Silvano Fausti. La tua fede ti ha salvato


La Parola di Gesù ha il potere di vincere, oltre il mare, anche il
male, la malattia e la morte. La fede in lui ci dà il suo stesso
potere: ci guarisce da ogni male interiore e ci dà una vita nuova
nell’amore, più forte della morte. La fede è “toccare” lui, che è
amore e vita.


Il tema di questa sera è particolarmente importante; prima la
sintesi in quattro parole di tutto il percorso. Che Gesù, totalmente
ignoto, a trent’anni fa una scelta: mettersi in fila coi peccatori e
andar sott’acqua, cioè morire, e poi uscire.
Cioè la sua solidarietà con l’uomo, in tutti i limiti, compresa la
morte; cioè ha scelto di essere Uomo, perché l’uomo ha i limiti e ha
la morte. Vive però quei limiti come luogo di comunione con gli altri;
non di divisione, per questo è il Figlio, perché si fa fratello di tutti.
Poi porta avanti queste cose, nelle varie cose che fa, che
adesso, già le conoscete, non le facciamo, comunque ciò che fa, va
sempre bene, perché sai, finché fa miracoli, è bello; però quando
parla, sbaglia sempre.
Perché fa un miracolo, che fa camminare il paralitico, poi
dice: “Ti perdono i peccati. Ti sono rimessi i peccati”. Ma come?
Questa è una bestemmia! Quindi, quando parla,  quando spiega
sbaglia. Perché? Perché noi cerchiamo i miracoli, Lui invece vuol
fare un’altra cosa: il vero miracolo è quello di liberare l’uomo
interiormente. Non invece fare giochi, spettacoli e allora
praticamente la cosa principale dalla quale ci vuole liberare è la falsa
immagine di Dio, da cui deriva la falsa immagine di uomo, da cui la
falsa immagine della vita.
Diceva il salmo: “Esala lo spirito, l’uomo, e ritorna alla terra;
in quel giorno svaniscono tutti i suoi disegni”. Cioè l’uomo è l’unico
animale che si confronta col limite. Con la morte. E tutto facciamo
per uscire dai nostri limiti.
Anzi, tutta la cultura, in fondo, umana, è il tentativo di
macchina-di-immortalità: tutte le scienze, le tecniche, l’arte, la
musica, la filosofia, la teologia è un tentativo di spiegare o di
rimediare all’unica malattia mortale che è la vita: incurabile e
mortale. Sappiamo d’essere mortali, l’unico animale; mentre
l’animale  -che ha questa coscienza, l’uomo è l’unico animale
mentre gli altri animali, una volta che si sono riprodotti e hanno

mangiato, sono contenti. L’uomo? Molti uomini rimangono a questo
livello, però non sono particolarmente felici, anche se non si
accorgono. Non sono umani; perché l’uomo è quello che si
confronta col limite: perché è troppo grande per bastare a se stesso;
si pone il problema della morte, quindi del senso della vita, dove si
va a finire? Che senso ha la vita, se tutto finisce?
E allora si  fa i grossi interrogativi e si pone il problema del
senso: da dove veniamo, dove andiamo.. questo è il problema di
Dio, in fondo: che senso ha la vita. Se no è insensata, cioè, veniamo
dal nulla e andiamo al nulla. Sembra che dal nulla venga niente, se
non le idee dei filosofi e che al nulla vada il niente, che se no cosa
c’è, c’è, e non ci può non essere, magari si trasforma. Ecco, allora il
problema della fede, che oggi esce in modo molto esplicito, si pone
nel testo che faremo oggi ed è un testo molto bello, esemplare,
protagoniste sono due donne, lo leggiamo e poi entriamo.

Come vedete il testo è molto articolato, comincia con un
racconto di Giairo che va da Gesù, per parlargli di sua figlia, e Gesù
dice: “Beh, vengo” e mentre lo accompagna dalla figlia c’è
un’interruzione, c’è questa donna, nel frattempo muore la figlia, e
allora si continua l’episodio della figlia. È un brano a sandwich, se vi
siete accorti: all’inizio Giairo, alla fine Giairo, lo stesso racconto, con
la soluzione, e in mezzo al panino imbottito, c’è una cosa
interessante, praticamente in queste due donne  – la donna
rappresenta tutta l’umanità, perché noi siamo tutti da donna - e di
queste due donne una ha dodici anni, che è l’età del fidanzamento,
quindi poi diventa sposa, ed è la figlia del capo della sinagoga,
rappresenta tutto il popolo, che ha un unico problema il popolo, il
popolo messianico,  il  popolo della sinagoga, che ha come
comandamento amare Dio con tutto il cuore, è questa la sua vita,
ma Dio non è venuto, Dio chi l’ha visto, e quindi uno muore in età di
fidanzamento, senza avere incontrato lo sposo.  L’uomo ha una

