La Pietà tra le macerie. Stalingrado e Leningrado. I film, i documentari e gli approfondimenti e 300 foto originali



PER PREPARARE L'AVVENTO 
CON GLI OCCHI E LA TESTA....





La Pietà tra le macerie.
La Chiesa, l'Avvento, la storia







QUI I FILM E GLI APPROFONDIMENTI










Stabat Mater dolorósa
iuxta crucem lacrimósa,
dum pendébat Fílius.


La Madre addolorata stava
in lacrime presso la Croce
su cui pendeva il Figlio.

Eia, mater, fons amóris,
me sentíre vim dolóris
fac, ut tecum lúgeam.

Oh, Madre, fonte d'amore,
fammi provare lo stesso dolore
perché possa piangere con te.







Scena finale del film "Stalingrad" (1993)

Eia, mater, fons amóris,
me sentíre vim dolóris
fac, ut tecum lúgeam.

Oh, Madre, fonte d'amore,
fammi provare lo stesso dolore
perché possa piangere con te.

Iuxta crucem tecum stare,
et me tibi sociáre
in planctu desídero.

Accanto alla Croce desidero stare con te,
in tua compagnia,
nel compianto.




Fac, ut portem Christi mortem,
passiónis fac me sortem
et plagas recólere.

Fa' che io porti la morte di Cristo,
avere parte alla sua passione
e ricordarmi delle sue piaghe.

Flammis urar ne succénsus,
per te, Virgo, sim defénsus
in die iudícii.

Che io non sia bruciato dalle fiamme,
che io sia, o Vergine, da te difeso
nel giorno del giudizio.





Un bimbo piange sua made a Stalingrado

Fac me cruce custodíri
morte Christi praemuníri,
confovéri grátia.

Fa' che io sia protetto dalla Croce,
che io sia fortificato dalla morte di Cristo,
consolato dalla grazia.

Quando corpus moriétur,
fac, ut ánimae donétur
paradísi glória.

E quando il mio corpo morirà
fa' che all'anima sia data
la gloria del Paradiso.




La Pietà tra le macerie.
La Chiesa, l'Avvento, la storia

Per comprendere il Vangelo di oggi e cosa significhi essere assediati ecco i film e la documentazione sulla battaglia di Stalingrado (tra l'estate del 1942 ed il 2 febbraio 1943) e l'assedio di Leningrado (dall'8 settembre 1941 al 27 gennaio 1944). Guardate tutto mettendovi anche voi nella città, con la vostra famiglia e i vostri figli. Il pericolo sempre incombente tiene desta l'attenzione, alta la guardia e viva l'attesa della liberazione; ma il protrarsi dell'assedio e della battaglia nasconde il pericolo di abbandonarsi allo sconforto e smarrire a poco a poco la propria dignità e ridursi in bestie affamate pur di sopravvivere; sino a lasciarsi andare e suicidarsi nello scolorimento dell'esistenza precipitata nell'inverno freddo che assidera i sentimenti. Gli assedi di Stalingrado e Leningrado sono una formidabile metafora della nostra vita e della storia della Chiesa. In essi possiamo scoprire anche il senso profondo dell'Avvento che ci accingiamo a vivere. Siamo assediati dal demonio: ci accerchia, per impedirci di uscire da noi stessi; ci bombarda con le menzogne, per distruggere le fondamenta della nostra fede, le opere di Dio nelle nostre famiglie, nella comunità, nei fratelli. Ci taglia i rifornimenti di viveri ovunque spargendo veleno tra i media, a scuola, a volte anche nella Chiesa, per intristirci e rubarci con astuzia lo zelo e il desiderio delle cose sante, l'ascolto della predicazione e della Parola di Dio, le celebrazioni e i sacramenti. Mira a sfinirci e a deturpare l'immagine divina impressa in noi, per farci assomigliare a lui, angelo decaduto e trasformato in serpente, costringendoci a strisciare per trovare nutrimento dovunque sia e a qualunque prezzo. Vuole farci abbandonare la primogenitura e farci disertare la missione altissima e decisiva alla quale siamo chiamati, per spingerci a tornare al mondo; ci vuole spegnere la ragione illudendoci che potremmo saziarci con brandelli di carne avariata, simulacri di amori e sentimenti che portano dentro un germe mortale. Ma Cristo è risorto, ha vinto il demonio e la morte ed è con noi, ogni giorno, sino alla fine del mondo. Non c'è assedio, per quanto inumano e feroce sia, che abbia ragione di Lui, a cui il Padre ha dato ogni potere, in Cielo e in terra, anche nelle Stalingrado e Leningrado che ci attendono ogni giorno. Basta restare uniti a Cristo nella Chiesa, aggrappandosi alla sua promessa e ai memoriali della sua fedeltà e misericordia piantati nella nostra vita. Essi, infatti, non sono vecchie foto ingiallite, ma parte di una storia autentica, di una vita che, come un canale sotterraneo, continua ad irrorare l'esistenza, anche nella prova più dura, anche tra le tentazioni più angoscianti. 

