Mercoledì della VIII settimana del Tempo Ordinario. Commento completo e approfondimenti


COMMENTO COMPLETO

Con Gesù si sale a Gerusalemme. Sappiamo, o dovremmo sapere..., dove stiamo andando. Lo aveva ben compreso San Paolo: "Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà. So soltanto che lo Spirito Santo in ogni città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni. Non ritengo tuttavia la mia vita meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio" (Atti, 20, 22-24). Ma i discepoli non l'avevano compreso. Seguivano Gesù, ma erano imbalsamati nella mummia del proprio Io. A loro premeva raggiungere i propri scopi, e Gesù, per quanto ammirato ed amato, alla fine, era solamente colui che, ai loro occhi, poteva realizzare i desideri. Come quando un computer affetto da virus non riesce a leggere un documento e i caratteri che appaiono sul monitor sono un collage di segni strani e senza logica. Anche le parole più chiare di Gesù subiscono uno stravolgimento ad opera del virus dell'orgoglio e delle superbia, segni dell'uomo vecchio. Oggi ad esempio, che progetti abbiamo? In famiglia, a scuola, al lavoro, con amici e fidanzati, che cosa speriamo, che cosa desideriamo? E' importante chiedercelo perchè, con tutta probabilità, scopriremo che la cesura netta che appare nel Vangelo tra l'annuncio della Passione e della Risurrezione di Gesù e le richieste dei due fratelli figli di Zebedeo, è la stessa che apre le nostre giornate. Ogni mattina il Signore ci annuncia un giorno di combattimenti, un cammino che conduce a Gerusalemme, alla Croce, per passare alla Resurrezione. Gesù ci prende in disparte e ci annuncia quello che gli deve accadere in noi. Per questo San Paolo scriveva che in lui si completava quello che manca alla Passione di Gesù, quello che manca alla vista degli uomini di questa generazione perchè si possano salvare. Ma a noi, confessiamolo, importa poco. Al risveglio siamo sintonizzati su ben altro canale. Le cose da fare, i soldi, gli amici, i figli, i genitori, gli affetti vari da curare, gli obbiettivi da raggiungere. Ma, quel che è peggio, tutto pensiamo di farlo con Gesù. Giacomo e Giovanni infatti non chiedono un potere empio, senza Dio. No, loro desiderano una cosa santa, regnare con Gesù. Essere alla sua destra e alla sua sinistra. Come noi, che, nelle vicende della vita, desideriamo stare con il Signore, per carità, ci affidiamo a Lui in tutto. Forse... Ma la risposta di Gesù ci fa comprendere che neanche sappiamo che cosa chiediamo e desideriamo. La buccia sembra buona, ma è l'interno ad essere marcio. Chiediamo cose sante, ma lo spirito e i criteri sono mondani. Ci sfugge l'essenziale: il calice che Dio ha preparato per il Suo Figlio, e per ciascuno di noi. Infatti quando ci viene presentato, normalmente ce la diamo a gambe.

Ma proprio per questo, anche oggi il Vangelo è per noi una Buona Notizia. Da soli non possiamo nulla. Noi vogliamo che Gesù ci faccia quello che gli chiediamo. Siamo pronti a strumentalizzarlo, come sposi, madri, figli, presbiteri, non vi è differenza. E Gesù ci annuncia che sì, lo berremo il suo calice, che coincide con quello preparato per noi. Non abbiamo nulla da temere, Lui lo già bevuto! Lui sa come si fa, come si sale sulla croce, come non si scappa, come si entra nella morte. Gesù è in noi davanti alla Croce: "Ora Colui che è il Verbo assume Egli stesso un corpo, viene da Dio come uomo e attira a sé l'intera esistenza umana, la porta dentro la parola di Dio, viene da Dio e fonda così il vero essere uomini. Non è una persona sola, bensì ci rende tutti «uno» in sé (cfr. Gal 3,28), ci trasforma in una nuova umanità... È questa la «sequela» cui Gesù ci chiama: lasciarsi attrarre dentro la sua nuova umanità e dunque nella comunione con Dio." (J. Ratzinger - Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, pag.382-383). Abbandoniamoci a Lui alora, lasciamo che ad ogni risveglio ci annunci il nostro destino, ci attiri nella sua "nuova umanità", battezzandoci nel suo stesso battesimo. Ogni giorno che si schiude è come il fiume Giordano che attende il corpo benedetto del Signore vivo nella nostra carne. La moglie, il marito, i figli, i genitori, gli amici, il fidanzato, i colleghi, e poi la precarietà economica, il mobbing e le incomprensioni sul lavoro, le malattie sempre in agguato, il rifiuto e il disprezzo, il traffico e i contrattempi, sono come i flutti nei quali immergere la nostra vita perchè sia distrutto l'uomo vecchio e possa apparire quello nuovo, creato a immagine di Cristo: donarsi a chi reclama la nostra attenzione, il nostro tempo, i nostri schemi, la nostra vita. Spesso violentemente, ingiustamente, senza apparente ragione. Scendere nelle acque del Giordano che lambiscono ogni giorno il frammento di terra e di storia che siamo chiamati a calpestare, per riemergervi pronti a ricevere lo Spirito Santo che fa della nostre giornate il compiacimento di Dio, che ci fa figli amatissimi che seminano ovunque lo stesso amore del quale sono ricolmi. Dare la vita significa, infatti, innanzi tutto deporre nelle acque del battesimo quotidiano l'egoismo, la superbia  di chi pretende di condurre e piegare la propria vita e la storia, che giudica Dio per come fa il Padre, il Figlio per il modo così singolare con il quale ci ama e che non ci piace quasi mai, e lo Spirito Santo per non spiegarci tutto e, come Aladino con la sua lampada, non soffiare secondo i nostri desideri; servire è rinnegare il proprio io e ogni opera della carne, lasciando che sia crocifisso con Cristo l'uomo vecchio che si corrompe, proprio attraverso le vicende e le persone che il Padre prepara per noi ogni giorno. E' questa la porta che introduce al compimento della missione che ci è affidata, lasciarci trasformare da Cristo, essere docili alla volontà del Padre, seguendo le sue orme che ci conducono a Gerusalemme, alla concretissima realtà che attende i nostri passi, dove si realizza in noi lo stesso Mistero Pasquale del Signore. 

