Charles Péguy: il mistero dei Santi Innocenti (commentato da Cornelio Fabro)


Dolente, anche se rassegnata, tutta pena e proteste, la condanna di Dostojevski contro la prepotenza dei potenti che infierisce sui poveri e soprattutto sui bambini innocenti: l'ultimo Dostojevski è tutta una passione di trasfigurazione nella partecipazione a tanto innocente dolore che sembra sprofondare l'uomo nell'orrore dell'insignificante e dell'inutile. Il martirio dei Santi Innocenti diventa invece per il cattolico Péguy un poema e prodigio di amore[1]. Il martirio per Péguy, come per S. Caterina da Siena, è festa d'amore ed il martirio dei bimbi tenerelli, in braccio alle madri straziate, è tale ma in una cornice ben precisa: la celebrazione della purezza che domina la parte precedente del mirabile poema cristiano. Il tutto nel contesto di una robusta ecclesiologia che poggia sulla divinità del Figlio di Dio e sulla Comunione dei Santi nell'assemblea celestiale dell'Uomo-Dio, preceduto dai Profeti e seguito dai Santi.

Prologo[2] – Gesù predilige i bambini – è il Padre che parla: «È mio figlio che ha detto una volta: sinite parvulos venire ad me,  lasciate che i bambini vengano a me». E il Figlio di Dio l'aveva detto di alcuni bambini che stavano giocando i quali, presa appena la benedizione, lo lasciarono per tornare a giocare. Ma io dico, ma lo si fa dire ad ogni bambino che non ritornerà più a giocare…: «Se non nel mio Paradiso». E qui Péguy, con mirabile fantasia poetica descrive il funerale di un bambino preceduto dalla Croce, le donne piangono ma il celebrante canta il vecchio Salmo di David: Beati immacolati in via  Felici coloro che non si sono macchiati nella via.

L'applicazione ai Santi Innocenti. – Tali sono, passa a dire Péguy, i soli senza macchia, questi disgraziati bambini che i soldati di Erode massacrarono nelle braccia delle madri – O Santi Innocenti voi sarete dunque i soli – Santi Innocenti voi sarete dunque i puri – Santi Innocenti voi sarete dunque i bianchi e senza macchia. – Beati immaculati in viaBeati gli innocentiquelli senza macchia nella via.
Ed ora il cerchio lirico teologico si allarga ed entra Cristo stesso a partecipare alla festa. Leggiamo, infatti: «Ego sum via, veritas et vita. – Io sono la via, la verità e la vita. – O Santi Innocenti non sarà detto che voi sarete e che voi siete i soli innocenti». Ma allora, si chiede Péguy con una luminosa digressione[3], che è di tutti gli altri Santi, di S. Francesco, di S. Luigi re dei Francesi, di tanti altri grandi Martiri e grandi Santi che hanno condotto tutta una vita di santità, che hanno riavuto – se fossero caduti – la bianchezza originaria di tutta la loro prima innocente infanzia: anche un foglio di carta imbrattato può tornare bianco, anche un pezzo di stoffa sporcato può tornare bianco. Ma un foglio smacchiato ed un tessuto ripulito non è né un foglio bianco né un tessuto bianco.
Ed è qui che si annunzia il trionfo e la gloria dei Santi Innocenti: «I più vicini a me saranno questi lattanti bianchi, che non hanno fatto nulla nella vita e nulla hanno fatto dell'esistenza se non di ricevere un buon colpo di sciabola. Intendo assestato nel momento buono», – segue la traduzione del terrificante racconto della venuta dei Magi, della fuga in Egitto e della Strage degli Innocenti – che la liturgia romana legge al Vangelo del 28 dicembre, Festa dei Santi Innocenti.