E, misteriosamente, come da una fonte nascosta, tra le ferite, la fame e la sete, la precarietà e la debolezza, lascia fluire un rivolo di Grazia che muove il nostro cuore alla pietà: essa "indica la nostra appartenenza a Dio e il nostro legame profondo con Lui, un legame che dà senso a tutta la nostra vita e che ci mantiene saldi, in comunione con Lui, anche nei momenti più difficili e travagliati. È un legame che viene da dentro. Si tratta di una relazione vissuta col cuore: è la nostra amicizia con Dio, donataci da Gesù, che suscita in noi innanzitutto la gratitudine e la lode, il senso più autentico del nostro culto e della nostra adorazione. Nello stesso tempo ci aiuta a riversare questo amore anche sugli altri e a riconoscerli come fratelli. Il dono della pietà significa essere davvero capaci di gioire con chi è nella gioia, di piangere con chi piange, di stare vicini a chi è solo o angosciato, di correggere chi è nell’errore, di consolare chi è afflitto, di accogliere e soccorrere chi è nel bisogno. C'è un rapporto molto stretto fra il dono della pietà e la mitezza. La pietà che ci dona lo Spirito Santo ci fa miti, tranquilli, pazienti, in pace con Dio, al servizio degli altri con mitezza" (Papa Francesco). Miti in mezzo alla violenza, come l'Agnello che ha sconfitto il drago dell'Apocalisse. Mansueti sino a dare la vita per e con i propri amici, come nella scena finale del film "Stalingrad" del 1993, dove i due protagonisti appaiono proprio come in un dipinto della "Pietà". Pazienti sino ad amare consumandosi perché il fratello più piccolo abbia la vita, come le due donne - non sono un'immagine della Chiesa? - del film "Attacco a Leningrado". Per non abbandonare nessuno al suo destino di morte, siamo chiamati a tornare sui nostri passi e convertirci, se per un momento abbiamo pensato di disertare, perché Dio sa come far partire senza di noi l'aereo dell'egoismo (cfr. "Stalingrad" del 1993); convertirci sempre per cercare e abbracciare tutti con lo stesso amore di Maria vedendo in ciascuno Cristo deposto dalla Croce. L'amore della Chiesa, che entra con il più debole nella morte che è conseguenza dell'assedio del demonio, lasciando che la coltre immacolata della misericordia celeste si stenda sulle fatiche e i fallimenti, sani ogni ferita e doni il riposo. E' questo manto dolce l'Avvento del Signore nella storia di ciascuno, la sua venuta al momento della morte fisica e ogni giorno, al termine delle battaglie cruente che ci attendono. Di questo hanno bisogno i nostri giovani, così fragili nel tritacarne del mondo; i nostri anziani, abbandonati dalla cultura ai margini della storia; gli sposi e i genitori, esposti alle raffiche del pensiero mondano; i pastori e i religiosi, in trincea per non perdere lo zelo per il Vangelo. Ecco dunque l'attitudine per vivere ogni giorno l'Avvento che attende con fede, speranza e carità il ritorno di Cristo: la pietà, l'adorazione mite e piena di speranza mentre infuria la tempesta, la preghiera che tesse con la fede la trama del fare sotto i dardi del demonio, l'amore, immerso nell'amore di Cristo tra la corruzione del mondo, per lasciare rivestire se stessi e gli altri della misericordia di Dio. Per vivere ogni giorno nell'attesa sempre più innamorata dell'arrivo del nostro Sposo.




STABAT MATER DI PERGOLESI








I FILM 



STALINGRAD (1993)







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ATTACCO A LENINGRADO (2009)













STALINGRAD (2013)














IL NEMICO ALLE PORTE (2000)










DOCUMENTARI





















APPROFONDIMENTI



Leningrado, la strage che Stalin poteva evitare

Non furono giorni di eroismo: cittadini uccisi per rubare il cibo, molti casi di cannibalismo

