Raniero Cantalamessa: Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia


P. Raniero Cantalamessa
“BEATI I MISERICORDIOSI,
PERCHE’ TROVERANNO MISERICORDIA”
Quarta predica di Quaresima alla Casa Pontificia



1. La misericordia di Cristo

La beatitudine sulla quale vogliamo riflettere in questa ultima meditazione quaresimale è la quinta nell’ordine di Matteo: “Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia”. Partendo, come sempre, dall’affermazione che le beatitudini sono l’autoritratto di Cristo, anche questa volta ci poniamo subito la domanda: come ha vissuto Gesú la misericordia? Che cosa ci dice la sua vita su questa beatitudine? 

Nella Bibbia, la parola misericordia si presenta con due significati fondamentali: il primo indica l’atteggiamento della parte più forte (nell’alleanza, Dio stesso) verso la parte più debole e si esprime di solito nel perdono delle infedeltà e delle colpe; il secondo indica l’atteggiamento verso il bisogno dell’altro e si esprime nelle cosiddette opere di misericordia. (In questo secondo senso il termine ricorre spesso nel libro di Tobia). C’è, per così dire, una misericordia del cuore e una misericordia delle mani.

Nella vita di Gesú risplendono entrambe queste due forme. Egli riflette la misericordia di Dio verso i peccatori, ma si impietosisce anche di tutte le sofferenze e i bisogni umani, interviene per dare da mangiare alle folle, guarire i malati, liberare gli oppressi. Di lui l’evangelista dice: “Ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie” (Mt 8,17).

Nella nostra beatitudine il senso prevalente è certamente il primo, quello del perdono e della remissione dei peccati. Lo deduciamo dalla corrispondenza tra la beatitudine e la sua ricompensa: “Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia”, s’intende presso Dio che rimetterà i loro peccati. La frase: “Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro”, viene spiegata subito con “perdonate e vi sarà perdonato” (Lc 6, 36-37).

È nota l’accoglienza che Gesú riserva ai peccatori nel vangelo e l’opposizione che essa gli procurò da parte dei difensori della legge che lo accusavano di essere “un mangione e beone, amico di pubblicani e peccatori” (Lc 7, 34). Uno dei detti storicamente meglio attestati di Gesú è: “Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mc 2, 17). Sentendosi da lui accolti e non giudicati, i peccatori lo ascoltavano volentieri. 

Ma chi erano i peccatori, chi veniva indicato con questo termine? In linea con la tendenza oggi diffusa di scagionare del tutto i farisei del vangelo, attribuendo l’immagine negativa a forzature posteriori degli evangelisti, qualcuno ha sostenuto che con questo termine si intendono “i trasgressori deliberati e impenitenti della legge” (1), in altre parole i delinquenti comuni e i fuori legge del tempo. 

Se fosse così, gli avversari di Gesú avevano effettivamente ragione di scandalizzarsi e di ritenerlo persona irresponsabile e socialmente pericolosa. Sarebbe come se oggi un sacerdote frequentasse abitualmente mafiosi, camorristi e criminali in genere, e accettasse i loro inviti a pranzo, con il pretesto di parlare loro di Dio. 

In realtà, le cose non stanno così. I farisei avevano una loro visione della legge e di ciò che è conforme o contrario ad essa e consideravano reprobi tutti quelli che non si conformavano alla loro prassi. Gesú non nega che esista il peccato e che esistano i peccatori, non giustifica le frodi di Zaccheo o l’adulterio della donna. Il fatto di chiamarli “i malati” lo dimostra. 

Quello che Gesú condanna è di stabilire da sé qual è la vera giustizia e considerare tutti gli altri “ladri, ingiusti e adulteri”, negando loro perfino la possibilità di cambiare. È significativo il modo in cui Luca introduce la parabola del fariseo e del pubblicano: “Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri” (Lc 18,9). Gesú era più severo verso coloro che, sprezzanti, condannavano i peccatori, che verso i peccatori stessi (2). 