Il trionfo dei puri nel Giudizio universale vicino all'Agnello. – Infatti, quasi per una illuminazione mistica, Péguy trasferisce subito in cielo l'esito del martirio dei piccoli Innocenti, un esito che sarà il massimo trionfo di Cristo quando col Giudizio farà la chiusura definitiva della storia universale. Ed è ovviamente l'Apocalisse di Giovanni che gli offre quest'ultimo orizzonte escatologico, nel testo che la liturgia romana preconciliare leggeva all'Epistola del medesimo 28 dicembre: la glorificazione dei 144.000 che avevano sulla fronte scritto il Nome dell'Agnello e il Nome del suo Padre[4]. Nel suo commento poetico Péguy mette in rilievo non più lo strazio dell'evento, quanto lo splendore della purezza degli Innocenti:
a) …qui empti sunt de terra ch'egli traduce: «…furono tolti dalla terra»[5] nel senso che la terra non lasciò in loro traccia alcuna di materia, della sua pesantezza, della sua ingratitudine, della sua amarezza, del suo invecchiamento, dei suoi gusti "terrosi"… staccati come fiori col gambo e «seguono l'Agnello dovunque vada».
b) «…Hi empti sunt ex hominibus» = e furono tolti da mezzo degli uomini; «primitiae Deo et Agno» = primizie a Dio e all'Agnello; «et in ore eorum non est inventum mendacium» = e nella loro bocca non fu trovata menzogna». E Péguy commenta fra parentesi: «la menzogna dell'uomo, la menzogna adulta, la menzogna terrestre. La menzogna terrena. La menzogna terrosa».
c) «…sine macula enim sunt ante thronum Dei» – senza macchia infatti essi si trovano davanti al trono di Dio. Il commento non la cede alla più alta poesia teologica: «Questo, dice Dio, è il segreto della tenerezza e della grazia. Che è nell'infanzia stessa, nel punto di origine del bambino. Tale è quest'innocenza, questa bianchezza, questo cominciamento. Tale è questo segreto, questo favore della mia grazia». E mette, stupito anche lui ma non scandalizzato, l'impressione (fra parentesi!): («Questa giustizia ingiustificabile!»). Lungi dall'essere uno scandalo, la morte è per questi Innocenti un privilegio. Infatti, e qui Péguy riprende il versetto 3:
d) «Et cantabant quasi canticum novum ante sedem» che Péguy abbrevia: «nemo poterat dicere canticum» – nessuno poteva dire questo canto. Ed il commento insiste ripetendo: nessuno, nessuno… (nemo = personne). Nessuno: neanche Francesco, neanche San Luigi re, neanche i primi quattro testimoni Matteo, Marco, Luca e Giovanni…, neppure coloro che daranno la vita per la liberazione del S. Sepolcro.Nemo poterat dicere canticum, e fra parentesi il sorprendente ancora mirabile paradossale commento: «Tale è il loro esorbitante privilegio e il grande favore ingiusto – della mia grazia eternamente giusta». E Péguy continua: «non c'è martirio il più inaudito, il più atroce, il più spaventoso… che i credenti di tutti i tempi abbiano sofferto per Cristo… che valga il privilegio dei 140.000 bambini: privilegio eminente, esorbitante, privilegio unico, ingiusto. Giusto. Puramente grazioso, propriamente grazioso». E Péguy continua con una nuova variazione sullo stesso tema terminando con una notazione di tenerezza idillica, il conversare delle madri dei piccini quando ciascuna (come in tutti i paesi) dice: «È il mio il più bello!» E per essere belli, ad essi bastava saper poppare e dormire… quando avevano fame e sonno e di strillare quando volevano strillare: erano queste le loro grandi occupazioni. La conclusione è ormai pronta: «È così che essi trovarono – non solamente il regno di Dio e la vita eterna – ma soli di portarvi scritto sulla loro fronte il mio nome e il nome del mio Figlio e soli di cantarvi un cantico nuovo» (p. 449). La difficoltà degli scandalizzati è capovolta: la loro strage li pone, come la liturgia ha profondamente afferrato, nella posizione del più alto privilegio fra tutti i predestinati.