Conformati a Lui possiamo vivere un'altra vita nel capovolgimento dei criteri mondani: non possiamo aspettarci nulla dal potere di questo mondo; per quanta indignazione gettiamo nelle piazze, per quanto possiamo impegnarci per la realizzazione di una politica più onesta e giusta, per quanto ci sforziamo di costruire una cultura della legalità, "coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere". il Signore conosce il veleno che divora il mondo che lo rifiuta, e con Lui anche i suoi discepoli "sanno" della corruzione che vi si nasconde. Non siamo chiamati all'indignazione, alle proteste e alle rivoluzioni, nelle piazze come nei condomini, negli uffici o sui campi di calcio dove giocano i nostri figli, nelle scuole e nelle nostre case. Siamo chiamati, nella Chiesa e con essa, a qualcosa di molto diverso: "tra di voi invece..."  dice il Signore, chiamando a sé i suoi discepoli. Tra i fratelli nati dallo stesso battesimo, che si accostano e bevono allo stesso calice, ogni relazione è celeste, e per questo capovolta rispetto alle relazioni mondane: tra marito e moglie, tra genitori e figli, tra fratelli, ovunque Il primo è l'ultimo e l'ultimo è il primo, e sembra quasi una gara a perdere, perchè, fra i cristiani, vi è la certezza della vittoria di Cristo sulla morte, il demonio e il peccato. "Fra di voi" è diverso, perchè voi siete stati perdonati, rigenerati, risuscitati con Cristo e già siete stati assisi con Lui alla destra del Padre. Non si tratta di un posto di prestigio, perchè quel che sarà nel Regno dei Cieli non è affar nostro. Ma si tratta di aver ricevuto lo stesso Spirito del Signore, di regnare già oggi con Lui nella storia perchè, seppur non in pienezza, nel battesimo abbiamo già oltrepassato il guado della morte, siamo le primizie dei santi del Cielo, e per questo ci è dato il potere di sottomettere i demoni, la carne e il mondo che così diviene il potere di dare la propria vita. Si tratta di amare, di regnare come regna Lui, dal Legno della Croce, il battesimo che ci fa ultimi, servi di tutti. Certo si tratta di assumere un combattimento quotidiano contro la carne, il mondo e il demonio: "Questa è la chiave: fra noi non deve essere così. Nell’ottica del Vangelo, la lotta per il potere nella Chiesa non deve esistere. O, se vogliamo, che sia la lotta per il vero potere, cioè quello che lui, con il suo esempio, ci ha insegnato: il potere del servizio. Il vero potere è il servizio. Nella Chiesa non c’è nessun’altra strada per andare avanti. Per il cristiano  andare avanti, progredire, significa abbassarsi. Se noi non impariamo questa regola cristiana, mai potremo capire il vero messaggio cristiano sul potere. Nella Chiesa il più grande è quello che più serve, che più è al servizio degli altri. Questa è la regola. Quando a una persona danno una carica che secondo gli occhi del mondo è una carica superiore, si dice: Ah, questa donna è stata promossa a presidente di quell’associazione; e questo uomo è stato promosso. Promuovere: Sì, è un verbo bello. E si deve usare nella Chiesa, sì: questo è stato promosso alla croce; questo è stato promosso all’umiliazione. Questa è la vera promozione. Quella che ci fa assomigliare meglio a Gesù. Sant’Ignazio, negli Esercizi spirituali, ci fa chiedere al Signore crocifisso la grazia delle umiliazioni: Signore voglio essere umiliato, per assomigliare meglio a te. Questo è l’amore, è il potere di servizio nella Chiesa. E si servono meglio gli altri per la strada di Gesù. Altri tipi di promozione non appartengono a Gesù. Sono promozioni «mondane» ed esistono sin dal tempo di Gesù stesso. «Sempre ci sono state nelle Chiese cordate per arrivare più in alto: carrierismo, arrampicatori, nepotismo... una sorta di «simonia educata», cioè quella che porta a pagare di nascosto qualcuno pur di diventare qualcosa. Ma quella non è la strada del Signore. La strada del Signore è il suo servizio: che ci dia la Grazia per capire quella regola d’oro che lui ci ha insegnato con il suo esempio: per un cristiano progredire, andare avanti, significa abbassarsi" (Papa Francesco, Omelia a Santa Marta, 21 maggio 2013). Siamo chiamati alla libertà di chi, abbassato e umiliato nella storia di ogni giorno, dall'ultimo posto, serve e accompagna ogni uomo al Paradiso, all'incontro con Dio, a mostrare e a offrire al mondo la vita "fra di noi", figli nel Figlio. Il "posto" non conta, il potere e il prestigio non conferiscono nulla e non aggiungono nessun valore, mentre il ruolo nella società ancor meno: servire e amare, donarsi senza riserve è il luogo dove essere autenticamente se stessi, felici, realizzati, colmi della stessa pienezza di CristoE' questa la grandezza della nostra vita, perderla per amore, per riscattare chi è perduto: "Non è il potere che redime, ma l’amore! Questo è il segno di Dio: Egli stesso è amore" (Benedetto XVI, Omelia nella Messa di inizio Pontificato).