tremenda malattia, è malato di amore, ecco, se non c’è lo sposo, si
muore; ma siccome siamo tutti mortali, lo sposo è Dio, Dio chi l’ha
visto? Si pone il problema, in fondo, che senso ha la morte, che tutti
sperimentiamo, sperimentata a dodici anni sembra più tragica, in
realtà, il padre della  figlia di dodici anni vede se stesso e tutta
l’umanità, perché tutti moriamo, senza aver incontrato lo sposo
della vita.
L’altra donna, invece, è da dodici anni che perde sangue,
invece di dare vita, perde vita; cioè da quando nasciamo  - da
sempre: dodici sono i mesi dell’anno, dodici le tribù - da sempre,
tutti, da quando nasciamo, perdiamo vita e anche generare, vuol
dire generare dei mortali, gente che perde vita; allora che senso ha
la vita?
Allora questi due testi riguardano la fede, che riguarda il
senso di quel che stiamo al mondo: se la morte e la malattia e il
limite, è il regno sovrano sulla terra, allora è inutile star lì a
cacciarsela, oppure facciamo finta con tutti degli accorgimenti, le
tecniche, di rimandare la morte, ma non facciamo altro che renderla
più atroce, oppure vediamo che senso ha la vita di un animale
mortale come noi ed è il problema fondamentale del testo.
Cominciamo a leggerlo, cominciamo a leggere il versetto 21:

E avendo di nuovo Gesù attraversato  (in barca) dall’altra parte, si 
riunì molta folla su di lui, e stava lungo il mare.

Questo versetto dà il contesto di questo brano, e mostra come
quello che avverrà in questo brano, quello che abbiamo appena
ascoltato, di questo incontro con Giairo e poi con la figlia e con
questa donna, nasce da questa iniziativa di Gesù: che attraversa di
nuovo il mare.
Questo la mette in un particolare geografico di raccordo, ma
dice, da un lato, che è Gesù che mette in moto le cose, come dire:
possono andare incontro sia Giairo, sia la donna, a Gesù, perché

Gesù si è già recato da quella parte del lago, è Lui che in un certo
senso, “promuove” questo incontro.
Non solo, questo fatto che non è nuovo, l’abbiamo già
trovato, lo troveremo ancora nel Vangelo di Marco, che si passa
quasi continuamente  da una riva all’altra, come dire: c’è sempre
qualcosa di nuovo, da scoprire, in Gesù., e quindi poi anche in noi;
cioè non si è mai “arrivati”. Nel senso che Gesù non è qualcuno che
conosciamo, che possediamo, come se fosse una nostra proprietà,
perché se  entriamo in questa dinamica ci sfuggirà sempre, siamo
invitati a seguirlo, a seguirlo nei suoi spostamenti, in modo tale da
conoscere sempre di più Lui e da conoscere sempre di più che cosa
ha in serbo per ciascuno di noi; di fatto si dice che quando arriva,
“molta folla” si riunisce.
Ecco e questo attraversare il mare che Gesù fa sempre, poi è
un mare stretto, cioè il lago di Galilea, ma è una metafora un po’
della nostra vita che è sempre una traversata.
E nella traversata dei brani precedenti i discepoli avevano
paura di crepare tutti perché stavano andando a fondo per una
tempesta. Quindi è la nostra situazione, che la vita è tutta una
traversata, siamo su un guscio di legno che può sempre andare a
fondo, basta un po’ di vento, basta un rigurgito e andiamo giù;
comunque se non andiamo giù prima andiamo giù dopo, comunque
la vita è una traversata e non sai neanche dove arrivi, finché è il
laghetto lì, sì, non c’è pericolo ad attraversarlo, quand’è la vita, dove
approdi? E Gesù viene costantemente su questo lago e la folla Gli
cade addosso, e Lui sta lungo il mare, il mare evoca l’Esodo, evoca
appunto la traversata, evoca il cammino che tutti dobbiamo fare e
che Lui compie costantemente, e adesso vediamo cosa avviene.

E viene uno dei capi sinagoga  di nome Giairo, e, vistolo, cade ai 
suoi piedi, 
e lo supplica molto, dicendo: La mia figliola è alla fine: 
che tu venga, imponga su di lei le mani perché sia salva e viva


