Card. Georges Cottier. Hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli

Alcuni interventi recenti di Benedetto XVI hanno offerto spunti di riflessione interessanti e originali su una realtà ben riconosciuta dalla dottrina tradizionale della Chiesa: quella del sensus fidei del popolo di Dio. Mi ha colpito, in particolare, l’accenno contenuto nella catechesi del 7 luglio, dedicata al beato Giovanni Duns Scoto. In quell’occasione, parlando intorno alla fede nell’Immacolata Concezione di Maria, il Papa ha detto chiaramente che tale fede «era già presente nel popolo di Dio, mentre la teologia non aveva ancora trovato la chiave per interpretarla nella totalità della dottrina della fede. Quindi il popolo di Dio precede i teologi e tutto questo grazie a quel soprannaturale sensus fidei, cioè a quella capacità infusa dallo Spirito Santo, che abilita ad abbracciare la realtà della fede, con l’umiltà del cuore e della mente. In questo senso», ha fatto notare il Papa, «il popolo di Dio è “magistero che precede”, e che poi deve essere approfondito e intellettualmente accolto dalla teologia». 

L’immagine del “magistero che precede”, riferita al sensus fidei del popolo di Dio, mi sembra suggerire un criterio efficace per cogliere in maniera chiara il rapporto che esso ha con il magistero ecclesiale e la teologia. 
La costituzione conciliare Lumen gentium, al n. 12, così definisce il sensus fidei: «La totalità dei fedeli, avendo l’unzione che viene dal Santo (cfr. 1Gv 2, 20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando “dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici” mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale». 

La fede in quanto tale non erra. Essa è una virtù teologale, quindi è un dono soprannaturale di Dio, e chi la riceve partecipa a suo modo alla dote profetica di Cristo. La sorgente di tale infallibilità è lo stesso Spirito Santo, che ispira e muove quell’approccio intuitivo ai misteri col quale il popolo di Dio consente alla verità rivelata e sa anche discernere il vero dal falso. Tale dinamica è stata descritta con parole suggestive dal cardinale Charles Journet nella sua opera Le message révélé del 1963, a partire da una citazione di san Tommaso: «“La luce della fede”, dice san Tommaso, “fa vedere le cose che sono credute…; l’habitus della fede inclina, in effetti, lo spirito dell’uomo ad assentire alle cose della vera fede, non alle altre”. C’è una proporzione, un adattamento segreto, una connaturalità fra la virtù di fede che vive nell’anima del cristiano e i dati da credere che gli sono presentati dalla rivelazione: da una parte e dall’altra, in effetti, è lo stesso Spirito che agisce: qui mediante la luce profetica, lì per la luce santificante. Di qui l’inclinazione spontanea del fedele a consentire alla verità rivelata. Questa inclinazione si intensifica quando la fede è amorosa, quando è resa penetrante e intuitiva e come divinatrice grazie ai doni dello Spirito Santo. Essa entra allora nelle profondità, essa pre-sente, essa suggerisce con istinto sicuro quello che trovandosi ancora implicito e nascosto è pronto a fiorire e a manifestarsi». 

Ovviamente il sensus fidei non va identificato con l’opinione comune della maggioranza, non si definisce in base alle statistiche dei sondaggi. Nella storia della Chiesa è accaduto che in certi contesti il sensus fidei sia stato manifestato da individualità isolate, singoli santi, mentre l’opinione comune si accodava a dottrine non conformi alla fede apostolica. Così avvenne quando sotto l’influsso del giansenismo si insisteva sulla severità del giudizio di Dio, a scapito della sua misericordia. 

Nello stesso saggio, Journet descrive anche la relazione esistente tra il sensus fidei e il magistero della Chiesa. Le due realtà – spiega Journet – vanno distinte: la prima «non è né un insegnamento né un magistero, ma solamente la persuasione sperimentale di una verità». E se da un lato la fede, in quanto dono dello Spirito, non può errare, dall’altro lato «il fedele, sia pur in stato di grazia, sia pur fervente, può errare, mescolare alla sua fede dei dati o dei sentimenti estranei. A meno di essere illuminato come lo erano gli apostoli, ha bisogno di essere aiutato, diretto, giudicato dal magistero divinamente assistito». In questa prospettiva il magistero dei vescovi riuniti intorno al successore di Pietro ha il compito di discernere e confermare ciò che viene presentito, indicato e anticipato dal sensus fidei. Quando esercitano tale funzione, il papa e i vescovi attestano soltanto che una verità percepita e accolta dal sensus fidelium può effettivamente essere riconosciuta e accolta come lo sviluppo di un dato già contenuto nel depositum fidei, il deposito della fede. Tale dinamica, come accennava Benedetto XVI nella sua catechesi su Duns Scoto, ha avuto una manifestazione esemplare nella definizione dei dogmi mariani dell’Immacolata Concezione e dell’Assunzione di Maria. Quegli articoli della fede apostolica sono stati definiti preminentemente sulla base del sensus fidelium. La devozione popolare verso il concepimento immacolato di Maria riconosceva già l’apostolicità di tale dottrina ben prima che essa fosse dogmaticamente definita. Con tali definizioni dogmatiche, i papi non intendevano certo inventare o aggiungere qualche nuova teoria teologica, ma soltanto riconoscere quello che era già nel cuore della Chiesa. 