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Benedetto XVI, La sequela di Gesù

"Ora Colui che è il Verbo assume Egli stesso un corpo, viene da Dio come uomo e attira a sé l'intera esistenza umana, la porta dentro la parola di Dio, la tramuta in «udito» per Dio e dunque in «obbedienza», in riconciliazione tra Dio e l'uomo (cfr. 2 Cor 5,18-20). Egli stesso diviene il vero «sacrificio», come Colui che si è donato, entrando totalmente nell'obbedienza e nell'amore, amando «sino alla fine» (Gv 13,1). Viene da Dio e fonda così il vero essere uomini. Come dice Paolo, rispetto al primo uomo che era ed è di terra, Egli è il secondo uomo, l'uomo definitivo (l'ultimo), che viene «dal cielo» ed è «spirito datore di vita» (cfr. 1 Cor 15,45-49). Egli viene, ed è al tempo stesso il nuovo «regno». Non è una persona sola, bensì ci rende tutti «uno» in sé (cfr. Gal 3,28), ci trasforma in una nuova umanità... È questa la «seque-la» cui Gesù ci chiama: lasciarsi attrarre dentro la sua nuova umanità e dunque nella comunione con Dio. Ascoltiamo ancora una volta Paolo: «Quale è l'uomo fatto di terra [il primo uomo, Adamo], così sono quelli di terra; ma quale il celeste, così anche i celesti» (1 Cor 15,48). L'espressione «Figlio dell'uomo» è rimasta riservata a Gesù stesso, ma la nuova visione dell'unione di Dio e uomo che vi si esprime pervade e plasma tutto il Nuovo Testamento. Nella sequela di Gesù Cristo è in gioco questa nuova umanità che viene da Dio" (J. Ratzinger - Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, pag.382-383).


Sant' Alfonso-Maria de Liguori
 (1696-1787), vescovo e dottore della Chiesa
Opere, t.14

« Dare la propria vita in riscatto per molti »

Un Dio che serve, che spazza la casa, che si dedica a lavori penosi – quanto uno solo di questi pensieri dovrebbe colmarci di amore! Quando il Salvatore ha cominciato a predicare il suo Vangelo, si è fatto “il servo di tutti”, dichiarando lui stesso che “non era venuto per essere servito, ma per servire”. È come se avesse detto che voleva essere il servitore di tutti gli uomini. E, al termine della sua vita, non si è contentato, dice san Bernardo, “di aver preso la condizione di servo per mettersi al servizio degli uomini; ha voluto prendere la forma del servo indegno, per lasciarsi colpire, e subire la pena che era dovuta a noi, a causa dei nostri peccati”. Ecco che il Signore, obbediente servo di tutti, si sottomette alla sentenza di Pilato, per quanto ingiusta sia, e si consegna ai suoi carnefici... Così, Dio ci ha tanto amato, da voler obbedire come schiavo, per amore nostro, fino a morire e a morire di una morte dolorosa e infame, il supplizio della croce (Fil 2,8).
Ora, in tutto questo, obbediva non in quanto Dio, ma in quanto uomo, che aveva assunto la condizione di schiavo. Un certo santo si è consegnato come schiavo per riscattare un povero, e si è attirato l’ammirazione del mondo per questo atto eroico di carità. Ma cos’è questa carità in confronto a quella del Redentore? Essendo Dio e volendo riscattarci dalla schiavitù del diavolo e della morte che avevamo meritata, si fa lui stesso schiavo, si lascia legare e inchiodare sulla croce. “Perché il servo diventasse maestro, dice san Agostino, Dio ha voluto farsi servo”.