2. Un Dio che si compiace di avere misericordia

Gesú giustifica la sua condotta verso i peccatori dicendo che così agisce il Padre celeste. Ai suoi oppositori egli ricorda la parola di Dio nei profeti: “Voglio la misericordia e non il sacrificio” (Mt 9,13). La misericordia verso l’infedeltà del popolo, la hesed, è il tratto più saliente del Dio dell’alleanza e riempie la Bibbia da un capo all’altro. Un salmo lo ripete a modo di litania, spiegando con essa tutti gli eventi della storia d’Israele: “Perché eterna è la sua misericordia” (Sal 136).

Essere misericordiosi appare così un aspetto essenziale dell’essere “a immagine e somiglianza di Dio”. “Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro” (Lc 6, 36) è una parafrasi del famoso: “Siate santi perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo” (Lev 19, 2). 

Ma la cosa più sorprendente, circa la misericordia di Dio, è che egli prova gioia nell’aver misericordia. Gesú conclude la parabola della pecorella smarrita dicendo: “Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (Lc 15, 7). La donna che ha ritrovato la dramma smarrita grida alle amiche: “Rallegratevi con me”. Nella parabola del figliol prodigo poi la gioia straripa e diventa festa, banchetto.

Non si tratta di un tema isolato, ma profondamente radicato nella Bibbia. In Ezechiele Dio dice: “Io non godo della morte dell’empio, ma (godo!) che l’empio desista dalla sua condotta e viva” (Ez 33,11). Michea dice che Dio “si compiace di avere misericordia” (Mi 7,18), cioè prova piacere nel farlo. 

Ma perché, ci si domanda, una pecora deve contare, sulla bilancia, quanto tutte le rimanenti messe insieme, e a contare di più deve essere proprio quella che è scappata e ha creato più problemi? Una spiegazione convincente l’ho trovata nel poeta Charles Péguy. Smarrendosi, quella pecorella, come pure il figlio minore, ha fatto tremare il cuore di Dio. Dio ha temuto di perderla per sempre, di essere costretto a condannarla e privarsene in eterno. Questa paura ha fatto sbocciare la speranza in Dio e la speranza, una volta realizzatasi, ha provocato la gioia e la festa. “Ogni penitenza dell’uomo è il coronamento di una speranza di Dio” (3). È un linguaggio figurato, come tutto il nostro parlare di Dio, ma contiene una verità.

In noi uomini, la condizione che rende possibile la speranza è il fatto che non conosciamo il futuro e perciò lo speriamo; in Dio, che conosce il futuro, la condizione è che non vuole (e, in certo senso, non può) realizzare quello che vuole, senza il nostro consenso. La libertà umana spiega l’esistenza della speranza in Dio.

Che dire allora delle novantanove pecorelle giudiziose e del figlio maggiore? Non c’è alcuna gioia in cielo per essi? Vale la pena vivere tutta la vita da buoni cristiani? Ricordiamo cosa risponde il Padre al figlio maggiore: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo” (Lc 15, 31). L’errore del figlio maggiore sta nel considerare l’essere rimasto sempre a casa e aver condiviso tutto con il Padre, non un privilegio immenso, ma un merito; si comporta da mercenario, più che da figlio. (Questo dovrebbe mettere sull’avviso tutti noi che, per stato di vita, ci troviamo nella stessa posizione del figlio maggiore!)

Su questo punto la realtà è stata migliore della stessa parabola. Nella realtà, il figlio maggiore – il Primogenito del Padre, il Verbo – non è rimasto nella casa paterna; è andato lui in “una regione lontana” a cercare il figlio minore, e cioè l’umanità decaduta; è stato lui che lo ha ricondotto a casa, che gli ha procurato la veste nuova e ha imbandito per lui un banchetto al quale può sedersi a ogni Eucaristia.

In un suo romanzo, Dostoevskij descrive un quadretto che ha tutta l’aria di una scena osservata dal vero. Una donna del popolo tiene in braccio il suo bambino di poche settimane, quando questi per la prima volta, a detta di lei, le sorride. Tutta compunta, ella si fa il segno della croce e a chi le chiede il perché di quel gesto risponde: “Ecco, allo stesso modo che una madre è felice quando nota il primo sorriso del suo bimbo, così si rallegra Iddio ogni volta che un peccatore si mette in ginocchio e rivolge a lui una preghiera fatta con tutto il cuore” (4). 