Le sette ragioni di privilegio degli Innocenti[6]: esse meritano almeno di essere elencate, tanta è la loro bellezza e profondità mistica.
La prima[7], è che essi mi piacciono, dice Dio e questo basti: una ragione che farebbe la gioia di un S. Tommaso d'Aquino[8].
La seconda, è che essi mi piacciono, dice Dio, e questo basti. Tale, aggiunge qui come alla prima, è la gerarchia delle mie grazie.
La terza, è che mi piace così, dice Dio, e questo basti. Ed insiste: «Tale è la gerarchia, tale è l'ordine, tale è l'ordinamento della mia grazia». E col tema della grazia Péguy ha già toccato il fondo del problema.
La quarta ragione è tutta poesia ed innocenza: cioè, dice Dio, essi non hanno nessuna piega alle labbra… nessuna d'ingratitudine e d'amarezza, questa ferita d'invecchiamento, questa piega di memoria che noi vediamo su tutte le labbra.
Con la quinta ragione anche Péguy non può evitare il cuore del dramma che ha tanto turbato gli autori precedenti. Egli non ignora, ma descrive con realismo lo strazio dei corpicini… abbandonati per le strade e considerati meno di agnelli, di capretti, di lattonzoli, abbandonati sul corpo delle loro madri. E qui Péguy entra nel vivo dello «scandalo»: «Durante questo tempo mio Figlio fuggiva (è sempre il Padre che parla). Bisogna dirlo: questo è grave. Furono presi per Lui. Furono massacrati per Lui. Al suo posto, solamente per causa sua, ma per Lui. Al suo posto»[9]. Ed ora, con maggiore rigore teologico: «In sua rappresentanza, per così dire. In sua sostituzione. Essendo come Lui. Essendo quasi altrettanti Lui. In rappresentanza, in sostituzione, al suo posto. Ora tutto questo è grave, dice Dio, tutto questo conta. Essi furono simili al mio Figlio e lo sostituirono…». Ecco l'unica interpretazione teologica che solo un grande poeta cristiano come Péguy ha saputo far scintillare dall'antica liturgia: i piccoli morti per Cristo, conclude Péguy, hanno acquistato così un credito con Dio.
La sesta ragione (di sapore kierkegaardiano)[10] e questo – mi si permetta di confessarlo – mi ha dato una particolare soddisfazione «è ch'essi erano contemporanei del mio Figlio. Della stessa età e nati nello stesso tempo. Proprio in questo stesso punto del tempo del Figlio. E questo ha procurato ad essi un amore specialissimo del Padre così ch'essi ebbero una speciale promozione, non soltanto una promozione di Giudei ma una promozione di uomini (tale era la nuova Legge), la promozione di Gesù Cristo…» compagni [perché martiri innocenti] della sua promozione.
La settima (ed ultima ragione che conclude ed è sulla linea della precedente) è «ch'essi erano simili al mio Figlio». Egli era simile a loro ed il poeta immagina che «i teneri infanti avanzino in schiera sullo stesso fronte di Cristo verso la sponda dell'eternità». Ed il poeta-teologo continua le sue riflessioni mescolando, con volute sempre nuove e più ardite, il mistero della vita di Cristo con il massacro dei piccoli, inermi, ignari martiri innocenti. Péguy, come invasato dalla visione apocalittica del trionfo finale dei suoi prediletti termina, con l'inno, ch'è tutto fulgori, di Prudenzio: «Salvete flores Martyrum  quos, lucis ipso in limine,  Christi insecutor sustulit,  ceu turbo nascentes rosas. E la seconda strofa: Vos prima Christi victima  Grex immolatorum tener,  Aram sub ipsam simplices  Palma et coronis luditis»[11].