Il fatto che Gesù giunga a questa riva del lago, consente a
questa persona di venire da Gesù, uno dei capi sinagoga, viene
caratterizzato, diversamente poi dalla donna, che vedremo, è una
donna anonima e che Gesù trarrà da questo anonimato, di questo si
dice che è uno dei capi sinagoga, viene ricordato anche il nome, di
questa persona, quasi a dire: “questa persona qui, con questa storia
qui”, cioè non viene raccontato chissà quale evento edificante, viene
raccontata una questione di vita o di morte all’interno di questa
famiglia.  E va da Gesù, prima ancora di parlare, si dice che Lo vede,
cade ai Suoi piedi,  lo supplica molto, dicendo; è una persona che
prima di dire le parole, comunica già, col suo corpo, quello che sta
vivendo; in un certo senso si fa portatore della situazione della figlia,
prima che con la parola, con la sua stessa persona. Quasi il fatto che
si prostri a terra, al di là di questo cadere ai suoi piedi
dell’invocazione, rappresenta bene anche la situazione che sta
vivendo lui e soprattutto la figlia.
E poi, come capo della sinagoga, rappresenta la sinagoga, i
giudei e ogni uomo, cioè il problema di tutti è che siamo alla fine,
quando uno nasce è già verso la fine. Cioè vederla nel figlio è più
tragica, perché tocca prima al padre, però è questione di tempo,
quindi il fatto che avvenga prima, solo evidenzia il problema. E lo
rende più sofferto ed è il problema che ha tutta la sinagoga, tutti i
giudei e anche tutti gli uomini: siamo alla fine: se non viene “Uno”
per gli Ebrei il Messia, il Signore della Vita, Colui che ci libererà dalla
morte.
Allora perché stiamo al mondo? È un problema universale, al
quale ognuno cerca di dare risposta, la risposta media è che – Ebrei
2,14 - viviamo tutti nella paura della morte, tutto quello che
facciamo lo facciamo per salvarci dalla morte, per cui diventiamo
egoisti, per cui più andiamo avanti nel tentativo di salvarci più
diventiamo egoisti e più crepiamo; tutti ci isoliamo e seminiamo
morte.

È come se, appunto, già da questa introduzione il brano ci
portasse a vedere quello che si diceva prima della fede, come
qualcosa di essenziale da applicare; come dire: non è qualcosa che si
aggiunge, c’è la nostra vita e poi c’è la fede, ma la fede riguarda
esattamente il senso del nostro vivere e quindi poi anche il senso del
nostro morire. Qui appunto Giairo presenta la situazione della
figliola per cui, come dire, c’è qualcosa che non va: perché appunto
vede nella figlia, quello che poi tocca a tutti, lì, potremmo dire, c’è
qualche cosa di ingiusto, ma l’uomo potrebbe dire: “Ingiusta la vita,
perché porta a tutti questa morte”.
È come se vedesse nella figlia anche la propria situazione,
quella che ci è comune. E di fronte a questa situazione, però Giairo si
reca da Gesù, chiedendo che Lui vada dalla figlia a imporre le mani,
che ci sia, che si stabilisca, questo contatto.
C’è sotto proprio la grossa attesa: “Ma che tu venga”. Gli
Ebrei aspettano che venga, chi? È il Signore, che con la sua mano –
la mano è il potere - salvi e viva, non che guarisca, perché guarire è
facile, guarisci, basta una medicina, ma poi muori ancora, magari un
po’ peggio, e che anche un po’ peggio; speriamo che però sia
meglio, dipende,  se tutto va bene. E non solo che sia salva, ma che
viva, non che muoia. Quindi è il problema fondamentale dell’esser
salvi, se c’è salvezza per l’uomo, e se c’è la vita, se no non vale la
pena dell’esser nati.
Mi viene in mente che anche nella prima parte di questo
capitolo 5, quando Gesù guarisce l’indemoniato di Gerasa, in quella
che si chiama la sponda pagana di questo lago, incontra anche lì la
questione della vita e della morte, e anche qui,  come dire, c’è
qualcosa che accomuna, che va al di là della distinzione, potremmo
dire, tra credente e non credente, perché tutti siamo accomunati da
quest’esistenza e dal senso che diamo a quest’esistenza. E c’è questo
Gesù, che percorre questo lago portando vita da una parte e
dall’altra, perché da una parte e dall’altra trova sempre una vita che
si sta perdendo.

E l’indemoniato, per sé, era il non credente  – pagano -
almeno nel Dio della vita  e della risurrezione, e dove stava di casa?
Nel sepolcro! E cosa faceva? Si percuoteva! E aggrediva gli altri. E
urlava. Cioè è praticamente impossibile, vivere nel luogo della
morte; se sai di morire, la parola  “memoria” è parente di morte.
L’uomo è memoria di morte.
L’unico ricordo sicuro. E tutto fa per evitare questo e qui c’era
la promessa, quindi l’attesa “che tu venga”, che sia salva e viva,
però, intanto, sta morendo lo stesso, quindi il problema è di tutti. Il
problema è universale. Che è vero, proiettato nella bambina, è più
efficace, perché è peggio, per il padre che se fosse la sua, la sua è
certa, ma vista così, dice questo è ingiusto, sì, ma poi è uguale,
siamo tutti uguali, cioè, alla vita non c’è rimedio.  “Unicus morbus
mortalis vita”, diceva Seneca. L’unica malattia mortale. Bene,
questo è il problema di fondo, dove ci interroghiamo tutti. E allora
Gesù, cosa fa?

