Lunedì della II settimana del Tempo Ordinario






Maràn athà




E' inutile illuderci che sulla terra si possa conquistare quello che è riservato al Cielo. Se pensiamo così, e così affrontiamo le giornate, il fidanzamento e il matrimonio, lo studio e il lavoro, le vacanze e le difficoltà, significa che il demonio ci sta ancora ingannando. Come hanno fatto le ideologie, inghiottendo intere generazioni nell'abbaglio che sia possibile fare della terra un paradiso. E oggi, dopo essersi sbriciolate nell'urto con la realtà, molti tentano di riciclarle facendo indossare loro i panni della salute e della qualità della vita, dei diritti, dell’emancipazione e dell'autodeterminazione, per attirarci nel miraggio di un mondo senza dolore, fatica e sudore. E senza la morte, che, in un paradosso tipico del demonio, si pensa di cancellare dando la morte alle persone e alle situazioni che la ricordano con più evidenza. Divorzio, aborto ed eutanasia sono l'inganno legalizzato che seduce la nostra incapacità di entrare nella sofferenza che la vicenda terrena suppone, trascinandoci però in sofferenze sempre più grandi. Fateci caso, è come una droga: più cerchi di scappare dal dolore combattendolo, più cresce; più cerchi di esorcizzarlo con evoluzioni culturali e conquiste civili, più allarga il suo cratere. Perché la terra non è non sarà mai il Paradiso. E' contaminata dal peccato e le sue conseguenze amare sono proprio il dolore, la fatica e il sudore che vorremmo cancellare o perlomeno evitare. Impossibile, e non perché Dio non esiste e se esiste è un mostro che castiga. E' l'esperienza personale che ce lo dice: se un bambino si avvicina al fuoco e disobbedisce allungandovi la mano, si scotta. E' un castigo? No, è una conseguenza. Ma proprio attraverso il dolore della scottatura il bambino capisce di essere diverso dall’adulto, di avere dei limiti e molto di imparare da sua madre. Così il dolore, il sudore e la fatica sono le conseguenze del peccato di Adamo ed Eva e di ciascuno di noi, non i castighi che Dio ha inflitto all'uomo. Ma sono anche la prova che Egli esiste e non ha smesso di amarci, perché ci lascia liberi sino in fondo, e non a corrente alternata come accade tra di noi. Mentre proprio il dolore ci rivela che non siamo Dio e non possiamo eludere o piegare la realtà a nostro piacimento. Ma ciò significa soprattutto che la nostra salvezza passa di lì, dal dolore, dal sudore e dalla fatica. Dalla nostra storia di oggi, così com'è, precaria, ferita, incompiuta perché lontana dal Paradiso. La nostra vita è un lungo “digiuno” in attesa di consumare le nozze per le quali siamo stati creati. Stiamo, infatti, vivendo i “giorni nei quali lo sposo ci è tolto”: non sperimentiamo quasi quotidianamente la delusione per le speranze che sembrano andare in fumo? La precarietà economica, fisica e spirituale ghermisce l'esistenza non lasciandole nulla a cui appoggiarsi. Ecco, proprio quando la Croce ci accoglie, nudi e indifesi come Adamo ed Eva lontani dal Paradiso il “digiuno” si rivela come la condizione essenziale per vivere autenticamente nell'attesa del compimento. Non mangiare, non fumare, non guardare la televisione, spegnere internet e social networks, insomma digiunare da qualcosa, non è solo una pratica pseudo-ascetica che, spesso, fa della religione un'idolatria dell’ego; quanti di noi preti saziamo la nostra libido con i selfie spirituali che ci scattiamo dopo una celebrazione, un incontro, un’omelia, un buon consiglio offerto... Digiunare, invece, è un'esigenza, una questione di vita o di morte; è come il grido del popolo di Israele schiavo in Egitto. E' l'ascesi autentica che ci fa scendere nella verità per essere attirati nel suo compimento. Perché dopo il peccato originale