Corriere della Sera

MOSCA - Nel cuore dell' inverno di sessant' anni fa entrava nel suo periodo più tragico l' assedio di Leningrado, il più drammatico che la storia ricordi, con almeno 750 mila tra uomini, donne e bambini che morirono di fame e di freddo. Un evento che l' Urss ha sempre commemorato con grande retorica: la città eroica, la popolazione pronta a tutto pur di resistere al nazista invasore, l' incrollabile fede nel successo finale sotto la guida di Stalin. Ma oggi, anche alla luce dei documenti emersi dagli archivi segreti, la storiografia riesamina quegli eventi con più freddezza. Ed emergono sempre più forti i dubbi sul comportamento del dittatore sovietico: si accorse solo troppo tardi dell' importanza anche strategica di Leningrado. Fino a quel momento fece troppo poco per salvare la città: «Gli abitanti di Leningrado non sono gli unici a morire. La gente muore anche al fronte e nei territori occupati», rispose a chi gli parlava della terribile odissea che si stava svolgendo nella capitale del Nord. E nei lunghissimi 900 giorni dell' assedio, ma soprattutto nei mesi di gennaio e febbraio del 1942, le cose in città non andarono come gli storici ufficiali hanno sempre raccontato, con milioni di persone che ordinatamente si dividevano il poco cibo disponibile. Bande di disperati assalivano e assassinavano inermi cittadini per strappare loro le tessere per le razioni; migliaia di persone ricorsero al cannibalismo e almeno 300 furono le fucilazioni per questo motivo. L' arrivo delle colonne motorizzate tedesche alle porte della città colse del tutto impreparati i comandanti locali. Anziché evacuare i civili, si stavano occupando di costruire trincee e fortificazioni, impiegando almeno mezzo milione di persone. E quando gli alti ufficiali della Wehrmacht arrivarono fino alla collina di Pulkovo, dalla quale si potevano osservare a occhio nudo le guglie dell' Ammiragliato e la fortezza di Pietro e Paolo, in città c' erano viveri per 30-60 giorni. I due milioni e mezzo di abitanti (tra i quali 400 mila bambini) potevano essere riforniti solo attraverso un corridoio che consentiva di raggiungere il territorio ancora in mano sovietica. Ma Stalin e i suoi generali pensavano a Mosca, al resto del fronte, non si curavano di quanto Hitler aveva annunciato: «Non entreremo dentro Leningrado, lasceremo che la fame e il freddo facciano il lavoro per noi. Poi, in primavera tutto dovrà essere raso al suolo, non rimarrà traccia di quella città». A novembre l' accerchiamento fu completato. Per qualche settimana ancora, nonostante gli intensissimi bombardamenti (fino a 18 ore di seguito), un' ombra di collegamento venne mantenuta sul lago Ladoga, con battelli e zattere. Poi venne il ghiaccio e Leningrado non ricevette più nemmeno uno spillo. L' acqua mancava, l' elettricità non arrivava più dalle centrali ormai in mano ai tedeschi. Ogni famiglia ricevette due litri e mezzo di cherosene per tutto l' inverno. Le razioni per gli operai che lavoravano scesero a 125 grammi di un pane fatto in buona parte con cellulosa. Gli adulti che non lavoravano ricevevano 473 calorie al giorno (oggi si calcola che il minimo per mantenersi in salute è 3.000), i bambini 423, meno di un quarto di quello che deve ricevere quotidianamente un neonato. Furono divorati i cani e i gatti; poi i topi. La gente mangiava la colla, la vasellina e il cuoio. Le bombe avevano ucciso migliaia di abitanti, ma soprattutto avevano rotto tutti i vetri delle case. E a gennaio la temperatura scese a 21 sotto zero; a febbraio toccò i meno 30. Nessuno aveva più la forza di recarsi al lavoro; gli operai dormivano nelle poche fabbriche funzionanti. I morti venivano trascinati via sulle slitte e ammucchiati nei luoghi di sepoltura perché il terreno era troppo duro per scavare le fosse. Poi rimasero nella case, per le strade. Iniziò il cannibalismo: «Ne ho visti a dozzine di cadaveri spogliati. Coi coltelli avevano portato via dei pezzi nelle parti dove ancora c' era un po' di muscolo», ha raccontato un' ex insegnante, Zinaida Pavlova. Ma c' era anche chi finiva per mangiare carne umana quasi inconsapevolmente: «Ogni tanto riuscivamo a ottenere misteriose polpette in cambio di oro. Nessuno chiedeva cosa ci fosse dentro», ha confessato un altro dei sopravvissuti di quell' assedio, Mikhail Shetinkino. Oltre alla morte, il grande freddo portò anche la salvezza. Sul lago ghiacciato iniziarono a viaggiare i camion. Si costruì anche una ferrovia che continuò ad andare fino al disgelo, con gli ultimi convogli che avevano già le ruote nell' acqua. Poi Stalin capì che se avesse ceduto Leningrado si sarebbe aperta una gravissima breccia nel fronte nord e anche il collegamento tra Mosca e i porti dell' Artico sarebbe stato interrotto. Così la «via della vita» sul lago Ladoga venne tenuta aperta a qualsiasi costo. Ma l' assedio durò fino al ' 44: 900 giorni. Le cifre ufficiali parlano di 641 mila morti per fame, in buona parte nell' inverno ' 41-' 42. Secondo gli studiosi, però, una stima di 750 mila è più realistica e c' è chi parla di un milione di morti. Solo per sgombrare la città dai cadaveri nella primavera del ' 42 furono messi al lavoro 300 mila civili. Fabrizio Dragosei Campagna di Russia 1939 Patto di non aggressione tedesco-sovietico 1941 22 giugno, aggressione tedesca all' Urss senza dichiarazione di guerra Ottobre-dicembre La battaglia di Mosca: il governo sovietico si trasferisce a Kuybisev, ma Stalin (nella foto) rimane nella capitale. L' inverno blocca l' avanzata tedesca Novembre Assedio di Leningrado. I tedeschi entrano a Stalingrado 1942 Nel novembre i sovietici contrattaccano e accerchiano i tedeschi a Stalingrado 1943 Tra gennaio e febbraio si conclude la terribile «battaglia di Stalingrado» con la vittoria dei russi Nov.-dicembre Conferenza di Teheran tra Churchill, Roosevelt, Stalin. Si concordano lo sbarco in Normandia e l' avanzata russa da Ovest 1944 A gennaio finisce l' assedio di Leningrado 1945 A maggio l' Armata Rossa entra a Berlino.