In tale prospettiva risultano ancora stimolanti molte delle pagine scritte dal beato John Henry Newman nel suo celebre articolo apparso sulla rivista The Rambler nel luglio 1859 sulla consultazione dei fedeli in materia di dottrina, ripubblicato in Italia dalla casa editrice Morcelliana nel 1991. Newman scrisse quel saggio per rispondere agli attacchi di «certe anime candide» rimaste scandalizzate da un articolo apparso in precedenza sulla stessa rivista, nel quale si accennava al fatto che per la preparazione della definizione dogmatica sull’Immacolata Concezione erano stati consultati i fedeli. Le argomentazioni espresse da Newman in quell’occasione rappresentano ancora un attualissimo concentrato di argomenti storici e dottrinali tesi a documentare la natura del sensus fidelium come instrumentum traditionis

Secondo Newman «la tradizione della Chiesa, affidata 
per modum unius a tutta la Chiesa nelle sue varie componenti e funzioni, si manifesta diversamente a seconda dei tempi: talvolta per bocca dell’episcopato, altre attraverso i dottori, altre ancora attraverso il popolo, le liturgie, i riti, le cerimonie, le dispute e tutti quegli eventi che vanno sotto il nome di “storia”. Ne segue che nessuno dei canali di quella tradizione può essere trascurato, pur ammettendo senza riserve che il dono di discernere, di discriminare, di definire e di promulgare una parte della tradizione risiede soltanto nella Ecclesia docens». A riprova del ruolo decisivo svolto dal sensus fidelium nella vita e nella storia della Chiesa, Newman ripercorre la vicenda emblematica della crisi ariana: «Non è privo di significato il fatto che, anche storicamente parlando, il IV secolo sia stata un’epoca di grandi dottori, quali i santi Atanasio, Ilario, i due Gregorio, Basilio, Crisostomo, Ambrogio, Agostino, con l’aggiunta che tutti costoro, con l’eccezione di uno soltanto, erano anche dei vescovi. Tuttavia, proprio in quel periodo la divina tradizione affidata alla Chiesa infallibile fu proclamata e difesa molto più dal popolo di Dio che non dall’episcopato. […]. In quel tempo di grande confusione teologica il dogma della divinità di Nostro Signore fu proclamato, difeso e preservato con maggior forza dalla Ecclesia docta che dalla Ecclesia docens; il corpo episcopale non fu all’altezza della sua missione, mentre il corpo dei fedeli rimase fedele al proprio battesimo. […]. Fu proprio il popolo di Dio che, grazie alla Divina Provvidenza, sostenne Atanasio, Ilario, Eusebio di Vercelli e altri grandi e solitari confessori, i quali senza di esso sarebbero stati perdenti». Nella vicenda dell’arianesimo Newman vede «un esempio lampante della situazione della Chiesa in un momento storico nel quale per conoscere la tradizione apostolica fu necessario far ricorso al popolo di Dio», concludendone che «la voce della tradizione può in certi casi manifestarsi non attraverso i Concili, i Padri e i vescovi, bensì attraverso il communis fidelium sensus». 

Ovviamente, tutto questo chiama in causa anche la teologia. Se la ricerca teologica vuole svilupparsi nellaChiesa, a vantaggio di tutta la comunità dei fedeli, ha come inevitabile punto di riferimento il sensus fidei, che si manifesta in maniera eminente nella santità. Per questo mi ha colpito il fatto che proprio nell’ultimo discorso rivolto alla Pontificia Commissione teologica il Papa abbia riproposto le figure dei «santi piccoli», citando Bernadette e Teresa di Lisieux come coloro che «hanno conosciuto il mistero» e sono entrate «nel cuore della Sacra Scrittura», mentre talvolta l’essenziale rimane nascosto a una teologia che pure ostenta pretese di scientificità. Già in passato l’allora cardinale Ratzinger aveva ripreso il criterio esposto da san Tommaso d’Aquino secondo cui il fondamento dell’autentica teologia è la «scienza dei santi». Per san Tommaso – così spiegava Ratzinger nel libro Guardare Cristo – la teologia è scientia subalternata, perché «non è essa a vedere e a dimostrare i suoi ultimi fondamenti. Essa è, per così dire, appesa al “sapere dei santi”, alla loro visione. […] Il lavoro dei teologi è in questo senso sempre “secondario”, relativo all’esperienza reale dei santi. Senza questo punto di riferimento, senza questo intimo ancoraggio in simili esperienze essa perde il suo carattere di realtà. Questa è l’umiltà richiesta ai teologi… La teologia diventa un puro gioco intellettuale e perde anche il suo carattere di scienza, senza il realismo dei santi, senza il loro contatto con la realtà che qui è in questione». 

Qualche volta appare con evidenza che nella vita e nell’opera di alcuni santi c’è come un anticipo profetico, una segnalazione anticipata di quello che nel tempo serve alla Chiesa per essere custodita nella fede degli apostoli. I santi, quando sono ancora sulla terra, non hanno la visione beatifica, sono nella fede, ma le grandi intuizioni della fede mossa dalla carità e dai doni dello Spirito Santo fanno sì che essi indovinino, nell’oscurità, le grandi verità che vedremo con piena chiarezza nel cielo. Infatti per san Tommaso i santi sono prima di tutto i beati. Penso ad esempio ad alcuni santi moderni o contemporanei come santa Margherita Maria Alacoque, santa Teresa di Gesù Bambino, santa Faustina o madre Teresa: con la loro intuizione dell’infinita misericordia divina suggeriscono ciò a cui occorre guardare, in questo tempo drammatico anche per la Chiesa. 

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