Dio ha profetizzato che la salvezza sarebbe giunta proprio nelle sue amare conseguenze. Il dolore della donna nel partorire e la frustrazione nei rapporti con l’uomo verso il quale la muove l’istinto d’amore, insieme con la fatica e il sudore dell’uomo per lavorare e mangiare, sono la realtà da cui ripartire e convertirsi: sono, infatti, le attività che uniscono misteriosamente la creatura al suo Creatore. Ma, attraversate da dolore e fatica sono anche le ferite che le ricordano la propria origine generando in essa, come nel figlio prodigo, la nostalgia della casa paterna. Destata ancor più violentemente dalla morte, la conseguenza più grave del peccato. Tutti di fronte ad essa ci troviamo atterriti pensando che non sia possibile che finisca tutto così. Certo che no! Ma Dio non ha voluto cancellare i nostri passi erranti nella libertà; i peccati commessi sono un fatto, non c’è possibilità di reset. Non sarebbe giusto e farebbe di noi dei burattini senza testa e cuore. Ma Dio ha fatto di più: è entrato Lui stesso nelle conseguenze dei nostri peccati per trasformarle in possibilità di bene. E’ ciò che ha compiuto Gesù nel suo Mistero Pasquale: per amore di ogni peccatore è entrato nel dolore, nella fatica, nel sudore e nella morte per farne un cammino alla risurrezione e alla vita eterna. E ce lo offre oggi e ogni giorno come la possibilità di una vita nuova, come “vino nuovo in otri nuovi!”. Altro che “toppe di panno grezzo su vestiti vecchi”, come sono tanti nostri tentativi moralistici, superficiali e ipocriti di conversione, entusiasmi emotivi che evaporano alla prima difficoltà. Gesù è infinitamente più realista dei “discepoli di Giovanni e dei farisei” e di tutti noi. La sua Parola ci tira giù dai sogni improbabili di redenzione e riscatto dal grigiore e dai fallimenti, impedendoci di scappare nell’alienazione che ci propone il demonio. Per “tornare” alla Patria perduta occorre invece “convertirci”, cambiare cioè radicalmente il modo di pensare e di essere e imparare a “digiunare”, che, per Gesù e i suoi discepoli, significa amare. Per un cristiano il digiuno è "naturale" perché è il segno con il quale afferma di accettare di essere peccatore e di aver bisogno della storia così com’è, perché sa che è l’unico cammino alla salvezza e alla gioia. Solo entrando nel dolore che suppone ogni relazione autenticamente umana, e accettando la fatica di ogni giorno possiamo partecipare con Cristo al suo Mistero Pasquale. Per questo il digiunare autentico, al quale ci si allena con il digiuno esteriore che sottomette la carne, è quello che si compie nel cuore. E’ fare silenzio di fronte alle ingiustizie, non resistere al male che gli altri ci procurano, non intraprendere la via del divorzio, non reclamare quello che ci è stato tolto. Solo così anche il peccato e le sue conseguenze sono trasformate in "porte di speranza", vie alla salvezza. Ma per vivere così occorre partecipare al digiunare della Chiesa, sposa e vedova allo stesso tempo: essa, infatti, esplode di gioia intorno alla mensa eucaristica, ma contemporaneamente digiuna nell'attesa della parusia. Vive del Memoriale del suo Signore, l'eucarestia, presenza viva del suo Sposo amatissimo. Nel mezzo del banchetto pasquale rinnovato ogni settimana erompe in un grido di nostalgia e speranza: Maràn athà, con il quale afferma la certezza che il Signore nostro viene, ma che si può leggere anche marana tha, Signore nostro, vieni! Con la comunità cristiana, il digiuno realizzato nella storia sarà il nostro Maràn athà, il grido che implora il ritorno dello Sposo per saziare la fame d’amore che nulla e nessuno è capace di saziare. E spera in ogni circostanza che ci porti con Lui, nel posto che ha preparato per noi nel Paradiso.