Dragosei Fabrizio





Stalingrado e 77 italiani

Il Post


Esattamente 70 anni fa, un aereo da ricognizione tedesco che sorvolava Stalingrado, nella Russia meridionale, comunicò al comando che per la prima volta in sette mesi, tra le macerie della città, non c’erano più segni di combattimento. Due giorni prima il comandante tedesco aveva disobbedito all’ordine di Hitler di resistere fino all’ultima pallottola – quella destinata a sé stesso – e si era arreso all’Armata Rossa. Altri centomila soldati dell’Asse lo avevano seguito nei due giorni successivi. Tra questi c’erano anche 77 italiani, finiti per sbaglio nella morsa che aveva circondato la città di Stalingrado. Soltanto due di loro tornarono in Italia.
Quella dei 77 soldati a Stalingrado è una storia che è stata sconosciuta per lunghissimo tempo e di cui non si ritrova quasi traccia negli archivi ufficiali. Non ci sarebbero dovuti essere soldati italiani in città: quando nel novembre del 1942 i russi circondarono Stalingrado, ci combattevano solo tedeschi. Gli italiani si trovavano in un altro punto del fronte e per quei 77 italiani fu un incredibile colpo di sfortuna trovarsi coinvolti nell’ultima fase di una delle battaglie più famose (e più dure) della storia.
Nella steppa, lungo le sponde dei grandi fiumi Volga e Don, ma soprattutto nell’intrico delle rovine della città distrutta dai bombardamenti, si affrontarono per sette mesi più di 3 milioni di soldati, decine di migliaia di cannoni e migliaia di aerei e carri armati. Fu la prima e più grande sconfitta dell’esercito tedesco nella Seconda Guerra Mondiale, una sconfitta che rese chiaro al mondo come per la Germania la guerra sul fronte orientale era oramai persa ed era solo questione di tempo – e di milioni di altri morti – prima che i russi arrivassero a Berlino.
La storia di quella battaglia è più o meno questa. Nel 1939, dopo essersi spartiti la Polonia, Germania e Unione Sovietica avevano firmato un patto di non aggressione. Hitler non aveva intenzione di rispettarlo, a differenza di Stalin, che ci credeva in modo quasi fanatico. All’alba del 22 giugno 1941 – una giornata che oggi è una ricorrenza nazionale in Russia – la Germania presentò formalmente la dichiarazione di guerra. Due ore prima, quella che venne definita «la più gigantesca macchina da guerra mai assemblata nella storia dell’umanità» aveva cominciato a rotolare verso est, con obbiettivo Mosca.
Vale la pena di raccontare il modo con il quale Stalin reagì quella notte. Le sue spie lo avevano da lungo tempo informato delle intenzioni tedesche, ma Stalin si era rifiutato di credere a qualunque avvertimento – e diverse persone erano finite davanti al plotone d’esecuzione per aver insistito troppo. Stalin, incredibilmente, si fidava di Hitler. Quando la notte del 22 giugno il generale Zukov lo chiamò e gli raccontò che i tedeschi stavano bombardando le città russe, alla fine del discorso chiese: «Ha capito quello che le ho detto, compagno Stalin?». Dall’altro lato della cornetta si sentiva solo un respiro affannoso. Per diverse settimane quasi nessuno vide più Stalin.
Nonostante le perdite enormi subite dai russi, i tedeschi non riuscirono a conquistare Mosca. Dopo la pausa invernale nei combattimenti – una pausa che non fu percepita come tale da molti dei soldati al fronte – Hitler decise di cambiare obbiettivo. Non più Mosca, ma i pozzi petroliferi del Caucaso. In questa seconda offensiva capitò quasi per caso la città di Stalingrado, un po’ come per caso i 77 italiani capitarono nella stessa città nel novembre di quell’anno.
Capitò per caso perché – come potete vedere da una cartina – nel caso vogliate conquistare il Caucaso, la città di Volgograd – la vecchia Stalingrado, anche se oggi è tornata a chiamarsi così – non sembra essere proprio un obbiettivo prioritario. Però all’epoca Volgograd si chiamava Stalingrado, da oltre 15 anni, e quando le operazioni nel Caucaso si rivelarono molto più difficili del previsto – quasi fallimentari – Stalingrado si trasformò da un obbiettivo secondario in un punto d’onore. Come scrisse un generale tedesco in quei giorni, parlando di Hitler e della sconfitta nel Caucaso: «Quest’uomo ha perso la faccia; ha capito che il suo gioco con il destino è finito, che la Russia sovietica non sarà sconfitto in questo secondo tentativo». Hitler non era riuscito a sconfiggere Stalin sul campo: ora voleva sconfiggerlo simbolicamente, conquistando la città che portava il suo nome.
Dal settembre del ’42 la VI Armata, la più grande unità dell’esercito tedesco che contava quasi mezzo milione di uomini, venne concentrata nel piccolo spazio della città sul Volga, nello sforzo di conquistare la riva ovest con una serie di poderose testate. I russi tenevano una piccola striscia di terra lungo la riva e facevano affluire rinforzi attraverso il fiume, come si vede nelle prime scene del film il Nemico alle Porte di Jean Jaques Annaud. Mano mano che le truppe tedesche si concentravano a Stalingrado, i fianchi si facevano sempre più deboli, fino a che, nel novembre del 1942, a proteggere i lati della VI Armata tedesca c’erano solo le truppe degli alleati rumeni, pochi e male armati.
Gli italiani si trovavano ancora più ovest, a fianco dei rumeni e ben lontani da Stalingrado, in una zona che fino a quel momento era stata tranquilla. Erano in circa duecentomila, con scarponcini da neve chiodati che facevano filtrare l’acqua e congelavano i piedi. Però avevano diversi camion e mentre a Stalingrado i tedeschi combattevano strada per strada (la chiamavano la Rattenkrieg, la guerra dei topi), il fronte italiano restava tranquillo. Così, a metà novembre un gruppo di quei camion venne inviato a Stalingrado con il compito di consegnare carburanti e munizioni e raccogliere assi di legno per costruire i bunker sotterranei in vista del freddo invernale.
Pochi giorni dopo la partenza di quella spedizione, i russi lanciarono un’offensiva contro i deboli fianchi di Stalingrado tenuti dai rumeni. Era il 19 novembre. L’obbiettivo era circondare tutti i 300 mila tedeschi che combattevano nella città e nella periferia. L’attacco riuscì e tre giorni dopo l’inizio dell’offensiva, il 22 novembre, i carri armati russi si incontrarono in un villaggio a sud di Stalingrado, completando l’accerchiamento. I 77 soldati italiani si erano avvicinati a Stalingrado appena in tempo per essere presi in trappola.
Avevano dai 20 ai 34 anni, quasi tutti avevano ricevuto la cartolina, uno di loro era volontario. Erano “autieri”, cioè uomini della logistica: si occupavano di trasporti, non combattevano in prima linea. Una delle prime volte in cui il loro caso comparve in un libri di storia, fu in Stalingrado, di Antony Beevor, del 1998, ma la ricerca storica più approfondita su di loro l’ha compiuta un italiano, Alfio Caruso, nel suo libro Noi moriamo a Stalingrado, del 2006. Caruso ha cercato i familiari di quei 77 italiani, li ha intervistati e ha ricostruito una grande mole di documenti storici (qui potete leggere il primo capitolo del libro).
L’assedio durò dal 22 novembre 1942 al 2 febbraio 1943. I tedeschi cercarono di rifornire le truppe intrappolate con un ponte aereo, ma né il cibo né le munizioni consegnate furono sufficienti. Dentro il Kessel – che vuol dire “sacca”, ma anche “calderone” – i tedeschi intrappolati morivano di fame e di freddo oltre che per le bombe e le pallottole. Per mesi i russi strinsero lentamente l’accerchiamento, fino a che, alla fine di gennaio, i tedeschi controllavano solo alcuni quartieri di Stalingrado.
Hitler aveva ordinato di resistere fino all’ultima pallottola, ma non fu un ordine molto rispettato. Quando il 2 febbraio gli ultimi tedeschi si arresero, i russi poterono contare tra i loro prigionieri ben 22 generali («Se credono che mi sparerò in testa per quel piccolo caporale boemo si sbagliano di grosso», aveva detto il comandante tedesco Friederich Paulus riferendosi a Hitler). A quei 22 andò tutto sommato bene, in confronto agli altri prigionieri. Su 100 mila soldati catturati, soltanto 6 mila tedeschi sopravvissero alla guerra.
Walter Poli e Vincenzo Furini furono gli unici due a sopravvivere tra i 77 italiani. Di molti di loro non c’è nemmeno un certificato di morte. La resa, che molti speravano avrebbe messo fine alla fame e al freddo degli ultimi mesi, si rivelò peggio dell’assedio. I prigionieri, così denutriti e deboli che morivano non appena mangiavano un pasto troppo ricco di grassi, vennero incolonnati – spesso senza scarpe e con vestiti inadeguati – e condotti ai campi di prigionia con lunghe marce a -30 gradi.
Nessuno dei due superstiti volle raccontare molto di quell’avventura, come se avessero voluto dimenticarla. Caruso, nel suo libro, racconta uno dei pochi episodi che uno dei due sopravvissuti si lasciò sfuggire una volta tornato a casa. Davanti ai capricci di un nipote, raccontò che una volta alcuni commilitoni erano così disperati per la fame che si cibarono del cadavere di un compagno morto. Come a dire che i problemi del nipotino non erano poi una gran cosa.
Ma la cosa più struggente di tutto il racconto, che vale tanto per gli italiani quando per i tedeschi, sono le lettere che i soldati spedivano a casa. Durante l’accerchiamento gli aerei arrivano trasportando rifornimenti – sempre pochi – e ripartivano con a bordo i feriti e la posta. Così ci sono rimaste molte delle lettere che gli uomini, morti a Stalingrado o nei campi di prigionia russi, spedivano a casa. Mentre nel Kessel i soldati cercavano di sopravvivere tagliando pezzi di carne dai cavalli morti, con gli arti congelati, senza poter bere nemmeno la neve perchè non c’era il carburante per scioglierla, la cosa di cui si preoccupavano di più nelle loro lettere era cercare di non far preoccupare i propri cari.
«Sempre allegria, è l’unico modo di vivere molto», scriveva a casa Bruno Calderigi. «Di’ a Gianni che gli voglio tanto bene e che se farà il bravo bambino gli porterò una bella bicicletta di quelle rosse», scriveva Bruno Puschiavo. A gennaio – sono tre mesi oramai che sono sotto assedio senza cibo, senza vestiti adatti e senza riscaldamento – Calderigi riusciva ancora a scrivere: «Scrivete sempre anche se io ritardo, ma non pensate male. La Madonnina che mi avete messo a protezione mi salverà». Calderigi morì, probabilmente di fame e freddo, in un campo di prigionia russo.