E se ne andò con lui,  e lo seguiva molta folla, e lo schiacciavano.

Così Lui si reca con questa persona: accoglie l’invito di questa
persona, come dire c’è un Signore che attraversa queste situazioni,
che se ne fa carico, che cammina con questa persona, per certi
aspetti condivide il dolore di questa persona. C’è un camminare con
questa persona, prima ancora di fare Gesù condivide la situazione di
questa persona. E  oltre a questa persona, viene richiamata la molta
folla del versetto 21, però si dice “e lo schiacciavano”. Uno dei
termini che ricorre in questo brano, in cui ricorrono
contrapponendosi lo schiacciare e il toccare, dove lo schiacciare
indica un modo di vivere la relazione che, diversamente dal toccare,
che è quello della fede, potremmo dire è quello di rovinare una
relazione, è quasi impadronirsi di una relazione. Che dice sia del
nostro rapporto con il Signore, ma dice anche delle nostre relazioni
interpersonali.
Se notate adesso tutto il testo sarà giocato su questi due atti,
versetto 24 lo schiacciarono, Pietro dice: “Tutti ti schiacciano” e

questa donna parla di toccare due volte e si parla quattro volte di
toccare; il problema è toccare.
Quindi anzitutto cos’è la fede? Non è un’idea, tantomeno è
un’ideologia. Chi crede alle sue idee o è scemo o è pazzo, o tutt’e
due. È toccare.
Toccare è una delle esperienze fondamentali, il tocco è il mio
limite. E il toccare crea comunione. Se tocchi il fuoco bruci, se tocchi
l’acqua ti bagni, se tocchi la vita vivi, se tocchi la morte muori,
quindi il problema è cosa tocchi. E poi oltre il tocco esteriore  che è
la forma  fondamentale  di conoscenza anche del bambino, no? La
conoscenza tattile, la più profonda, c’è l’essere toccati dentro. E poi
toccare è l’unica azione reciproca: se tocco sono anche toccato,
mentre lo schiacciare non è reciproco, se notate: io schiaccio il
piede a lui, ma lui a me non me lo schiaccia. Anche il vedere, non è
reciproco, io posso vederti, o anche tu puoi vedermi, io non ti vedo.
Così anche l’ascoltare. Mentre il toccare è l’unica azione reciproca.
Quindi è interessante. Indica comunione. E noi, nel nostro limite,
sempre, o siamo toccati o schiacciati. O tocchiamo o schiacciamo.
Quindi è tutto nel nostro limite - e il limite ultimo è la morte -
in cui c’è il senso della vita che si tocca, o si è toccati o si è
schiacciati, che è il senso poi di tutta la vita. Andiamo avanti,
vediamo questa donna, allora.

E una donna, che era con flusso di sangue da dodici anni, 
e aveva
patito molto da molti medici,  e aveva dilapidato tutti i suoi averi 
senza alcun giovamento, anzi piuttosto peggiorando,

Interrompiamo qui la frase, perché ci viene descritta, in questi
due versetti, qual è la situazione di questa donna; è una situazione
che, appunto, a prima vista, sembra caratterizzare unicamente
questa donna, poi in realtà questa situazione non è così solitaria,
non è così singolare; è una situazione in cui ognuno si può ritrovare.
Perché questa donna  – si dice - sta perdendo sangue, cioè sta

perdendo la vita, da dodici anni, come dire, sente che viene meno
dentro di sé la vita.
Che tra l’altro invece di dare la vita perde la vita, proprio là
dove dovrebbe darla, e in fondo è quel che capita, perché ogni
donna dà vita a un uomo mortale, da vita alla morte. E perché allora
non va? È in discussione ogni valore, se la vita è fatta così?
E poi, tra l’altro, da un punto di vista scenico, adesso qui dura
per dieci versetti, “mia figlia è alla fine” e poi sappiamo che ha
dodici anni, “vieni”, puoi dire, ma, perché, se è salva e viva? Si
interrompe la scena per – credo - undici versetti, e poi si riprende
“tua figlia è morta”.
Come se, vista con gli occhi di Giairo, questa donna, che
arriva, che di fatto farà fermare Gesù. Io sono venuto con la mia
richiesta, adesso se ne inserisce un’altra, e si ferma, almeno per
Giairo, la soluzione della sua situazione.  Si diventa quasi
concorrenziali, come se salvare la vita a questa donna qui, poi
volesse dire che l’altra perde la vita, quasi che mentre si perde la vita
allora si rischia di farsi la guerra, di salvarsi al posto dell’altro.
La scialuppa è una, basta.
Bisogna scegliere chi salvare.
E tra l’altro  l’accorgimento è molto bello, perché Giairo
vedendo questa donna, vede che cos’è la fede che deve avere anche
lui. Questa donna rappresenta il cammino di fede che Giairo non ha.
Giairo va lì e dice: Questo qui so che fa miracoli, venga, insomma. E
invece questa donna, aveva il flusso di sangue, non poteva né
toccare, né essere toccata, era immonda, da dodici anni.
Anche questa da una vita. E si dice, però, che aveva già
cercato la soluzione alla sua malattia. Come dire c’è questa
malattia, cerco la guarigione, andando dai medici; non solo,
“dilapidando tutti i suoi averi”, cioè quello che ho, io lo  metto in
gioco, per poter riavere vita.