3. La nostra misericordia, causa o effetto della misericordia di Dio?

Gesú dice: “Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia” e nel Padre nostro ci fa pregare: “Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori” Dice anche: “Se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Mt 6, 15). Queste frasi potrebbero indurre a pensare che la misericordia di Dio verso di noi è un effetto della nostra misericordia verso gli altri, ed è proporzionata ad essa. 

Se così fosse però sarebbe completamente rovesciato il rapporto tra grazia e buone opere, e si distruggerebbe il carattere di pura gratuità della misericordia divina solennemente proclamato da Dio davanti a Mosè: “Farò grazia a chi vorrò far grazia e avrò misericordia di chi vorrò aver misericordia” (Es 33,19).

La parabola dei due servitori (Mt 18, 23 ss,) è la chiave per interpretare correttamente il rapporto. Lì si vede come è il padrone che, per primo, senza condizioni, rimette un debito immenso al servo (diecimila talenti!) ed è proprio la sua generosità che avrebbe dovuto spingere il servo ad avere pietà di colui che gli doveva la misera somma di cento denari.

Dobbiamo dunque avere misericordia perché abbiamo ricevuto misericordia, non per ricevere misericordia; però dobbiamo avere misericordia, altrimenti la misericordia di Dio non avrà effetto per noi e ci verrà ritirata, come il padrone della parabola la ritirò al servo spietato. La grazia “previene” sempre ed è essa che crea il dovere: “Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi”, scrive san Paolo ai Colossesi (Col 3,13).

Se, nella beatitudine, la misericordia di Dio verso di noi sembra essere l’effetto della nostra misericordia verso i fratelli, è perché Gesù si colloca qui nella prospettiva del giudizio finale (“troveranno misericordia”, al futuro!). “Il giudizio, scrive infatti san Giacomo, sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia; la misericordia invece ha sempre la meglio nel giudizio” (Gc 2,13).

4. Fare esperienza della misericordia divina

Se la misericordia divina è all’inizio di tutto ed è essa che esige e rende possibile la misericordia degli uni verso gli altri, allora la cosa più importante per noi è fare un’esperienza rinnovata della misericordia di Dio. Ci stiamo avvicinando alla Pasqua e questa è l’esperienza pasquale per eccellenza. 

Lo scrittore Franz Kafka ha scritto un romanzo intitolato Il Processo. In esso si parla di un uomo che un giorno, senza che nessuno sappia il perché, viene dichiarato in arresto, pur continuando la sua solita vita e il suo lavoro di modesto impiegato. Comincia un’estenuante ricerca per conoscere i motivi, il tribunale, le imputazioni, le procedure. Ma nessuno sa dirgli niente, se non che c’è veramente un processo in corso a suo carico. Finché un giorno verranno a prelevarlo per l’esecuzione della sentenza. 

Nel corso della vicenda si viene a sapere che vi sarebbero, per quest’uomo, tre possibilità: l’assoluzione vera, l’assoluzione apparente e il rinvio. L’assoluzione apparente e il rinvio però non risolverebbero nulla; servirebbero solo a tenere l’imputato in un’incertezza mortale per tutta la vita. Nell’assoluzione vera invece “gli atti processuali devono essere totalmente eliminati, scompaiono del tutto dal procedimento; non solo l’accusa, ma anche il processo e persino la sentenza vengono distrutti, tutto viene distrutto”. 

Ma di queste assoluzioni vere, tanto sospirate, non si sa se ne sia esistita mai alcuna; ci sono solo voci in proposito, null’altro che “bellissime leggende”. L’opera finisce così, come tutte quelle dell’autore: qualcosa che si intravede da lontano, si rincorre con affanno come in un incubo notturno, ma senza possibilità alcuna di raggiungerlo (5).

A Pasqua la liturgia della Chiesa ci trasmette l’incredibile notizia che l’assoluzione vera esiste per l’uomo; non è solo una leggenda, una cosa bellissima ma irraggiungibile. Gesù ha distrutto il “documento scritto della nostra colpa; lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce” (Col 2, 14). Ha distrutto tutto. “Non c’è più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù”, grida san Paolo (Rm 8, 1). Nessuna condanna! Di nessun genere! Per quelli che credono in Cristo Gesù!