La conclusione finale non può essere che la semplicità della gioia più alta: «Tale è il mio paradiso, dice Dio. Il mio paradiso è ciò che c'è di più semplice: un altare, e bimbi che giocano con le loro palme e le loro corone. E la "palma" – è l'ultimo tocco di tanta poesia – serve sempre loro apparentemente da bastoncino».
Così Péguy ha celebrato la gloria del «mistero dei Santi Innocenti» con la glorificazione fatta dalla liturgia cattolica: mistero di fede che arriva però fino alla gloria del Paradiso nelle folgorazioni dell'Apocalisse di Giovanni.
Certamente il mistero del male resta ancora: resta il «mistero dei Santi Innocenti» con tutta la rosa dei misteri, evocata qui dalla teologia lirica di Péguy. E il mistero, nessun mistero quand'è tale ossia quando procede dalla trascendenza di Dio che s'incontra con la finitezza dell'intelletto umano, «divarica» la coscienza come si è detto: o la ragione si rifiuta e cade nell'ateismo cioè nel buio dell'apparente evidenza, e perciò contraddittoria, delle apparenze oppure sale con la fede nell'apertura della Verità incommutabile.
Il teismo, sia pure in vari modi, ha sempre accompagnato l'esercizio della coscienza umana, insidiata dall'ateismo. Le tante difficoltà restano (possiamo ammetterlo, contro una «teodicea» troppo a buon prezzo) se non del tutto nascoste, sempre misteriose soprattutto quando si studiano le convinzioni che l'uomo si è fatto sù Dio fuori della religione biblica. Ma il teismo non è assurdo, non è contraddittorio, non lascia l'uomo in balìa del divenire dei fenomeni e pertanto nell'indifferenza – è questo il momento cruciale per difendere la dignità di ogni uomo da ogni tirannia. Purtroppo la storia insegna che l'uomo preferisce alla libertà la schiavitù, che è la schiavitù del peccato secondo la Bibbia da cui ci ha liberato solo Cristo; è la schiavitù delle tenebre che gli uomini hanno preferito alla liberazione della luce. Ma il figlio di Dio che è il cristiano prega sempre perché «venga il regno di Dio» e che «Dio ci liberi dal male» (Matt. 5, 11 ss.).
Così il mistero dei Santi Innocenti che aveva scandalizzato gli atei A. Camus e Ivan Karamazov[12], come mistero del male invincibile e prova dell'inesistenza di Dio, diventa per il convertito Péguy il segno del trionfo dell'amore di Dio e l'aurora di speranza della nostra salvezza.
(1981)
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[1] Ch. PeguyLa mystère des Saints Innocents, in «Oeuvres Poétiques Complètes», Introduction de François Porché. Chronologie de la vie et de l'euvre par Pierre Péguy, N.R.F., Bibliothèque de la Pléiade, Paris 1948, p. 315 ss., spec. p. 439 ss. La composizione è del 1912 e fu scritta per commemorare il 423º anniversario della liberazione di Orléans ad opera della sua eroina preferita: S. Giovanna d'Arco, a lode della quale egli aveva composto tre anni prima Le mystère de la Charité de Jeanne d'Arc.
[2] Il «mistero dei santi Innocenti» è trattato nella seconda parte del poema. Nella prima parte che serve d'introduzione Péguy presenta le tre virtù teologali, introduce la Imitazione di Cristo (che sarà il nodo centrale nel martirio dei piccoli Innocenti), mette in guardia per la fine del mondo e commenta a lungo il Pater, intercalando l'invocazione: Ave Mariagratia plenaAve MariaMater Dei Salve Regina «…come bianche caravelle adagiate sotto le loro vele a pelo sul mare» (p. 342). La preparazione prossima è l'esposizione della storia di Giuseppe, venduto schiavo in Egitto (p. 385 ss.).
[3] Nella prima parte va notata, fra le altre, un'importante digressione sulla «libertà» a proposito dell'ingratitudine del peccato di cui diamo la tesi teologica centrale: «Tel est le mystère de la liberté de l'homme, dit Dieu, et de mon gouvernement envers lui et envers sa liberté. Si je le soutiens trop, il n'est plus libre et si je ne le soutiens pas assez, il tombe. Si je le soutiens trop, j'expose sa liberté; si je ne soutiens pas assez, j'expose son salut: deux biens en un sens presque également précieux» (p. 352).
L'occasione è di celebrare la santità del re S. Luigi. L'affermazione più profonda è un po' più avanti: «Comme leur liberté a été créée à l'image et à la ressemblance de ma liberté, dit Dieu, comme leur liberté est le reflet de ma liberté, ainsi j'aime à trouver en eux comme une certaine gratuité qui soit comme un reflet de la gratuité de ma grâce, qui soit comme créée à l'image et à la ressemblance de la gratuité de ma grâce».
[4] Apoc. 14, 1-5.
[5] «Qui ont été enlevés de la terre» (p. 445).
[6] Il testo comincia a p. 452.
[7] Corsivo nostro.
[8] «Amor Dei est infundens et creans bonitatem in rebus… unde nihil alio esset melius nisi plus diligeretur a Deo» (sTh. I, q. 20, aa. 2-3).
[9] L'originale ha: «comptant pour lui» (p. 453).
[10] Per Kierkegaard, com'è noto, la contemporaneità con Cristo consiste nella «imitazione» (cfr. spec. Esercizio del Cristianesimo, 1850), ma essa è raggiunta – e si potrebbe dire ad un livello superiore – anche da Péguy come stiamo esponendo.
Cfr. su questo argomento: C. FabroLa partecipazione di S. Gemma Galgani alla Passione di Cristo, nel vol. Mistica e misticismo oggi, Roma 1979, pp. 673-689.
[11] È l'inno di Prudenzio che l'Ufficio della liturgia romana canta alle Lodi. Péguy omette la prima parte.
[12] Cfr. soprattutto A. Camus, L'Homme révolté, Paris, spec. p. 76 ss.


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