non chiede e non tenta di convincere, basta la sua parola sovrana e la sua chiamata si aspetta un’obbedienza senza riserve. I chiamati non indugiano, si staccano dai legami e dalle sicurezze che sostengono la vita: famiglia, amici, lavoro.
Sequela significa comunione di vita con Gesù. La comunità cristiana di oggi ha bisogno di questo sguardo retrospettivo verso gli inizi storici per imparare da allora. Per sfuggire al pericolo di una fede individuale e spiritualistica può essere utile tenere presente che la vocazione cristiana chiama a una vita comune, la vocazione a coppie vuole sottolineare proprio questa idea.
La sequela di Cristo ha infine un obiettivo preciso: la missione. Gesù unisce la chiamata alla missione: Vi farò pescatori di uomini. Ogni cristiano è chiamato alla sequela di Gesù e nello stesso tempo al servizio missionario. Non è questione di scelta, ma di obbedienza!

BIBLIOGRAFIA


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• BOSCOLO GastoneVangelo secondo Matteo, Collana DABR: lectio divina popolare, ed. Messaggero, Padova, pp. 63-70.
• ORTENSIO DA SPINETOLIMatteo, ed. Cittadella, pp. 125-127.
• PENNA RomanoRitratti originali di Gesù Cristo. Vol. I: gli inizi, ed. Paoline, pp.45-57.
• MARCHESI GiovanniIl discepolato di Gesù: vocazione, sequela, missione, in Civiltà Cattolica, n.3, luglio 1992, pp. 131-144.

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