Viktor SUVOROV
La storia non è quella dei vincitori (Stalin e l'invasione di Hitler)

tratto da: intervista di M. Quadri tratta da La Nuova Europa, n. 1, 2001.

Nel giugno di quest'anno si compiranno sessant'anni da quel drammatico 22 giugno 1941 in cui le truppe tedesche invasero l'Unione Sovietica, dando alla guerra una svolta fatale per il nazismo, e creando involontariamente il cliché della "lotta antifascista" guidata dal socialismo. Su questa guerra non è stato ancora scritto tutto: troppe reputazioni da difendere, da una parte e dall'altra, hanno contribuito a tenere nascosti molti fatti anche essenziali. L'interpretazione della guerra di cui disponiamo è quella manichea dei vincitori; per questo, a sessant'anni di distanza, siamo ancora intenti a scavare negli avvenimenti nascosti, grazie al fatto che poco alla volta cadono alcuni divieti. Un contributo originale in questo senso è stato dato da uno scrittore russo, Viktor Suvorov, ex funzionario dei servizi segreti militari sovietici e storico autodidatta, è uscito anche in Italia il suo primo libro su Stalin e la seconda guerra mondiale, "Stalin, Hitler. La rivoluzione bolscevica mondiale". Il libro sostiene una tesi a dir poco rivoluzionaria: l'attacco a sorpresa di Hitler all'Unione Sovietica nel 1941 fu in realtà un'estrema reazione per prevenire l'attacco di Stalin. Una simile tesi comporta un vero ribaltamento della storiografia del '900, che normalmente considera l'opposizione antifascista dell'URSS socialista (e la lotta antifascista della sinistra in genere) come il nodo cruciale del XX secolo. Se veramente Stalin si preparava a invadere l'Europa, significa che la sua opposizione a Hitler era solo strumentale, in vista del più ampio scontro con le democrazie dell'Europa occidentale. La tesi di Suvorov è dunque di quelle che suscitano polemiche infuocate. Viktor Suvorov è lo pseudonimo di Vladimir Bogdanovich Rezun, nato nel 1947, figlio di un ufficiale dell'Armata Rossa. Ha compiuto studi militari all'Accademia Suvorov e alla Scuola militare superiore di Kiev. Dopo aver partecipato all'invasione della Cecoslovacchia nel '68, nel 1970 è entrato nel GRU (i servizi segreti militari) e in questa veste ha risieduto a Ginevra dal 1974 al 1978. Quello stesso anno ha chiesto asilo politico in Inghilterra ed è stato condannato a morte in Unione Sovietica. Ha scritto diversi libri sulla vita nell'esercito e sull'intelligence sovietica. Ma ha raggiunto la fama con la serie di libri (già cinque) sul problema della guerra fra Hitler e Stalin. In Russia i suoi libri hanno venduto 4 milioni di copie; grande successo hanno avuto anche in Germania, Polonia, Bulgaria, Inghilterra e Francia. In Italia è appena uscito il primo volume della serie, che in russo s'intitola "La rompighiaccio".