Beato Guerrico d'Igny (circa 1080-1157), abate cistercense
Discorso 1 sui rami delle palme


« Il Figlio dell'uomo non è venuto per essere servito ma per servire »

L'uomo è stato creato per servire il suo Creatore. Cosa c'è di più giusto infatti che servire colui che vi ha dato alla luce, senza il quale non potete esistere? E cosa c'è di più felice che servirlo, poiché servirlo è regnare? Eppure l'uomo ha detto al suo Creatore: «Non ti servirò» (Ger 2,20). «Allora ti servirò io, disse il Creatore all'uomo. Siediti, ti servirò, ti laverò i piedi»... Sì, Cristo «servo buono e fedele» (Mt 25,21), hai veramente servito, hai servito in tutta fede e in tutta verità, in tutta pazienza e in tutta costanza. Senza tiepidezza ti sei lanciato come un prode per percorrere la via dell'obbedienza (Sal 18,3); senza fingere, ci hai dato in sovrappiù, dopo tante pene, la tua stessa vita; senza fiatare, flagellato e innocente, non apristi la bocca (Is 53,7). Sta scritto ed è vero: «Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse» (Lc 12,47). Ma questo servo, vi domando, quali degne azioni non ha compiuto? Cosa ha ommesso di ciò che doveva fare? «Ha fatto bene ogni cosa», esclamavano coloro che osservavano la sua condotta, «fa udire i sordi e fa parlare i muti» (Mc 7,37). Ha compiuto ogni sorta di opere degne di ricompensa, allora come mai ha sofferto tante umiliazioni? Ha presentato le sue spalle alla frusta, ha ricevuto numerosi colpi atroci, dappertutto il suo sangue scorre. È stato interrogato in mezzo agli obbrobri e ai tormenti, come uno schiavo o un malfattore che sottopongono alla tortura per strappargli la confessione di un crimine. O superbia detestabile dell'uomo sdegnoso nel servire, e che non poteva essere umiliato se non con l'esempio della servitù del suo Dio!...
Si, mio Signore, hai molto faticato per servirmi; sarebbe giusto ed equo che d'ora in poi ti riposassi, mentre il tuo servo, a sua volta, cominciasse a servirti, è venuto il suo turno... Hai vinto, Signore, questo servo ribelle; stendo le mani per ricevere i tuoi legami, chino il capo per ricevere il tuo giogo. Permetti che io ti serva. Accoglimi per sempre come tuo servo, ancorché servo inutile finché la tua grazia non mi assista e mi affianchi nella mia fatica (Sap 9,10).


Padre R. Cantalamessa. Come combattere la 'volontà di potenza' che minaccia tutti

"Allora Gesù, chiamatili a sé, disse loro: Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti". Dopo quello sul denaro, il vangelo di questa domenica ci fa conoscere il giudizio di Cristo su un altro dei grandi idoli del mondo: il potere. Neppure il potere è intrinsecamente cattivo, come non lo è il denaro. Dio è definito lui stesso "l'onnipotente" e la Scrittura dice che "il potere appartiene a Dio" (Sal 62, 12).

Poiché, però, l'uomo aveva abusato del potere a lui concesso, trasformandolo in dominio del più forte e in oppressione del debole, che cosa ha fatto Dio? Per darci l'esempio, si è spogliato della sua onnipotenza; da "onnipotente", si è fatto "impotente". "Spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo" (Fil 2, 7). Ha trasformato la potenza in servizio. La prima lettura del giorno contiene una descrizione profetica di questo salvatore "impotente": "È cresciuto come virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che conosce il patire".

Si rivela così una nuova potenza, quella della croce. "Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti" (1 Cor 1, 24-27). Maria, nel Magnificat, canta in anticipo questa rivoluzione silenziosa operata dalla venuta di Cristo: "Ha rovesciato i potenti dai troni" (Lc 1,52). Chi viene messo sotto accusa da questa denunzia del potere? Solo i tiranni e dittatori? Magari così fosse! Si tratterebbe, in questo caso, di eccezioni. Invece ci riguarda tutti. Il potere ha infinite ramificazioni, si inserisce dappertutto, come certa sabbia del Sahara, quando tira il vento di Scirocco. Anche nella Chiesa. Il problema del potere non si pone dunque solo per il mondo politico. Se ci fermiamo qui, non facciamo che unirci alla schiera di coloro che sono sempre pronti a battere le proprie colpe... sul petto degli altri. È facile denunciare le colpe collettive, o del passato; più difficile quelle personali e del presente.

Maria dice che Dio: "Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni" (Lc 1, 51 s.). Ella addita implicitamente un ambito preciso nel quale bisogna cominciare a combattere "la volontà di potenza", quello del proprio cuore. La nostra mente ("i pensieri del cuore") può diventare una specie di trono sul quale ci sediamo, per dettare legge e fulminare chi non si sottomette. Siamo, almeno nei desideri se non nei fatti, dei "potenti sui troni". Nella famiglia stessa è possibile, purtroppo, che si manifesti la nostra innata volontà di dominio e di sopraffazione, causando continue sofferenze a chi ne è la vittima; spesso (non sempre), la donna.

Che cosa oppone, il Vangelo, al potere? Il servizio! Un potere per gli altri, non sugli altri. Il potere conferisce autorità, ma il servizio conferisce qualcosa di più, autorevolezza, che significa rispetto, stima, ascendente reale sugli altri. Al potere, il Vangelo oppone anche la non-violenza, cioè un potere di altro tipo, morale, non fisico. Gesù diceva che avrebbe potuto chiedere al Padre dodici legioni di angeli per sbaragliare i nemici che stavano per venire a crocifiggerlo (Mt 26,53), ma preferì pregare per essi. E fu così che riportò la sua vittoria. Il servizio non si esprime, tuttavia, sempre e solo con il silenzio e la sottomissione al potere. A volte esso può spingere ad alzare coraggiosamente la voce contro il potere e contro i suoi abusi. Così ha fatto Gesù. Egli ha sperimentato nella sua vita l'abuso del potere politico e religioso del tempo. Per questo è vicino a tutti quelli che, in qualsiasi ambiente (nella famiglia, nella comunità, nella società civile), fanno su di sé l'esperienza di un potere cattivo e tirannico. Con il suo aiuto, è possibile, come ha fatto lui, non "soccombere al male" e vincere anzi "il male con il bene" (Rm 12, 21).