QUI UN ALTRO COMMENTO E GLI APPROFONDIMENTI






    

L'ANNUNCIO
Ora i discepoli di Giovanni e i farisei stavano facendo un digiuno. Si recarono allora da Gesù e gli dissero: «Perché i discepoli di Giovanni e i discepoli dei farisei digiunano, mentre i tuoi discepoli non digiunano?». Gesù disse loro: «Possono forse digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con loro? Finché hanno lo sposo con loro, non possono digiunare. Ma verranno i giorni in cui sarà loro tolto lo sposo e allora digiuneranno. Nessuno cuce una toppa di panno grezzo su un vestito vecchio; altrimenti il rattoppo nuovo squarcia il vecchio e si forma uno strappo peggiore. E nessuno versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino spaccherà gli otri e si perdono vino e otri, ma vino nuovo in otri nuovi».
 (Dal Vangelo secondo Marco 2,18-22)







Amore e libertà: i discepoli di Gesù digiunano per amore, in libertà. Il digiuno cristiano è memoria, non è solo una pratica religiosa per purificarsi. E' inginocchiarsi dinanzi al Crocifisso e implorare il suo ritorno. E' una condizione essenziale dell'esistenza, è, paradossalmente, vivere autenticamente la vita terrena, che è già e non ancora. Lo Sposo è con noi, ma, contemporaneamente, non lo è in pienezza, che è riservata al Cielo. La terra è ancora un cammino, passi che si susseguono verso il compimento, e la mancanza e il desiderio si acuiscono all'avvicinarsi della meta. Le nostre nozze con il Signore sono certo indissolubili, eppure “vi sono giorni nei quali lo sposo ci è tolto”. E’ quando la vita si addentra nel mistero di una compiutezza pregustata ma non ancora completamente assaporata. E' il mistero della Chiesa, sposa e vedova allo stesso tempo, che esplode di gioia intorno alla mensa eucaristica, ma che digiuna nell'attesa della parusia. Essa vive del Memoriale del suo Signore, l'eucarestia, presenza viva del suo Sposo amatissimo. Per Lui getta ogni avere, gli spiccioli che ha per vivere, per Lui digiuna, perché Lui è la sua vita.Nel mezzo del banchetto pasquale rinnovato ogni settimana erompe in un grido di nostalgia e speranza: Maràn athà, che afferma la certezza che il Signore nostro viene, ma che si può leggere anche marana tha, Signore nostro, vieni! E' la parola che chiude la Scrittura: "Colui che attesta queste cose dice: «Sì, verrò presto!». Amen. Vieni, Signore Gesù" (Ap. 22,20). 
Il digiuno è il nostro Maràn athà, le lacrime appassionate della Maddalena presso la tomba del suo Signore; il digiuno è l'attesa fatta preghiera, perché lo Sposo torni presto per portarci con Lui. Presentando il calice nell’ultima cena, Gesù ha detto: «In verità vi dico, non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel Regno di Dio» (Mc 14,25). Dopo quel banchetto lo Sposo sarà tolto e i discepoli dovranno digiunare nell’attesa del suo ritorno, nella speranza dell’eterno «banchetto delle nozze dell’Agnello» (Ap 19,9). Il nostro digiuno partecipa così a quello di Gesù deposto nel sepolcro. Un digiuno che custodisce la promessa di bere con Lui il vino nuovo del Regno di Dio. Digiunare è spogliarci in attesa d'essere una sola carne redenta con il nostro Sposo, nell'ansia del santo e castissimo amplesso, quell'amore eterno per il quale siamo stati creati. Il digiuno esprime la novità di un rapporto autentico con Dio, non più basato sul timore ma sull'amore, come un’abitudine nuova, l’abito nuovo con il quale entrare nella storia quotidiana; come alle nozze di Cana, il digiuno prepara e spera, l’avvento del “vino nuovo”, il segno di una festa e un'allegria sconosciute che scaturiscono dall'amore più forte della morte. La Chiesa, come Maria, sa che Gesù è con Lei, nella vita dei suoi figli, anche se non è giunta ancora l’ora della sua definitiva manifestazione riservata alla parusia. Per questo prega e digiuna perché. anche se le nozze si compiranno solo nel mondo futuro, il demonio non abbia potere sul loro preludio che è la vita in questo mondo. Pur digiunando, la Chiesa non smette il “vestito nuovo” della festa per indossare abiti rattoppati che certamente si squarceranno. I cristiani non cercano soluzioni superficiali ai problemi, come i digiuni fatti per dimagrire nel corpo e ingrassare così l’uomo vecchio schiavo dell’orgoglio e della vanità. In poco tempo, e senza accorgersene, la fame del superbo si fa più forte ed esigente, e finisce per divenire più grasso e tronfio di prima, l’esito inevitabile di chi cerca sempre il compromesso tra il passato di peccato e la vita nuova della Grazia, tra il mondo e Dio, come "toppe cucite sugli strappi", "otri" incapaci di contenere e custodire l’assoluta novità dell’amore di Cristo. I cristiani, paradossalmente, digiunano pregustando già il “vino nuovo” che non spacca gli otri della propria vita, ma, proprio nella precarietà e nella debolezza di una vedova, la memoria dello Sposo che è il digiuno, costituisce la loro forza, con la quale entrano nei giorni senza dissipare e strappare nulla, donandosi con amore a tutti.