Per cercare di ricostruire la vicenda delle sue ricerche, ci dica quando ha visto la luce per la prima volta il libro.
Viktor SUVOROV: Nel 1981 il libro era già pronto per la stampa, ma allora non trovai un editore, erano ancora i tempi di Brezhnev. Con l'inizio della perestrojka capii che era venuto il mio momento e incominciai a pubblicare degli stralci su varie riviste. Ad esempio il settimanale "Russkaja mysl'" di Parigi ne pubblicò alcuni capitoli nel 1985. Ma il libro completo è uscito solo nel 1989 in Germania; in Russia è stato pubblicato nel 1992. La prima tiratura era molto limitata (320.000 copie) ma la seconda ha raggiunto i due milioni. E poi ci sono state altre edizioni.

Il libro ha provocato molte reazioni in Russia?


Viktor SUVOROV: Tantissime. A casa ho 16 metri cubi di lettere da parte dei lettori. Sono molto orgoglioso del fatto che mi scrivano per confermare la mia tesi; moltissime lettere, oltre che dalla Russia, provenivano anche dalla Germania. In questo modo mi sono trovato in possesso del più grosso fondo di manoscritti sulla seconda guerra mondiale esistente oggi; sono testimonianze di ex militari o dei loro figli, che hanno affidato le proprie memorie a me e non ai centri di ricerca. La reazione in Russia è stata enorme; il libro ha avuto più di tremila recensioni, da quelle osannanti a quelle assolutamente negative. Alcuni dicevano che ho completamente ragione e che non c'è niente da discutere. Altri dicevano che copro di fango la mia patria, che è inutile rivangare cose così spiacevoli. Ma io penso che quando si scrive di storia non ha alcuna importanza che sia piacevole o spiacevole; se teniamo conto di quello che piace o non piace, di quel che serve o non serve, immediatamente usciamo dall'ambito della storia ed entriamo in quello della propaganda. Non mi considero uno storico, io semplicemente cerco di fare chiarezza su ciò che è successo. Il mio unico criterio è quello di scoprire se una cosa è vera oppure no, se si tratta di un fatto o di un'invenzione. Io ho usato solo fonti accessibili; l'ho dichiarato sin dalla prima pagina: tutto quello che dico può essere verificato da chiunque sui giornali "Pravda" e "Krasnaja zvezda", negli scritti di Lenin e Marx, nei discorsi di Stalin e dei nostri marescialli, Zhukov, Konev, Rokossovskij. E' tutto scritto nero su bianco. Io per principio non uso documenti segreti. Alcuni giornalisti, proprio qui in Italia, hanno scritto che Suvorov ha accesso a materiali segretissimi, ma non possiamo essere sicuri che questi materiali esistano veramente. In realtà io ho detto esplicitamente sin dalla prima pagina che non ho nessun documento segreto; chiunque può verificare tutto di persona.

Può dirci in breve da cosa è nato il suo interesse per questo argomento?


Viktor SUVOROV: Il mio interesse è iniziato da alcune considerazioni molto semplici. 1941, inizia la guerra. Hitler attacca e sbaraglia l'esercito regolare sovietico, 5 milioni di uomini. Il nostro esercito si sbanda immediatamente. Noi sovietici abbiamo 24mila carri armati, Hitler ne ha solo 3.000. In più i carri sovietici sono molto migliori di quelli tedeschi. Eppure Hitler sgomina tutte queste forze in pochissimi giorni. E la nostra propaganda dice che siamo stati degli idioti, che non abbiamo saputo combattere, eccetera. La cosa strana è che poi tutti questi idioti sono tornati capaci e hanno sconfitto Hitler, hanno vinto la guerra e hanno occupato Berlino, metà Europa e un pezzo di Asia. Ma un idiota non può diventare intelligente. Il maresciallo Zhukov nel '41 è un incompetente e nel '42 è il grande generale di Stalingrado. Il fatto è che non si tratta di idiozia ma di qualcos'altro. Un altro elemento ancora. La nostra propaganda aveva un ritornello costante: "tutto va per il meglio". La nostra agricoltura prosperava, il nostro esercito era il più forte, il nostro balletto era il migliore; persino i cataclismi naturali erano un segreto di Stato. Questa regola ha una sola eccezione: sul 22 giugno del 1941 la nostra propaganda ha detto di tutto, che i nostri carri armati erano pessimi, che il nostro esercito era stato decapitato e non c'erano comandanti in capo competenti né buoni ufficiali; che i nostri aerei erano delle carrette e che insomma eravamo stati degli incapaci. Quand'ero all'Accademia militare mi fu detto che non si doveva parlare né occuparsi della grande sconfitta sovietica subita nell'ottobre del 1941 nella regione di Kiev. Nel 1942 c'era stato un altro rovescio militare presso Char'kov, e poi ancora in Crimea; inoltre nella primavera dello stesso '42 il generale Vlasov con la II armata d'assalto fu preso in una sacca mentre cercava di liberare Leningrado e venne fatto prigioniero.