RIFLESSIONE BIBLICA “IL SERVO DI JAHVÈ” PROF.SSA BRUNA COSTACURTA (sintesi, non rivista dall’autore, della riflessione tenuta ai delegati al convegno ecclesiale e agli altri membri dei consigli delle unità pastorali domenica 16 marzo) 

Introduzione Stasera rifletteremo sulla figura misteriosa del servo del Signore, così come si ritrova nel libro del profeta Isaia: figura misteriosa che poi gli evangelisti hanno ripreso applicandola al Signore Gesù e vedendo quindi nel servo sofferente una prefigurazione del Cristo, quel suo essere radicalmente servo che lo ha portato addirittura a concretizzare il servizio nel dare la vita. La figura del servo attraversa un po’ tutto il Deutero-Isaia (cioè la seconda parte del libro di Isaia): tradizionalmente si identificano quattro canti chiamati “i quattro canti del servo”; anche altrove nel Deutero-Isaia si parla di questa figura del servo, però la tradizione esegetica ormai da tempo ci indica come riferimento questi quattro brani che hanno effettivamente una loro logica interna perché è come se dipingessero la storia di questo servo. C’è una figura per adesso non identificabile, di cui il profeta parla e che è la figura di qualcuno scelto dal Signore per portare avanti la missione di salvezza: una figura di scelto da Dio che vive pienamente la dimensione del servizio di Dio nell’obbedienza, portando avanti la missione che Dio gli affida fino alla fine, fino cioè ad arrivare al cammino di sofferenza e di morte che lo porterà alla luce. Questo tragitto del servo sofferente viene poi ripreso nel Nuovo Testamento nel cammino del Signore Gesù scelto, eletto dal Padre e rivelato ai suoi come suo Figlio (ricordate quello che avviene al Battesimo di Gesù): il Signore Gesù porta avanti questo suo cammino di servizio della missione che il Padre gli ha affidato e, come dice Giovanni, con un amore che va fino alla fine e questa fine è quella del Golgota, quando poi, sempre secondo il Vangelo di Giovanni, Gesù dopo aver detto “Tutto è compiuto, tutto è finito, siamo arrivati alla fine”, allora reclina il capo e dona lo Spirito. Dunque, facendoci adesso guidare da questi testi del Deutero-Isaia, noi in realtà ci ritroviamo inseriti dentro il cammino quaresimale, il cammino della passione, morte e risurrezione di Gesù, il cammino che ognuno di noi è chiamato a ripercorrere, ognuno di noi chiamato ad essere servo, ognuno di noi chiamato ad un servizio della missione che il Signore ci affida, il servizio del progetto di salvezza a cui ognuno di noi deve partecipare, secondo la propria vocazione, secondo il servizio che gli viene richiesto: il comune denominatore di tutti noi è che siamo servi. Allora vediamo come Isaia presenta questo servo. Il primo canto del servo di Jahvè (Isaia 42) Nel primo canto ci ritroviamo con le parole che poi verranno utilizzate per il Battesimo di Gesù: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto in cui mi compiaccio, ho posto il mio Spirito su di lui, egli porterà il diritto alle nazioni”. Dunque il servo viene investito di una missione particolare al servizio della salvezza. Fin dall’inizio questo servizio della salvezza affidato al servo si presenta come una missione difficile. Dio dice del suo servo: “Egli non griderà, né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta; proclamerà il diritto con verità, non verrà meno e non si abbatterà finché non avrà stabilito il diritto sulla terra, la giustizia di Dio”. Già si allude a una missione che porterà il servo inevitabilmente ad entrare dentro una realtà di male e di violenza, con le canne incrinate, gli stoppini che vengono spenti, dove servirà essere forti, non venir meno. Dovrà combattere il male rinunciando alle armi del male, usando armi diverse, che sono apparentemente armi deboli: dovrà entrare in una dimensione dell’amore e della mitezza. Questo però inevitabilmente crea una sproporzione assoluta perché la violenza è forza, è potere, ha armi pesanti e il servo dovrà invece combattere e vincere senza violenza, senza potenza, senza la pesantezza delle armi male, utilizzando i criteri della bontà, del rispetto, criteri che vengono dal desiderio non di distruggere, ma di salvare. È molto significativo questo fatto: non deve spezzare la canna incrinata, non deve spegnere lo stoppino dalla fiamma smorta; i criteri del mondo sono diversi: “Se la canna è incrinata, ormai non serve, spezziamola; lo stoppino della candela ormai è smorto, spegniamolo”. Questo è il criterio del mondo. I criteri di Dio, i criteri del servo e quindi i criteri nostri, invece, sono diversi: c’è lo stoppino che ormai si sta spegnendo? Cerchiamo di proteggerlo, cerchiamo di recuperare quel po’ di fiamma che ancora c’è; la canna è incrinata? Cerchiamo di raddrizzarla, facciamo in modo che non si spezzi del tutto. È la volontà di salvare a tutti i costi, appigliandosi a quel poco di bene che c’è; il servo è colui che va a cercare quel po’ di bene che c’è ancora nella realtà per poterla guarire. Il servo è quello che non dice mai: “Basta non c’è più niente da fare, spezziamo la canna”; il servo di Dio non ha mai questo atteggiamento rinunciatario, non dice mai “ormai è inutile”, va in cerca di quel poco di bene, di quel poco di vita, di quel poco che c’è per poter da lì fare salvezza, perché questa è la politica di Dio. Nell’originale ebraico si dice che “non spezzerà la canna incrinata, non spegnerà lo stoppino” e ancora “e lui non si incrinerà, non si spezzerà come la canna e non sarà debole, fumigante”. Quello che viene tradotto in “non verrà meno e non si abbatterà”, in realtà nel testo originale è detto con gli stessi verbi che vengono usati per la canna incrinata e per lo stoppino fumigante; il servo non si incrina, il servo non diventa fumigante pure lui, rispetta la realtà malata allo scopo di guarirla e senza farsene contagiare, con la forza che viene proprio dal fatto di poter affrontare il male con delle armi diverse sapendo che, pur nell’apparente debolezza, quelle armi sono più forti del male. Questa assunzione della realtà malata senza paura di ammalarsi è tipica del servo ed è una manifestazione di forza nell’apparente debolezza. Solo chi è molto forte può avere la pazienza di aspettare, può confrontarsi con il male senza averne paura, può essere paziente, come Dio. Questa è la missione del servo. Il secondo canto del servo di Jahvè (Isaia 49) Nel secondo canto questa missione del servo si specifica meglio nella linea di una percezione di stare a fare qualche cosa di inutile. Dice il secondo canto: “Ascoltatemi isole, udite attentamente, il Signore mi ha chiamato dal seno materno, fin dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome”; dunque vedete il servo consapevole della propria chiamata: “Il Signore mi ha detto: Mio servo sei tu”; poi però il servo parla della sua esperienza: “E io ho risposto: invano ho faticato, per nulla e vanamente ho consumato le mie forze, però certo il mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa è presso il mio Dio”. Il servo per tre volte dice con tre avverbi diversi che quello che sta facendo sembra inutile: invano, per nulla, vanamente. Questa idea di vuoto, di inutilità, di inconsistenza, di girare a vuoto, vanamente, come se la missione, nel momento in cui il servo la esplicita, gli desse l’impressione di non servire a niente. Fa parte dell’essere servi la percezione che quello che facciamo non serva; perché sembra che noi portiamo avanti discorsi, criteri, logiche, strategie che non sono quelle del mondo, che sembra non sapere che farsene del nostro servizio. Questa idea di inutilità viene anche dal fatto che c’è strutturalmente una inadeguatezza assolutamente tipica del servo nei confronti del suo servizio e nei confronti della sua missione, perché la missione è di Dio e noi siamo inadeguati: i criteri a cui bisogna obbedire sono quelli di Dio, allora noi ci ritroviamo a muoverci su un piano diverso da quello in cui si muovono di solito gli altri, per cui abbiamo l’impressione di ritrovarci sempre a mani vuote perché i risultati del nostro servizio non sono mai verificabili, non si muovono sul piano del successo o del conteggio dei numeri, di quelli che siamo riusciti a convertire; non sono quelli i criteri, perché tutto si svolge dentro le coscienze e quindi nulla è verificabile della positività del nostro lavoro e del nostro servizio: solo Dio lo può verificare e dunque giustamente dice il servo “solo in Lui è la nostra ricompensa”. Quello che avviene in risposta al servizio del Regno, al servizio della salvezza, al servizio del bene non è quantificabile, non è verificabile: si deve lavorare sapendo che c’è chi semina e poi è un altro che raccoglie; se noi seminiamo poi non raccogliamo e non sappiamo dove è caduto il nostro seme, se nella terra buona, se in mezzo alle pietre, se in mezzo alle spine; noi dobbiamo seminare, poi dove cade questo lo sa il Signore e quali frutti ne verranno questo lo sa il Signore. Noi dobbiamo lavorare sapendo che lo sa Lui: noi restiamo sempre a mani vuote, senza mai poter dire “guarda, questo l’ho fatto io”... mai! Perché appena noi lo diciamo, quella missione non è più la missione di Dio, è la nostra e gli uomini delle nostre missioni non sanno proprio che farsene. Riconoscere che la missione è del Signore vuol dire essere servi: in questa esperienza di spossesso radicale, di essere servo di qualche cosa che non è mio, noi possiamo allora davvero dare tutto fino alla fine perché abbiamo la certezza che la ricompensa è nel Signore. Il terzo canto del servo di Jahvè (Isaia 50) Una missione che segue questi criteri, che non risponde al male con il male, che accetta di seminare senza sapere, che accetta di andare per strade secondo criteri che sono diversi da quelli del mondo, inevitabilmente il mondo rifiuterà un servizio di questo tipo. Ed ecco allora il terzo canto dove compare la dimensione del rifiuto violento. “Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro, ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mia guance a coloro che mi strappavano la barba, non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi”. Il rifiuto prende la dimensione della violenza e della umiliazione: la barba strappata non è solo un gesto di violenza, con cui si infligge sofferenza all’altro, ma è un modo