Scusa, ma non è così tutta la cultura umana? A cosa serve?
Serve per riavere vita. È  tutta  un tentativo di macchina
d’immortalità, in fondo, la cultura, di rispondere a questo problema.
Anche l’arte, anche il teatro, soprattutto la tecnica, la medicina, la
religione, la filosofia, tutto.
E quindi molti medici e ognuno  ha la sua ricetta e ogni prete
ha la sua, e ogni guru  ha la sua, e ogni medico  ha la sua.
Sì, sarebbe interessante vedere cosa ci può essere dietro
questi “molti medici”, cioè “da chi” ci rechiamo per avere vita,
“dove” la cerchiamo.  E si dice che questi “molti medici” hanno un
prezzo, cioè questa perde tutto, non ha più niente.
Scusa, investiamo tutto per la salute e per la vita, no?
E la situazione conclusiva di questa persona dice che non
migliora, anzi peggiora. Allora questa donna si ritrova in cerca di
guarigione, ha dilapidato tutti i suoi averi e il risultato è: sto peggio
di prima. Come dire non c’è più niente, per lo meno: non ho più
niente, rimane solo lei, con la sua malattia.
Questo sarà ulteriormente interessante perché ci fa vedere
che non ha niente da offrire, ormai per poter guarire non può più
offrire niente in cambio.
Ma anche la storia di ogni uomo, no, facciamo di tutto, in
fondo, per salvarci, alla fine, cosa fa? Nessuno si salva. Butti via
anche tutti i tuoi averi per salvarti, ma non ti salvi, e allora cosa ti
resta? Stai peggio. Perché anzi hai vissuto nell’angoscia della morte
tutta la vita, oltretutto, nel tentativo di salvarti.
E tra l’altro, questa donna che perde sangue, è metafora di
tutti noi, che viviamo nella paura della morte e perdiamo
costantemente vita.
“Che paura di invecchiare!”, scusa vuoi morire subito? Crepa,
allora! Vivere è diventar vecchi, alla fine, se la vita ha un senso”.

Ecco, e questa donna non si rassegna, cioè la fede è
constatare il limite, porci tutti i rimedi, tutti i medici del mondo,
“molti medici”, le ha tentate tutte, ha dilapidato tutto ciò che ha,
perché bisogna davvero investire tutto in questo: e il problema
fondamentale della vita, cos’è? È la vita.
Poi è peggiorata e non si rassegna ancora. Cioè vuol dire che
c’è sotto un desiderio di vita, una protesta contro questa situazione,
veramente  enorme, che è la dignità dell’uomo, che è l’unico
animale cosciente di morire, perché diceva Pascal: “Tu potrai
schiacciarmi, ma io so, almeno, che tu mi schiacci, tu non sai
neanche quel che fai”.
Cioè, questa coscienza vuol dire qualcosa, questo desiderio di
vita, che non si estingue mai, che è originario; perché, scusate, se
c’è un desiderio, se c’è desiderio di cibo, vuol dire che c’è il cibo,
perché se no non ha questo desiderio, non ha desiderio di cibo, non
ne ha bisogno. C’è bisogno dell’amore, della birra. Mentre il sasso
non ne ha bisogno, noi  abbiamo desiderio di cibo, c’è il cibo. Hai
desiderio di vita? Per forza sei fatto, se no saresti già morto per
sempre. Ci si sparerebbe appena nati, nessuno darebbe la vita,
quando uno nasce c’è sempre questa speranza.
E allora tenta l’ultima sponda.

avendo udito di Gesù, venne nella folla, da dietro, e toccò la sua 
veste. 
Diceva infatti: Se toccherò anche solo le sue vesti,  sarò 
salva.