Su tutti questi episodi da noi non si è mai fatta parola. Invece, della sconfitta del 1941 si davano anche i particolari: quanti aerei avevamo perso, quanti carri armati, eccetera. Era su tutti i giornali. Prendiamo ad esempio la battaglia di Stalingrado che pure ci ha visti vincitori: dove mai si è detto quante perdite abbiamo avuto? Era un segreto. Invece le perdite del giungo 1941 non erano un segreto. Come mai i fatti dell'ottobre '41 erano stati nascosti, mentre quelli del giugno '41 erano sbandierati in tutti i modi? Tutto questo mi incuriosiva. E finalmente ho intuito che il fatto di ripetere pubblicamente quanto eravamo stati stupidi era il classico atteggiamento di chi cerca di nascondere la propria responsabilità. La nostra propaganda ha insistito sull'incompetenza di Stalin, dei generali e della truppa, sulla pessima qualità dei carri armati e degli aerei, per nascondere il progetto d'aggressione. Per questo ho incominciato a interessarmi del problema e ho trovato diversi dati documentari.


Quando studiavo all'Accademia militare, ciascuno di noi doveva scrivere una tesina su qualche argomento riservato, perché gli insegnanti potessero giudicare se era adatto al lavoro di ricerca, all'insegnamento o a qualche altro impiego. Io per distrarre l'attenzione ho trattato vari argomenti, ma poi mi sono scelto in particolare il tema dell'anno 1941. Le informazioni le ho poi raccolte in una serie di libri (cinque in tutto), di cui quello uscito ora in italiano è solo il primo.
Per fare qualche esempio: ho trovato una carta militare tedesca della zona di confine, tracciata nel giugno 1941; dalla carta si può capire la distribuzione delle forze alla vigilia dell'invasione tedesca: a destra e a sinistra della linea di confine si osservano forti concentramenti di truppe, rispettivamente dell'Armata Rossa e della Wehrmacht. Il concentramento delle truppe tedesche è comprensibile, visto che stanno per attaccare; ma quello delle truppe sovietiche? Parecchi chilometri più a est del confine, dietro la linea di fortificazione sovietica, che si chiamava «linea Stalin», non ci sono truppe. Nessuno difende queste fortificazioni, mentre tutto il nostro esercito sta sul confine. Qui le fortificazioni senza esercito, dall'altra parte l'esercito senza fortificazioni. Non sembra molto strategico. I nostri aeroporti si trovano a ridosso del confine, a volte a 8-10 chilometri di distanza, il che vuol dire che basta un puntatore scelto tedesco per distruggere a cannonate gli aeroporti e il nostro stato maggiore. In più negli aeroporti gli aerei stanno uno vicino all'altro, basta colpirne uno con una granata per farli saltare tutti (come di fatto è avvenuto). Anche l'esercito è disposto in modo strategicamente illogico: ci sono concentrazioni di truppe in due zone avanzate in territorio nemico, così da avere i tedeschi su tre lati, basta che questi sfondino da una parte per creare immediatamente una sacca (come di fatto è avvenuto). Inoltre il mar Nero, con i suoi porti e l'accesso al bacino carbonifero del Donbass, non hanno nessuno che li difenda. Allora mi sono reso conto che dal punto di vista difensivo siamo all'assurdo, ma guardando la situazione dal punto di vista offensivo ci troviamo una certa logica. Ad esempio a sud, dov'è concentrata una grossa parte dell'Armata Rossa, passa l'oleodotto che porta il petrolio dalla Romania alla Germania. Allora non si tratta di un macroscopico errore, ma dei preparativi per invadere l'Europa. Del resto consideriamo la situazione nella prima metà del '41: il nostro continente è dilaniato da una guerra intestina, l'America è neutrale, anzi aiuta l'Unione Sovietica sul piano militare. Per Stalin si presenta l'occasione ideale per cercare di prendersi l'Europa. Nessuno ha ancora le armi atomiche, quindi nessuno potrebbe fermare l'Armata Rossa in quel modo; Stalin aspetta solo il momento giusto per farsi avanti. Ecco perché l'Armata Rossa è uscita oltre la linea di difesa e si è portata sul confine; ecco perché è concentrata verso sud: si prepara a tagliare la via del petrolio romeno. Nei mesi precedenti all'entrata in guerra, in URSS viene pubblicato un libretto dal titolo "Breve manuale di conversazione militare russo-tedesco per soldati e sottufficiali", Mosca, 29 maggio 1941 (ne ho trovata casualmente una copia in un mercatino a New York). Ce ne sono anche altre edizioni fatte a Leningrado il 5 giugno; a Kiev il 7 giugno, a Odessa, a Minsk. In tutto 5 milioni di copie. Ho visto per la prima volta questo libriccino quando studiavo all'Istituto superiore. Avevamo un'enorme biblioteca, con un'intera sezione di vocabolari in tutte le lingue del mondo. Io studiavo inglese e tedesco, ed ero andato a cercare qualcosa di piccolo da leggere per rinfrescare il mio tedesco. Così scoprii questo manuale e la sua lettura mi lasciò esterrefatto. Tra le frasi suggerite ai soldati sovietici (frasi che figurano prima in russo, poi tradotte in tedesco ma traslitterate in cirillico, e infine in tedesco vero e proprio), troviamo ad esempio: "Come si chiama questa città?", "Come si chiama questa stazione?", frasi che suonano ben strane in bocca a dei soldati che si preparano alla difesa del suolo nazionale. Più avanti troviamo anche questa frase: "Non avete niente da temere, presto arriverà l'Armata Rossa". Ancora un altro elemento. Quando incominciò la guerra, venne fatto prigioniero il figlio di Stalin, Jakov Dzhugashvili, che era comandante di una batteria d'artiglieria. Abbiamo il verbale degli interrogatori che gli fecero i nazisti. Gli fu chiesto come mai l'artiglieria sovietica, che era la migliore al mondo, combattesse così male. E lui rispose che mancavano le carte per fare i puntamenti; senza le carte non si poteva combattere, neanche l'aviazione poteva farne a meno. In realtà ho trovato i documenti a comprova che sul confine l'Armata Rossa abbandonò 4 milioni di carte. Non però quelle del territorio sovietico dove si stava combattendo, ma carte militari molto precise della Prussia orientale, della Cecoslovacchia, della Polonia; tutte stampate nel marzo 1941. Quando i tedeschi invasero, i nostri non erano in grado di difendersi sul proprio territorio. La propaganda insisteva nel dire che non eravamo pronti alla guerra, invece lo eravamo, solo non a una guerra difensiva, ma a una offensiva. Alcuni lettori mi hanno inviato alcune di queste carte militari, ritrovate fra i ricordi di guerra del padre, o del nonno. Ad esempio una carta della Prussia orientale mi è stata mandata recentemente da un tenente colonnello della polizia ucraina; suo padre aveva fatto la guerra e l'aveva conservata. Queste carte sono una specie di paradosso: ma come, ci prepariamo alla difesa e abbiamo una carta del territorio nemico? Molti, che hanno letto i miei libri, mi mandano documenti che hanno in casa e che confermano in modo circostanziato la verità delle mie asserzioni.