A Gerusalemme c’era una piscina miracolosa e il primo che vi si buttava dentro, quando le acque venivano agitate, era guarito (cf. Gv 5, 2 ss.). La realtà però, anche qui, è infinitamente più grande del simbolo. Dalla croce di Cristo è sgorgata una fonte di acqua e sangue, e non uno soltanto ma tutti quelli che vi si buttano dentro ne escono guariti. 

Dopo il battesimo questa piscina miracolosa è il sacramento della riconciliazione e quest’ultima meditazione vorrebbe servire proprio come preparazione a una buona confessione pasquale. Una confessione “fuori serie”, cioè diversa da quelle solite, in cui permettiamo davvero al Paraclito di “convincerci di peccato”. Potremmo prendere come specchio le beatitudini meditate in Quaresima, cominciando fin da adesso e ripetendo insieme l’espressione tanto antica e tanto bella: Kyrie eleison, Signore, pietà! 

“Beati i puri di cuore”: Signore, riconosco tutta l’impurità e l’ipocrisia che c’è nel mio cuore; forse, la doppia vita che conduco davanti a te e davanti agli altri. Kyrie eleison!

“Beati i miti”: Signore, ti chiedo perdono per l’impazienza e la violenza nascosta che c’è dentro di me, per i giudizi avventati, la sofferenza che ho provocato alle persone intorno a me… Kyrie eleison.

“Beati gli affamati”: Signore, perdona la mia indifferenza verso i poveri e gli affamati, la mia continua ricerca di comodità, il mio stile di vita borghese… Kyrie eleison.

“Beati i misericordiosi”: Signore, spesso ho chiesto e ricevuto alla leggera la tua misericordia, senza rendermi conto a quale prezzo tu me l’hai procurata! Spesso sono stato il servo perdonato che non sa perdonare: Kyrie eleison. Signore pietà!

C’è una grazia particolare quando, non è solo l’individuo, ma l’intera comunità che si mette davanti a Dio in quest’atteggiamento penitenziale. Da un’esperienza profonda della misericordia di Dio si esce rinnovati e pieni di speranza: “Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo” (Ef 2, 4-5). 

5. Una Chiesa “ricca in misericordia”

Nel suo messaggio per la Quaresima di quest’anno il Santo Padre scrive: “La Quaresima sia per ogni cristiano una rinnovata esperienza dell’amore di Dio donatoci in Cristo, amore che ogni giorno dobbiamo, a nostra volta, ridonare al prossimo”. Così è della misericordia, la forma che l’amore di Dio prende nei confronti dell’uomo peccatore: dopo averne fatto l’esperienza dobbiamo, a nostra volta, mostrarla con i fratelli. Questo sia a livello di comunità ecclesiale, sia a livello personale.

Predicando gli esercizi spirituali alla Curia Romana da questo stesso tavolo nell’anno giubilare del 2000, il Cardinal Francesco Saverio Van Thuan, alludendo al rito dell’apertura della Porta santa, disse in una meditazione: “Sogno una Chiesa che sia una ‘Porta Santa’, aperta, che accoglie tutti, piena di compassione e di comprensione per le pene e le sofferenze dell’umanità, tutta protesa a consolarla” (6).

La Chiesa del Dio “ricco di misericordia”, dives in misericordia, non può non essere essa stessa dives in misericordia. Dall’atteggiamento di Cristo verso i peccatori esaminato sopra deduciamo alcuni criteri. Egli non banalizza il peccato, ma trova il modo di non alienarsi mai i peccatori, ma piuttosto di attirarli a sé. Non vede in essi solo quello che sono, ma quello che possono divenire, se raggiunti dalla misericordia divina nel profondo della loro miseria e disperazione. Non aspetta che vengano da lui; spesso è lui che va a cercarli.

Oggi gli esegeti sono abbastanza d’accordo nell’ammettere che Gesú non aveva un atteggiamento ostile verso la legge mosaica, che osservava lui stesso scrupolosamente. Quello che lo poneva in contrasto con l’elite religiosa del suo tempo era una certa maniera rigida e a volte disumana di costoro di interpretare la legge. “Il sabato, diceva, è per l’uomo, non l’uomo per il sabato” (Mc 2,27), e quello che dice del riposo sabbatico, una delle leggi più sacre in Israele, vale per ogni altra legge.