Qui è interessante che l’uomo ha l’udito e dall’udito impara
cose che non sapeva, normalmente. Ha sentito dire di questo,
l’importante è ascoltare. La fede, la fiducia, viene dall’ascolto. Se mi
raccontano una storia, di una persona seria, che ha fatto
un’esperienza, interessa anche a me. Cioè ho visto che le persone
approdate alla fede, che mi è capitato di conoscere, non è che siano
approdati per grandi ragionamenti; semplicemente vedendo un
credente, dice: “scusa, lui è serio come me, non è scemo, né
disonesto, è più contento di me, sarei scemo io a non vedere perché
è così”.
Da questo ascolto, come dire, questa donna dà spazio a quello
che è il suo desiderio di vita e arriva appunto a toccare la veste di
Gesù, perché dice – per cui quello che precede il gesto viene detto
dopo -: “se toccherò anche solo le sue vesti, sarò salva”; questo è il
pensiero e la certezza con cui questa donna si avvicina. Allora uno
potrebbe dire: “Beh, ma allora questa donna cosa fa? Ha tentato
con tutti, le è andata male con tutti, e adesso, va a Lourdes?”.
Bene, fa proprio così, questa donna, e le andrà bene! Cioè c’è
un desiderio di vita, talmente forte, che non si rassegna. Non si
rassegna al male, non si rassegna alla sua malattia: cerca! Cerca e
trova. Cioè questo desiderio di vita, trova la vita.
È interessante. E viene dall’udito: ha sentito che questo, per
esempio, rimette i peccati.
Perché la vita è essere riconciliati, avere una casa dove
abitare, non essere paralizzati, poter camminare, poter stare in
relazione; e sa che basta toccare Lui: toccare. Toccare è l’esperienza
fondamentale, basta fare del mio limite, del mio male, il luogo di
comunione. Perché la vita è comunione e amore, non è star bene,
fisicamente. Lei non solo stava male, al male era sopravvissuta per
dodici anni, ma guardate come: isolata da tutti, anche dal marito se
l’ha avuto, certamente l’aveva, anche dai figli, anche da tutti, perché
è immonda, non può toccare niente e nessuno. Quindi il vero male è
la mancanza del “toccare”, della comunione; come il vero male tra
le persone è che il limite è il luogo dell’aggressione reciproca, non
della comunione, questa è la morte.
E anche la morte è tragica, perché viviamo nella paura della
morte, cioè nell’egoismo, ma siamo già morti; se invece viviamo nel
desiderio della vita e la vita è amare, allora viviamo nella comunione
e abbiamo già vinto la morte.

Perché di fatto, questa donna, si dice che viene “nella folla, da
dietro”, come dire: è consapevole del proprio stato di impurità che
può trasmettere, col tocco. Per cui, di fatto, è come se si
nascondesse e andasse, per certi aspetti, a “rubare” quella
guarigione. Allora, il fatto che viene tra la folla, tocca il vestito “da
dietro”, si vuol quasi nascondere.
Ma questo ci dice già una cosa: che la relazione con Gesù,
avviene proprio in questo momento, come dire: è il mio limite che mi
porta da Lui. A volte ci può essere la tentazione di pensare che io,
l’incontro con il Signore, lo posso avere se me lo merito; se me lo
merito allora lo posso incontrare, come se l’incontro con Gesù fosse
una risposta, potremmo dire, alla mia buona condotta. Non lo
incontreremo mai.
L’incontro con Gesù, così come ci viene presentato qui,
avviene appunto quando questa donna, con il suo limite, tocca Gesù.
Fa qualcosa che la Legge proibirebbe. Ma qui c’è qualcosa di più
grande, qui ci viene detto che la fede è esattamente questa
relazione personale con Gesù: lì lo incontro.
Lo potrei incontrare, l’abbiamo già visto, anche nei brani
precedenti, per esempio, anche nel mio peccato, se ricordiamo per
esempio Levi. Quello che sembra opporsi così nettamente
all’incontro con il Signore è invece ciò che me Lo fa incontrare nella
verità.
È proprio lì, che lei ha sentito di Gesù, che ha detto: il medico
è venuto per i malati, non per i sani. Sono venuto per i peccatori,
non per i giusti.
Quello che diventa il motivo del nostro isolamento, come
questa malattia, è il motivo della comunione, viene ribaltato
completamente. Questa donna comprende questo.
Scusa, anche, per esempio, il vero motivo del male è non
accettare i limiti. Si è in delirio. Si pensa di essere illimitati, si invade

tutti, si mangia tutto, sì ha il controllo e il potere su tutti. Tutto il
male del mondo viene da questo delirio; di non accettare il limite.
E lo diventa appunto perché o lo viviamo come minaccia, ma
anche verso noi stessi, il nostro limite e anche il limite altrui; oppure
lo si vive come momento di comunione e lì avviene, l’incontro.
Quello che sembrerebbe separarci diventa, invece, ciò che ci spinge a
questa comunione.
E non è magia, questo, il problema dell’esistenza è toccare e
essere toccati, è la comunione.

E subito seccò la fonte del suo sangue, e conobbe nel suo corpo 
che era guarita dal flagello. 
E subito Gesù, conosciuta in sé la 
potenza uscita da lui, giratosi in mezzo alla folla, diceva: Chi mi 
toccò le vesti? 
E gli dicevano i suoi discepoli: Vedi la folla che ti 
schiaccia, e dici: Chi mi toccò?