E un altro fatto ancora: Hitler aveva preparato 4.000 paracadutisti, Stalin ne aveva preparati un milione, che non usò mai. Era una cosa fatta alla luce del sole, se ne scriveva apertamente sui giornali, negli anni '30, sulla "Pravda", su "Krasnaja zvezda"; era una psicosi nazionale, tutti si lanciavano col paracadute. Ma perché prepararne così tanti? Nel paese si faceva la fame, ma Stalin aveva comprato dall'America la seta per i paracadute. Poi iniziò la guerra e non li usarono mai più. Perché allora li avevano preparati? Per attaccare alle spalle l'Europa. Hitler aveva conquistato tutta l'Europa, Cecoslovacchia, Belgio, Olanda, Polonia, Francia. Stalin aveva aiutato Hitler a distruggere tutta l'Europa, usandolo come una rompighiaccio. Lo stesso aveva fatto all'interno del paese, ordinando a Ezhov di distruggere tutti i nemici, e questi lo aveva fatto. Poi Stalin aveva ammazzato Ezhov, dicendo che la repressione era tutta colpa sua. Hitler era per Stalin uno strumento uguale riguardo all'Europa. Voleva fargli distruggere tutto: combattere contro i partigiani jugoslavi, probabilmente contro l'America, combattere in Africa contro gli inglesi; doveva sbarcare in Inghilterra. Ma alle spalle di Hitler, l'Armata Rossa sarebbe uscita dai suoi confini. Per questo erano pronti gli aeroporti sul confine; avevamo persino dei carri armati aviotrasportati. Nessuno aveva questi mezzi negli anni '40. Ma quando Hitler sferrò l'attacco Stalin non li poté usare, come non usò mai i paracadutisti, o i carri armati veloci, perché tutto questo sul territorio sovietico era inutile. La data prevista per l'invasione era stata fissata al 6 luglio del 1941. Hitler riuscì a precederla di un paio di settimane.

Tutti questi fatti verificabili dovrebbero però trovare delle conferme anche nei documenti segreti conservati negli archivi...


Viktor SUVOROV: Sì. Dopo la pubblicazione del mio primo libro in Russia c'è stata una forte reazione, e molti storici che hanno accesso agli archivi hanno cercato e trovato conferme alla mia tesi, conferme di cui si è parlato anche sulla stampa. Ad esempio, nel giugno del 2000, quando avevo appena finito di scrivere "Il suicidio", il mio ultimo libro su Hitler, dagli archivi del presidente della Federazione Russa è stato riesumato un documento super-segreto (in copia unica, manoscritta) in cui è esposto il piano del maresciallo Zhukov per l'attacco alla Germania, datato 15 maggio 1941. Un'altra storica, Tat'jana Semënovna Bushueva, ha trovato dei documenti importantissimi. Attualmente gli archivi sono accessibili con più libertà, diversi storici ci lavorano e poi mi comunicano i frutti delle loro ricerche.

La decisione di Stalin di invadere l'Europa fu una sua idea o aveva radici più profonde?


Viktor SUVOROV: Karl Marx riteneva che la rivoluzione socialista dovesse essere solo mondiale, ha sempre parlato solo di rivoluzione mondiale; anche Lenin pensava che la rivoluzione dovesse essere mondiale. Lenin creò la Terza internazionale come stato maggiore della rivoluzione mondiale, e diceva sempre che doveva vincere o l'uno o l'altro fronte, e aveva ragione. L'Unione Sovietica era una società che non poteva esistere accanto a un'altra normale, che avrebbe costituito l'esempio di una vita diversa. Per questo anche Stalin riteneva che bisognasse diffondere questo regime a tutto il mondo, altrimenti l'Unione Sovietica si sarebbe disintegrata e non avrebbe potuto sopravvivere. E aveva perfettamente ragione. Quando Hitler lo attaccò, Stalin era convinto che la guerra fosse persa e nel 1945 era ancora convinto di aver perso; nel '45 si rifiutò di assistere alla parata della vittoria. E a chi gli chiedeva perché, rispose: "Voi non lo capite ma noi abbiamo perso la guerra, prima o poi l'Unione Sovietica si disintegrerà perché non siamo riusciti a conquistare non dico il mondo, ma neanche l'Europa". Quindi alla sua domanda rispondo che Stalin non aveva vie d'uscita; qui non c'entra l'imperialismo russo. Non è questo. La differenza è che l'impero russo poteva fermarsi nella sua espansione (tant'è vero che hanno rivenduto l'Alaska), mentre l'Unione Sovietica non si poteva fermare, doveva diffondersi a tutto il mondo o morire.






FOTOGRAFIE

















































































































































175 grammi di pane, la razione giornaliera










































































































































































































































































































































































































































































































































































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