Per questo Santa Teresa d'Avila diceva "Muoio perché non muoio", e San Paolo affermava che “il morire è meglio del vivere”. Non era disprezzo della vita, anzi: più si vive intensamente la vita terrena più si desidera di addormentarsi per risvegliarsi in Cielo. Più la vita è perduta per amore, più forte è l'ansia d'un amore perfetto e definitivo: siamo chiamati a divenire “uomini che hanno in sé un desiderio così possente che supera la loro natura, ed essi bramano e desiderano più di quanto all’uomo sia consono aspirare, questi uomini sono stati colpiti dallo Sposo stesso; Egli stesso ha inviato ai loro occhi un raggio ardente della sua bellezza. L’ampiezza della ferita rivela già quale sia lo strale e l’intensità del desiderio lascia intuire Chi sia colui che ha scoccato il dardo” (N. Kabasilas). Feriti dal dardo d'amore del loro Sposo i figli delle nozze vivono un'attesa di pienezza che nulla sulla terra può colmare. Quando sperimentiamo la lontananza da una persona cara che vorremmo vicino; quando dobbiamo vedere le persone amate dileguarsi e scomparire dall'orizzonte della nostra vita; quando forte è l'esperienza della frustrazione, e sforzi, progetti, speranze sembrano andare in fumo; quando le sofferenze, la precarietà, le malattie, la solitudine, i fallimenti, ghermiscono l'esistenza e non le lasciano proprio nulla cui appoggiarsi, nulla a dare consistenza alle giornate, al lavoro, agli affetti; quando le debolezze ci rivelano incapaci di donare la vita e amore; quando la Croce ci accoglie, spogli di ogni certezza, nell'esperienza dura di trovarci lontani dal paradiso, nudi e indifesi come Adamo ed Eva prostrati dalla fatica e dal dolore; quando, come a Cana, “non abbiamo più vino”, e questo definisce senza sconti la nostra vita, il digiuno emerge quale condizione esistenziale autentica e ineludibile. Per questo in alcuni momenti, quando più intensa è l'esperienza della mancanza di pienezza e più viva è la consapevolezza che la presenza assoluta dello Sposo è questione di vita o di morte, quando siamo incastrati sul legno della Croce, è "naturale" il digiuno, il segno con il quale affermare di voler accogliere la storia così come Dio ce la dona. Cristo crocifisso, infatti, appare come la feccia degli uomini, uno davanti al quale coprirsi il volto per non guardare; eppure, celato in quel "digiuno d'uomo" c'era DioNessuno era capace di vederlo, al contrario, era lì come il peggiore dei bestemmiatori. Esattamente come appare la nostra esistenza, ferita, nuda, affamata; ma in essa è nascosto Cristo, carne della nostra carne, la sua Vita divina vi è deposta come un seme nella nostra vita mortale, la pienezza incastonata nella precarietà e nella caducità.  