Qui è bello che al contatto si secca la fonte del suo sangue. Il
che vuol dire che il contatto è la comunione e la fine del perder la
vita, perché la comunione  e il contatto, è la vita. Perché la vita è
l’amore e l’amore è comunione. E ciò che era la sua esclusione, non
è più esclusione, ma è motivo proprio del contatto. E così guarisce
dal flagello. “Subito”. Questo subito è molto bello.
È come se questa persona facesse già esperienza, prima di
ogni altra cosa, che il contatto con Gesù l’ha guarita. L’ha guarita
dentro. È qualcosa che avverte subito, come se avesse la conferma
della bontà della propria intuizione, che nel contatto con questa
persona riceveva vita. Le ritorna la vita.
Anche noi riceviamo vita dal contatto con gli altri, se no siamo
morti. La solitudine è la morte. “Non è bene che l’uomo sia solo”: la
solitudine è il non-esistere, esistiamo in quanto uno ci accetta.
Ed è bello che avvenga a livello interiore, qualcosa che
accomuna questa donna a Gesù; questa donna “sente” che è guarita
dal suo male e Gesù “sente” che una potenza è uscita da Lui. Come

dire che anche Lui –in un certo senso- sperimenta una potenza che è
uscita: c’è proprio un incontro, tra queste due persone.
E la donna, per il momento, ne sa più di Gesù, perché Gesù
non sa ancora chi, e vuole che si faccia vedere, e questo poi vedremo
perché, però potremmo dire che tutti e due sono accomunati da
questo contatto; quello che diceva prima Silvano, del tocco che è
reciproco: anche Gesù ha sentito qualcosa, proprio come questa
donna, e vedremo che appunto, quello che avviene all’esterno: la
guarigione di questa donna è il segno di qualcosa di molto più
profondo che in Gesù già avviene.
Interessante, la donna conobbe “nel suo corpo” e Gesù
conobbe “in  sé” dell’energia, cioè proprio, questo tocco ha
sprigionato in tutti e due qualcosa di nuovo, che è la comunione. E
c’è sempre questa folla, tra l’altro, questa folla siamo noi, che
abbiamo tutti lo stesso problema; però c’è una differenza: che
questi se  lo toccano, “Se toccherò anche solo le sue vesti, sarò
salva”, cioè ha il problema del toccare; noi abbiamo il problema del
difendere il nostro male, ce lo teniamo, ce lo godiamo, ricattiamo gli
altri.
Col nostro male abbiamo il potere su tutti, colpevolizziamo
anche gli altri: “Vedi è colpa tua questa cosa qui, chi ti ha detto di
fare quella faccia?”. Noi col male dominiamo, ci isoliamo, ci
pieghiamo, aggrediamo noi per primi, poi anche gli altri, che se
aggredisci te, evidentemente aggredisci gli altri; non c’è uomo
peggiore di quello che non ama se stesso, ma siamo tutti così. E
come può salvarti, se sono limitato? È solo se sono amato.
E questa ha udito, probabilmente ha udito quel discorso che
c’è nel capitolo secondo, di Levi, del medico che è venuto per i
malati, della mano guarita per “toccare”; finalmente può toccare.
L’ultimo miracolo della mano guarita, che costerà: decidono di
uccidere Gesù, per quel miracolo. Va bene? E allora Gesù si gira in
mezzo alla folla e dice: “Chi mi tocco le vesti?”.

È con  una domanda che innanzitutto Gesù vuole dare
pubblicità a quello che è avvenuto non sapendolo. E dimostra di non
temere il fatto di dire se ha contratto impurità o meno. A Gesù non
interessa questa categoria di puro-impuro, gli interessa la relazione
di fede e  fa una domanda che sembra ridicola, a tutti, discepoli
compresi.
C’è una folla che lo sta schiacciando e Gesù chiede: “Chi mi ha
toccato le vesti?” e l’obiezione dei discepoli sembra essere
un’obiezione di buon senso: “Guardati attorno, ti schiacciano tutti e
tu chiedi chi ti ha toccato?”. I discepoli non sanno ancora la
differenza che c’è tra toccare e schiacciare.
Se andate al capitolo terzo, al versetto nono, Gesù disse ai
discepoli di tenergli pronta una barchetta per non essere schiacciato
dalla folla. La barchetta sarebbe la Chiesa, è il luogo dove uno non è
schiacciato, ma si vive insieme le relazioni, si è nella stessa barca.
Per cui, questo Gesù che fa queste domande, in apparenza
banali, mette in questione le cose che a noi sembrano ovvie, oppure
che sembrano non avere risposta. Gesù invece fa quella domanda e
va a fondo su quello, non va di fretta – ricordiamo che c’è sempre
Giairo, che sta contemplando questa scena - però di fatto Gesù
chiede e non si rassegna nemmeno di fronte all’incomprensione dei
discepoli, cioè non accoglie la loro obiezione.

E guardava intorno per vedere colei che aveva fatto ciò.
E Giairo diceva: “Dai, sbrigati, che dobbiamo arrivare, perché 
mia figlia è proprio all’estremo” (come vedremo, perché gli dicono 
subito dopo che era morta, quindi era proprio l’ultimo respiro).

Ora la donna, colta da timore e tremore, sapendo ciò che le era
accaduto, venne e cadde davanti a lui, e gli disse tutta la verità.
Ecco, Gesù che guarda attorno, per vedere, e questa donna, di
per sé, poteva benissimo evitare di rispondere allo sguardo di Gesù.
La guarigione era avvenuta, lei era già guarita, poteva allontanarsi.

Era guarita, ma sarebbe morta un’altra volta, non è salva, lì il
problema si ripresenta. Non basta essere guariti.
Vuol dire: coglie, allora questa donna, nello sguardo di Gesù, il
desiderio di una relazione; questo è ciò che salva; e allora che cosa
fa questa donna? “Sapendo ciò che le era accaduto, venne e cadde
davanti a Lui” passa dalle spalle di Gesù, di fronte al suo viso, in un
rapporto “faccia a faccia”. Questo dice la “relazione”. Questo è ciò
che salva.
In un certo senso è come se questa donna avesse già
compreso, in questi pochi istanti, la distinzione tra il dono e il
donatore; e avesse già scoperto che quello che salva non è il dono.
Sarebbe feticismo.
Quello che salva  è la relazione con il donatore. Coglie che
quella guarigione è stato un segno, esattamente: la salute, la
guarigione sua, non diventa l’idolo della sua vita, ma diventa invece
un segno che fa da ponte tra Gesù e questa donna.
E tra l’altro  è così bello:  gli può dire tutta la verità. Pensate
quella donna che da dodici anni è stata da tutti medici, che non
poteva nemmeno toccare nessuno, essere toccata da nessuno, gli
dice tutta la verità, poter dire tutta la propria verità, che è
approdata a toccare Lui e a essere guarita.
Quella verità che le ha fatto vergogna tutta la vita, e che l’ha
disturbata tutta la vita. E invece la verità è un’altra, perché se Lo
tocchi, senti in comunione. Se il tuo male è luogo di comunione,
cambia la verità.  Tutta la verità: prima aveva solo una parte di
verità: il suo bisogno insoddisfatto, non invece la soddisfazione del
bisogno o la richiesta di vita, il desiderio di vita, ora invece ce l’ha
tutta.
Sperimentare di non aver nulla da tener nascosto. (Che bello!)
Già quando capita questo nelle relazioni interpersonali, penso che
ciascuno sperimenti una grande liberazione. Questa donna può dire

tutto davanti a questo Gesù. Lei che è andata quasi a rubare,
questo, ha scoperto che la grazia era lì, a disposizione di tutti. Vuol
dire che l’ha sperimentata.
Tutti gli altri la schiacciavano. Ci sarebbe da stare sotto molto
di più, come vedete, ma finiamo l’episodio qui.

Egli le disse: Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita 
dal tuo flagello.

Gesù la chiama “figlia”, in questo momento lei è generata e
ogni persona è generata dall’alto quando lo accoglie nel suo limite.
Esiste. E il limite diventa luogo di figliolanza, cioè di amore, di
trasmissione della vita, non di solitudine e di morte. Figlia: la tua
fede  – non mia, tua - ti ha salvata, non guarita. È passata dalla
guarigione alla salvezza, mediante questa fede e questo mettersi
davanti e dir tuta la verità e fare di questa verità il luogo di
comunione e di relazione, faccia a faccia.
Proprio il riconoscimento da parte di Gesù, della fede di
questa donna, quella che abbiamo visto descritta qui, quella
appunto che dice: “se toccherò le sue vesti sarò guarita”, quel fatto
di andare di nascosto, in mezzo alla folla, eccetera, Gesù dice: “la
tua fede”, come se venisse proprio presentata come “esempio”,
questa donna.
Guardate, e Giairo è lì, e subito dopo questa frase  “Figlia la
tua fede ti ha salvata”  arrivano di corsa e dicono: “Tua figlia è
morta, lascia stare il maestro”. Quindi lui è stato lì ad assistere a
questa scena – guarda caso - e ha imparato cos’è la fede che salva,
perché la fede che salva, non sarà Gesù a salvare la figlia, sarà la
fede del padre, gli dice: “Continua ad aver fede”.
Vedremo dopo il problema della figlia e sembra che in questa
donna vediamo il dinamismo della fede e il percorso della fede,
comune a ogni persona, perché  ci fa  diventare  figli, cioè persone
che esistono.


















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