con cui lo si umilia perché la barba era segno di dignità per il mondo antico e per il mondo semitico. E poi gli sputi in faccia sono un gesto di disprezzo e di umiliazione ben comprensibile ormai per tutti. Non è difficile qui riconoscere quello che avviene al Signore Gesù nella Passione, con il dorso flagellato, proprio come quello del servo, e con gli insulti e gli sputi dei soldati che lo prendono in giro e lo umiliano, cercando attraverso l’umiliazione di distruggere l’uomo: la violenza distrugge il corpo, l’umiliazione distrugge lo spirito, la coscienza di sé e quindi il tentativo è veramente quello di mettere radicalmente a tacere questo servo scomodo che porta avanti una missione che il mondo non può riconoscere. Questa reazione violenta rivela, però, anche quanto è grande il bisogno degli uomini e del mondo di essere salvati, quanto è grande il bisogno di questa missione, di questo servizio, di questa salvezza: la reazione violenta di rifiuto rivela che gli uomini a cui il servo è mandato e a cui anche noi siamo mandati sono ormai diventati talmente conniventi con il male che quando viene qualcuno a dire: “Ti vengo a liberare”, reagiscono dicendo: “Liberare da che? Io non ho bisogno di essere liberato”; ”Ma tu sei in prigione, tu sei cieco” e questo casomai viene percepito come un’offesa a cui si reagisce: “Io ci vedo e ci vedo bene”; e ancora: “Ma io vengo a liberarti!” e la risposta: “Ma io sono libero!”. Quando si entra nel male, si arriva ad un tale livello di connivenza con il male che non lo si riesce a riconoscere più come male: non sai più distinguere ciò che è male e ciò che è bene e quindi sei nel male, sei in prigione, sei cieco e invece credi di vederci, credi di essere libero; il male lo chiami bene: questa è la vera malattia, il vero problema dell’uomo per il quale anche noi oggi siamo mandati. Si chiama bene ciò che è male; allora quando vai a dire: “Io vengo a portarti il bene e a levarti dal male” reagiscono. Vi ricordate quando calano dal tetto il paralitico a Gesù? (Marco 2,1-12) Gesù dice: “Ti son rimessi i tuoi peccati” e reagiscono, perché non hanno capito dov’è il problema della vera liberazione e allora dicono: “No, un momento che stai dicendo? Guarda che questo non cammina. Allora se vuoi far qualcosa fallo camminare”; e Gesù sembra dire: “No, il problema è da un’altra parte e allora, perché si capisca che il problema vero dell’uomo è di essere perdonato, quindi liberato dal male, perché si sappia che io possa perdonare i peccati, allora adesso dico: alzati e cammina, ma la guarigione è un’altra”. Noi siamo davanti ad un mondo che o chiama il male bene e quindi proprio rifiuta radicalmente ogni nostro tentativo di aiuto (nostro, poi, di Dio chiaramente attraverso di noi) oppure chiedono altro, chiedono gambe che camminino, chiedono pane...e va tutto bene, è giusto chiederlo, ma solo se si capisce che rispondere a questo vuol dire portare, oltre alle gambe che camminano e oltre al pane, qualche cosa di cui quel pane è segno, cioè la possibilità di condividere quel pane con i fratelli, la possibilità di aprirsi all’amore, la possibilità di lasciarsi salvare, la possibilità di aprirsi alla fratellanza, la possibilità di aprirsi alla comunione: questa è la vera guarigione. Se il pane lo mangi da solo, ti strozzi; il pane ti nutre quando è pane che tu ricevi e condividi, ma questo è un messaggio difficile e allora il mondo reagisce, con i flagelli e gli sputi e tuttavia questo non basta: il servo viene condannato a morte. Il quarto canto del servo di Jahvè (Isaia 52-53) Il quarto canto è chiaramente il canto del servo sofferente, ma è evidentemente il canto della Passione di Gesù verso cui stiamo camminando in questo tempo di Quaresima. Si parla di un servo dall’aspetto sfigurato tanto era grande il suo dolore e che però, proprio in questa sofferenza e in questa umiliazione, trova la sua glorificazione: vedete il mistero di Pasqua che già comincia. “Ecco il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato, innalzato grandemente”. Al tempo stesso, di questo servo si dice: “tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto”; dunque dove si rivela massimamente l’umiliazione e il dolore, proprio lì si rivela la gloria di Dio e la glorificazione del servo, che per arrivare alla luce deve attraversare il buio della morte: “Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima”. Vedete non solo il dolore, ma la sofferenza indicibile della solitudine: davanti al servo si coprono la faccia, è un gesto apotropaico per non lasciarsi contagiare da quel dolore, ma è anche il gesto della chiusura radicale, che mette il diaframma, che dice: “Io con te non voglio avere nulla a che fare”. Il servo, nell’esercizio della sua missione, deve accettare di essere solo e di avere solo Dio al suo fianco; “Ed era disprezzato - dice il testo -; non ne avevamo alcuna stima eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Il castigo che ci da salvezza si è abbattuto su di lui, per le sue piaghe noi siamo stati guariti. Maltrattato si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca, era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori e non aprì la sua bocca”. Il compimento evidente di tutto questo è nel Signore Gesù, che si carica non delle nostre colpe, ma delle conseguenze delle nostre colpe, rispondendo al male con il bene, così da distruggere il male e ridare innocenza anche ai peccatori; eppure questa realtà non appare, quello che sembra è che questo servo sia castigato da Dio: è quello che avviene nella vicenda di Gesù. “Si è detto figlio di Dio? E se è figlio di Dio, che scenda dalla croce! Non scende, quindi è evidente che non è figlio di Dio! E’ invece giustamente condannato”, fino ad arrivare a quello che dice San Paolo, nella lettera ai Galati: “Si è fatto maledizione per noi, perché è maledetto chiunque pende dal legno” maledetto! Sembra un uomo maledetto o, come dice il canto: “castigato, percosso da Dio e umiliato”. L’amore del servo è talmente grande e il dono di sé è talmente gratuito da non pretendere neppure di essere riconosciuto: il servo, che è poi il Signore Gesù, dà la vita per noi e non pretende neppure che questo si veda, che questo ci costringa in qualche modo ad una gratitudine che poi sarebbe persino insopportabile; il dono è talmente gratuito che Lui muore e non chiede neppure che venga riconosciuto che sta morendo per noi. Bisogna poi che il dono venga accettato per ciò che è e che quindi si accolga il dono di un servo che sta dando la vita per noi con una tale delicatezza, con un tale rispetto per noi, con una tale gratuità che non muore dicendo: “Guardate che sto morendo per voi!”. No, Lui sta morendo per noi nella libertà, senza che questa morte diventi un peso per noi, anzi ci libera da ogni peso, ci fa totalmente liberi. E il servo muore, dice il canto, senza aprire bocca, in silenzio. Voi vi ricordate quanto i Vangeli insistono sul fatto che durante il processo Gesù non parla? “E Gesù non apriva la bocca”, proprio così, come agnello muto, non apriva la bocca. E gli dicono: “Ma non senti quello che stanno dicendo? Non senti ciò di cui ti accusano? Che dici?” E Lui zitto. Lui parla solo quando c’è in gioco la verità della sua missione e la verità del Padre, ma quando si tratta di rispondere alle accuse, allora Gesù tace. Perché l’unico modo che aveva Gesù per rispondere alle accuse era dimostrare che quelle accuse erano false, ma questo avrebbe significato incriminare per falsa testimonianza i falsi testimoni; allora la legge prevedeva che i falsi testimoni dovessero essere condannati a quella pena che con la loro falsa testimonianza avevano provocato: ora loro stanno provocando una condanna a morte quindi, se Gesù avesse risposto dimostrando che erano falsi accusatori, sarebbero stati condannati a morte... ecco perché l’agnello rimane muto. Gesù accetta di morire, di dare la vita per salvare loro che altrimenti sarebbero stati condannati a morte.. .per salvare noi che altrimenti saremmo condannati a morte! Perché quello che avviene nel processo di Gesù non è qualche cosa che è avvenuto lì e basta: quello era il Figlio di Dio, quello che è avvenuto lì vale per tutti e dunque c’eravamo anche noi ad accusarlo falsamente; ed eravamo dunque anche noi che, se Gesù avesse risposto, saremmo stati condannati a morte. Gesù accetta di morire perché gli uomini potessero invece vivere; è così che il servo porta a compimento la sua missione, portando l’amore fino alla fine, pronto a morire trasformando il morire in dare la vita e così consentendo a tutti i falsi accusatori, a tutti i peccatori, a tutti noi di ricevere la vita e di essere definitivamente salvati dalla morte. Conclusione Questo è il cammino del servo, il cammino del Signore Gesù, il cammino che viene chiesto anche a noi se vogliamo essere servi, chiamati da Dio al suo servizio. Siamo dunque chiamati a combattere il male con armi diverse dal male, a rispondere al male con il bene anche se questo sembra tanto più debole, anche se questo viene rifiutato, anche se questo apparentemente ci condanna a morte; chiamati a vivere il nostro servizio in totale inadeguatezza e in totale gratuità con le mani vuote, con le mani aperte, senza pretendere di vedere risultati perché quelli sono lasciati a Dio solo; chiamati a fronteggiare il rifiuto degli uomini, nella certezza che rispondere con l’amore vince anche il rifiuto e la violenza; chiamati a intercedere come il servo, perché del servo si dice che ha interceduto per tutti, chiamati a intercedere per quegli stessi che ci stanno rifiutando; chiamati in definitiva a dare la vita in totale gratuità, senza aspettarci nulla in cambio, pronti persino a dare la vita in quel modo delicato, gratuito, silenzioso che è donare la vita senza neppure pretendere che questo dono sia riconosciuto. Questo vuol dire essere servi e questo allora è il cammino che il profeta Isaia ci indica per questo tempo di Quaresima, così da poter, assieme al servo e assieme al Signore Gesù, attraversare il buio per giungere alla luce, per portare la luce a tutti i nostri fratelli, attraversare la morte per accedere alla vita, ad una vita che è vita risorta e che dunque è vita che non muore più. Buona Quaresima!

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