Non mangiare, non fumare, non parlare, digiunare da qualcosa, non è allora solo una pratica ascetica per "saziare" e ingrassare l'uomo vecchio che, spesso, fa anche della religione qualcosa di carnale, idolatrando perfino la santità. Digiunare è un'esigenza, un grido dalla Croce, l'eco stesso delle parole del Signore Crocifisso: "Dio mio, Dio mio, Sposo mio perché mi hai abbandonato?" (Sal. 21). Il digiuno sono le lacrime che sperano il Suo amore. E' questa l'ascesi, l'ascesa orante al trono della misericordia che sappiamo non deludere mai. Digiunare è lasciare che la verità prenda il posto delle menzogne, delle fughe e delle alienazioni, nella speranza fiduciosa di fare la stessa esperienza del salmista e di Gesù descritta al termine del salmo: “E io vivrò per lui… «Ecco l'opera del Signore!»” (Sal. 21). La fame che il digiuno suscita rivela la nostra realtà, quella dei nostri figli, dei giovani ai quali, troppo spesso, indichiamo percorsi diametralmente opposti e che non potranno mai realizzare le loro vite, consegnandoli così alla menzogna della vanità. E' dovere ineludibile di ogni educatore e apostolo illuminare profeticamente la vita e indicare nel digiuno, nel sacrificio, nel combattimento quotidiano, l'unico cammino che svela la verità celata nelle apparenze, la sola via autentica per vivere e non sopravvivere. Digiunare è come dipingere un'icona, un'immagine del destino promesso celato tra le pieghe delle vicende umane: "... quale percorso interiore l’icona presupponga. L’icona non è semplicemente la riproduzione di quanto è percepibile con i sensi, ma piuttosto presuppone, come egli afferma, un “digiuno della vista”. La percezione interiore deve liberarsi dalla mera impressione dei sensi ed in preghiera ed ascesi acquisire una nuova, più profonda capacità di vedere, compiere il passaggio da ciò che è meramente esteriore verso la profondità della realtà, in modo che l’artista veda ciò che i sensi in quanto tali non vedono e ciò che tuttavia nel sensibile appare: lo splendore della gloria di Dio, la gloria di Dio sul volto di Cristo" (J. Ratzinger, Messaggio inviato al Meeting di Rimini, 2002). La nostra vita è come un'icona che svela al mondo la Verità trasfigurata nella carne delle nostre storie quotidiane. E’ dunque parte essenziale della missione che ci è affidata, camminare interiormente con Cristo per aprire il Cielo della speranza a questa generazione. Questi luoghi e quest'ora non sono il destino definitivo: ogni uomo è nato per il Paradiso. Il nostro digiuno ne è un segno, per tutti.






αποφθεγμα Apoftegma







Quando era giunto per Dio il tempo di avere compassione
della sofferenza dell’umanità, sua diletta,
mandò il Figlio suo unigenito sulla terra
in quel palazzo sontuoso e tempio glorioso
che era il corpo della Vergine Maria.
Là, sposò la nostra natura e la unì alla sua persona,
grazie al sangue purissimo della nobile Vergine.
Fu lo Spirito Santo, il sacerdote che celebrò le nozze.
L’angelo Gabriele ne fu l’araldo,
e la gloriosa Vergine diede il suo consenso.
In questo modo Cristo, nostro sposo fedele,
si unì alla nostra natura,
venne a visitarci in una terra straniera
e ci insegnò i costumi celesti e una perfetta fedeltà.

Beato Jan Ruysbroeck



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