Gesú è fermo e rigoroso nei principi, ma sa quando un principio deve cedere il passo a un principio superiore che è quello della misericordia di Dio e la salvezza dell’uomo. Come questi criteri desunti dall’agire di Cristo possano essere applicati concretamente ai problemi nuovi che si pongono nella società dipende dalla paziente ricerca e in definitiva dal discernimento del magistero. Anche nella vita della Chiesa, come in quella di Gesú, devono risplendere insieme e la misericordia delle mani e quella del cuore, sia le opere di misericordia, che “le viscere di misericordia”. 

6. “Rivestitevi di sentimenti di misericordia”

L’ultima parola a proposito di ogni beatitudine deve essere sempre quella che ci tocca personalmente e spinge ognuno di noi alla conversione e alla pratica. San Paolo esortava i Colossesi con queste accorate parole: 

“Rivestitevi dunque, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti [alla lettera: di viscere] di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi” (Col 3, 12-13).

“Noi esseri umani, diceva sant’Agostino, siamo come vasi di creta che, solo sfiorandosi, si fanno del male” (lutea vasa quae faciunt invicem angustias) (7). Non si può vivere insieme in armonia, nella famiglia e in ogni altro tipo di comunità, senza la pratica del perdono e della misericordia reciproca. Misericordia è una parola composta da misereo e cor; significa impietosirsi nel proprio cuore, commuoversi, a riguardo della sofferenza o dell’errore del fratello. È così che Dio spiega la sua misericordia di fronte al traviamento del popolo: “Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione” (Os 11,8). 

Si tratta di reagire con il perdono e, fin dove è possibile, con la scusa, non con la condanna. Quando si tratta di noi, vale il detto: “Chi si scusa, Dio lo accusa; chi si accusa, Dio lo scusa”; quando si tratta degli altri avviene il contrario: “Chi scusa il fratello, Dio scusa lui; chi accusa il fratello, Dio accusa lui”.

Il perdono è per una comunità quello che è l’olio per il motore. Se uno esce in auto senza una goccia d’olio nel motore, dopo pochi chilometri andrà tutto in fiamme. Come l’olio anche il perdono scioglie gli attriti. C’è un salmo che canta la gioia del vivere insieme come fratelli riconciliati; dice che questo "è come olio profumato sul capo” che scende lungo la barba e le vesti di Aronne, fino all’orlo della sua veste (cf. Sal 133). 

Il nostro Aronne, il nostro Sommo sacerdote, avrebbero detto i Padri della Chiesa, è Cristo; la misericordia e il perdono è l’olio che scende da questo “capo” elevato sulla croce e si diffonde lungo il corpo della Chiesa fino all’estremità delle sue vesti, fino a quelli che vivono ai suoi margini. Dove si vive così, nel perdono e nella misericordia reciproca, “il Signore dona la sua benedizione e la vita per sempre”. 

Cerchiamo di individuare, tra i nostri rapporti con le persone, quello nel quale ci sembra necessario far penetrare l’olio della misericordia e della riconciliazione e versiamocelo silenziosamente, con abbondanza, in occasione della Pasqua. Uniamoci ai mostri fratelli ortodossi che a Pasqua non si stancano di cantare:

“È il giorno della Risurrezione!
Irradiamo gioia per la festa, 
abbracciamoci tutti quanti.
Diciamo fratello anche a chi ci odia,
tutto perdoniamo per amore della Risurrezione” (8). 


(1) Cf. E.P. Sanders, Jesus and Judaism, London 1985, p. 385 (Trad. ital. Gesù e il giudaismo, Genova 1992).
(2) Cf. J.D.G. Dunn, Gli albori del cristianesimo, I, 2, Brescia 2006, pp.567-572.
(3) Ch. Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù, in Oeuvres poétiques complètes, Gallimard, Parigi 1975, pp. 571 ss.
(4) F. Dostoevskij, L’Idiota, Milano 1983, p. 272.
(5) F. Kafka, Il Processo, Garzanti, Milano 1993, pp. 129 ss.
(6) F.X. Van Thuan, Testimoni della speranza, Città Nuova, Roma 2000, p.58.
(7) S. Agostino, Sermoni, 69, 1 (PL 38, 440)
(8) Stichirà di Pasqua, testi citati in G. Gharib, Le icone festive della Chiesa Ortodossa, Milano 1985, pp. 174-182.


Nessun commento: