Giovedì della IX settimana del Tempo Ordinario. Commento completo e approfondimenti



Ci svegliamo un giovedì di giugno, stiamo per infilarci in uno dei tanti normalissimi giorni dell'anno, e forse non immaginiamo che oggi può diventare un giorno decisivo. E da oggi, ogni giorno potrebbe diventare fondamentale, decisivo, insomma importantissimo e tutto da vivere, senza sprecarne neppure un secondo. Allora vediamo. Nel Vangelo appare di nuovo qualcuno che "si accosta a Gesù" per fargli una domanda. Ci troviamo nelle fase delle “indagini preliminari” del procedimento penale a carico di Gesù; dopo “alcuni farisei ed erodiani” e “alcuni dei sadducei” ecco oggi “uno degli scribi”.  Ma stavolta sembra che ci sia qualcuno che cerchi davvero una risposta: "qual'è il primo di tutti i comandamenti?". In mezzo a tante domande trabocchetto finalmente ecco l'unica importante. Il termine "comandamento" ne traduce diversi ebraici che significano "una parola che affida un incarico", "un comando fissato come un ordine di servizio", la legge "incisa" che orienta e dirige il compimento di una missione. Secondo la tradizione di Israele, i comandamenti sono sempre "parole di vita": non richiede mai una fredda osservanza, ma è qualcosa di esistenziale, il cammino che conduce alla riuscita della vita attraverso il compimento della missione affidata. Lo vediamo anche in italiano: “co - mandare”, ovvero “mandare, inviare con” un incarico. "Il comandamento", dunque, è "una missione" affidata a Israele prima e alla Chiesa poi, e rivela l'elezione e la primogenitura. La domanda decisiva che appare nel Vangelo allora, può significare: "Che cos'è decisivo e imprescindibile nella vita? Quale è il cuore della missione che mi è affidata? Tra le tante che sento ogni giorno, qual'è la Parola che mi guida verso il Regno di Dio?". La nostra vita, infatti, è come una freccia scoccata dall'arco verso un obiettivo ben preciso. "Chet", uno dei termini ebraici del concetto di “peccato” significa "fallire il bersaglio"; in greco è tradotto con “hamartia”, che significa letteralmente “direzione sbagliata di vita”. Il peccato è dunque il fallimento dei propri obiettivi, un cammino contrario al compimento della propria vita. S. Agostino considera il peccato come un "bene che non ha raggiunto il suo fine". Secondo il Concilio Vaticano II è “una diminuzione per l’uomo stesso, impedendogli di conseguire la propria pienezza” (GS 1,13). E’ quello che diciamo tante volte, magari senza accorgercene: “che peccato!”, ho pensato, detto e fatto questo e guarda che macello; ho perduto questa occasione, ho buttato via il tempo, potevo fare diversamente… Allora, lo scriba si accosta a Gesù per scoprire il fondamento della propria vita capace di orientarla verso il suo compimento, la radice nella quale crescere per realizzare la propria missione e giungere così all’obiettivo fissato. Egli mostra così che non tutti a Gerusalemme erano ostili a Gesù. Ma è anche l’immagine di quella parte dell'intimo di ciascuno di noi che non è contaminata; di quel frammento che reclama di conoscere la verità, seppure confuso in mezzo alle mormorazioni sulla nostra storia e ai pregiudizi su Dio che riteniamo responsabile delle ingiustizie che patiamo. Ecco, anche oggi dovremo affrontare situazioni difficili e relazioni complicate, e potremmo reagire come sempre, cercando cioè in Gesù il responsabile delle nostre sofferenze, e nel suo insegnamento trasmessoci dalla Chiesa la causa dei nostri fallimenti. Oppure potremmo “ascoltare” questo Vangelo e convertirci, ovvero lasciare che “lo scriba saggio” che è in noi si “avvicini” a Gesù per conoscere come davvero stiano le cose. Dinanzi a questa giornata potremmo cioè chiedere al Signore: “qual'è il primo comandamento per oggi? Signore, ti prego illuminami, che cosa c’è dietro a quello che mi accade? Qual’è il fondamento sul quale appoggiare i miei pensieri, le mie parole e i miei gesti per compiere la missione alla quale mi chiami oggi?”. Scopriremmo allora che questo giorno, con i fatti e le persone che incontreremo, non è uno dei tanti usciti alla roulette della vita, ma è unico e irripetibile, e che ci è donato per fondare noi stessi sull’amore di Dio e così compiere l’incarico concreto che ci è affidato per oggi. Ecco, se sapremo porre umilmente a Gesù la domanda giusta e accogliere altrettanto umilmente la sua risposta, sapremo anche noi come lo scriba “rispondere saggiamente” agli eventi e alle persone che oggi ci chiederanno risposte concrete in parole e gesti, discernendo cioè come compiere in ogni circostanza la nostra missione nell’amore.


Gesù infatti ci risponderà allo stesso modo con cui ha risposto allo scriba: “il primo è: Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l’unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c’è altro comandamento più importante di questi”. Ci dirà che il primo dei comandamenti è che Dio è l’unico Signore della nostra vita. Che cioè Lui è il fondamento del nostro modo di essere. Se questa premessa scompare, l’amore verso di Lui e verso il prossimo che ne consegue diventa incomprensibile e quindi impossibile. Come si fa ad amare chi non si conosce? E tu lo conosci Dio? E’ facile rispondere: basta vedere se nella tua vita è “il primo” e “l’unico Signore”. Cominciamo con i soldi? O con gli affetti? O con i tuoi progetti? Forse è meglio cominciare con la sessualità, oppure con il lavoro, lo studio, il riposo e le vacanze; o con lo sport, perché no? O magari con la cultura, la politica, cioè con i tuoi criteri e convincimenti sedimentati e inossidabili. Facciamo una classifica, e vediamo in che posizione hai messo Dio sino ad oggi. Nella migliore delle ipotesi lotta per un posto in qualche coppa, nelle peggiore, e più credibile, lotta per salvarsi e non finire in serie B. Comunque, al primo posto, c’è di sicuro il tuo ego, vincitore incontrastato dello scudetto di ogni stagione, da sempre. Se lo accetti puoi cominciare a convertirti, e accogliere la prima parola della risposta di Gesù: “Ascolta!”. Ascolta, Shemà, Dio ti ama così come sei! Ti ama oggi che ti sei svegliato schiavo di te stesso e della tua paura di morire. Ti ama infinitamente, come nessuno ti ha mai amato. C’è qualcuno che, di fronte ai tuoi peccati, non ti ha mai giudicato e condannato, che non ha pensato male di te, che non ti ha disprezzato? No, nessuno mi ha amato così. Allora continua ad “ascoltare”: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù» (Es 20, 1). E’ questo il Signore tuo Dio! L’unico Signore della tua vita perché è l’unico ad avere il potere di strapparti alle situazioni angoscianti dove il demonio ti ha tenuto schiavo obbligandoti a peccare, a fallire cioè ogni tentativo di amare. “Egitto”, infatti, “Mitraym”, in ebraico significa "angoscia, luogo dove l'umano è definitivamente incastrato e rinserrato". E se l’uomo è incastrato nel servizio al faraone e ai suoi idoli non può riconoscere a Dio il primato sulla propria vita. In Egitto, nel nostro Egitto, non possiamo discernere con sapienza, siamo ignoranti perché conosciamo solo i desideri del nostro aguzzino che sollecita senza posa quelli della nostra carne. Come accadde a quanti scelsero Barabba e vollero che Gesù fosse crocifisso. Agirono “per ignoranza, come pure i loro capi”: non avevano compreso che “il primo di tutti i comandamenti” era diventato carne dinanzi a loro; ingannati dal demonio non potevano capire che il compimento dello Shemà era quel Messia che si faceva Agnello. Non potevano comprenderlo senza riconoscere di essere schiavi a causa dei propri peccati, e che proprio per loro era necessario quell’Agnello, “l’unico” che potesse prendere su di sé i loro delitti e perdonarli. Perché lo Shemà è “il primo di tutti i comandamenti” solo per chi ha sperimentato il fallimento della propria vita come conseguenza dei propri peccati, e ha accettato di non poter far nulla per liberarsi dalla morte. Così è stato per lo scriba: “Hai detto bene, Maestro, e secondo verità che Egli è unico e non v’è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore e con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso val più di tutti gli olocausti e i sacrifici”. Egli conosceva bene la Scrittura e certo ricordava il Salmo 40: “Sacrificio e offerta non gradisci, gli orecchi mi hai aperto. Non hai chiesto olocausto e vittima per la colpa. Allora ho detto: Ecco, io vengo, sul rotolo del libro di me è scritto, che io faccia il tuo volere. Mio Dio, questo io desidero, la tua legge è nel profondo del mio cuore”. Sapeva dunque di non poter fondare la propria vita sugli “olocausti”, ovvero i doni attraverso i quali si voleva rendere propizio Dio, e che i “sacrifici” offerti per il peccato non avevano il potere di cambiare il suo cuore perché potesse compiere la propria missione. Per questo Gesù dice allo scriba che ha “risposto con sapienza” e che “non è lontano dal Regno di Dio”. Non vi era ancora entrato, ma era giunto alle sue porte. Sapeva che vi poteva entrare solo “aprendo gli orecchi” per “ascoltare” la Parola e accoglierla sino a incidersi nel suo cuore, come aveva profetizzato Geremia. Voleva compiere la volontà di Dio e in questo “desiderio” incontra nel suo intimo Gesù che, come leggiamo nella Lettera agli Ebrei, aveva lo stesso “desiderio”. Proprio perché era “impossibile cancellare i peccati con i sacrifici… entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato”. Con la sua saggia risposta lo scriba aveva deposto il suo desiderio nel desiderio di Gesù. Per entrare nel Regno non gli restava che accogliere lo Shemà compiuto per lui da Gesù, il sacrificio autentico e definitivo per il perdono dei peccati offerto sulla Croce. Era quello, infatti, il “comandamento” che, nell’amore perfetto a Dio e al prossimo “valeva più di tutti gli olocausti e i sacrifici”, perché compiva pienamente ogni “comandamento” scritto sulle due tavole della Legge. Nell’offerta di Cristo, infatti, Dio scolpiva finalmente il Decalogo nel cuore di un uomo del tutto simile agli altri uomini, eccetto il peccato; e proprio in virtù di quel sacrificio, gli uomini, lo scriba, tu ed io, liberati dal giogo del peccato, possiamo realizzare il “desiderio” di una vita secondo la volontà di Dio, compiendo cioè la missione che “è scritta sul rotolo” per noi, perché nella Scrittura è profetizzata la vita di ciascuno. Coraggio allora fratelli, accogliamo l’amore di Cristo che mette in ordine la nostra vita strappandoci dalla menzogna del diavolo, il divisore, e dal giogo del faraone, che in ebraico significa appunto “disordine”. Questo giorno è decisivo perché schiude dinanzi a noi il Regno di Dio! Possiamo entrarvi attraverso la porta che è Cristo crocifisso, passando cioè attraverso gli eventi che ci crocifiggono perché in essi possiamo amare Dio e il prossimo con tutto il cuore – ovvero con “l'interno opposto alla facciata, dove ha sede l'energia vitale e dove siamo liberi e prendiamo le decisioni – con tutta l’anima – ovvero con il soffio vitale che si pensava risiedesse nel sangue, dunque con tutta la nostra vita sino a dare il sangue – e con tutte le forze – ovvero con tutti i nostri beni, compreso il nostro corpo. Sulla Croce fratelli si infrange la divisione interiore che così spesso disorienta la società e noi stessi; accade infatti che si ponga l’accento sul “prossimo” dimenticando Dio, e allora assistiamo all’idolatria dell’uomo che, proprio a causa delle buone intenzioni di amarlo senza rinvenire in lui l’immagine e la somiglianza dell’unico Signore, arriva a uccidere il più debole. O che si ponga l'accento su Dio, tipico dei falsi mistici, quelli che per esempio sapeva smascherare San Filippo Neri, e di coloro che idolatrano la religione e si saziano di riti vuoti con cui compiacciono se stessi mentre dimenticano il peccatore che bussa alla porta del loro cuore indurito nel disprezzo. Accade così quanto scriveva San Giovanni: “come può dire di amare Dio che non vede chi non ama il prossimo che vede?”. Ma Cristo ci accoglie oggi sulla Croce per compiere in noi “comandamento più grande”, amare cioè Dio che “non vediamo” quando, come Gesù, in alcune circostanze sperimenteremo perfino l’abbandono del Padre, amando il prossimo che “vediamo” debole e peccatore per dire con Lui “Padre perdonali perché non sanno quello che fanno”.


UN ALTRO COMMENTO

La "saggezza" dell'uomo consiste nel saper rispondere a una domanda, quella decisiva: "Qual'è il primo dei comandamenti?". Il Vangelo di oggi ci svela che, per essa, vi è una risposta intelligente da cui deriva una vita altrettanto intelligente, sapiente, gustosa. La parola "comandamento" traduce diversi termini ebraici che significano "una parola che affida un incarico", "un comando fissato come un ordine di servizio", la legge "incisa" che orienta e dirige il compimento di una missione. Secondo la tradizione di Israele, i comandamenti sono sempre "parole di vita": il loro compimento non è mai una fredda osservanza, ma è, invece, qualcosa di esistenziale, il cammino che conduce alla riuscita della vita attraverso il compimento della missione affidata a ciascun uomo: "Vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto, ed il vostro frutto rimanga" (Gv.15). "Il comandamento" è, dunque, "una missione", rivela l'elezione e la primogenitura, la verità affidata a Israele prima e alla Chiesa poi perché sia annunciata al mondoLa domanda decisiva che appare nel Vangelo allora, può significare: "Che cos'è decisivo e imprescindibile nella vita? Quale è il cuore della missione che mi è affidataTra le tante che sento ogni giorno, qual'è la Parola che mi guida verso il Regno di Dio?". La nostra vita, infatti, è come una freccia scoccata dall'arco verso un obiettivo ben preciso. "Chet", uno dei termini ebraici del concetto di “peccato” significa "fallire il bersaglio"in greco è tradotto con “hamartia”, che significa letteralmente direzione sbagliata di vita, come di un bersaglio che non si è riusciti a cogliere. Il termine peccato significa dunque una direzione sbagliata della propria esistenzaè relativo all'ontologia ancor prima che alla morale. S. Agostino considera il peccato come un "bene che non ha raggiunto il suo fine". Il Concilio Vaticano II afferma che il peccato è un limite che l’uomo mette alla propria crescita, “ una diminuzione per l’uomo stesso, impedendogli di conseguire la propria pienezza” (GS 1,13). Non è possibile vivere confondendo pensieri, affezioni e azioni nel grigio del compromesso; o si è sapienti o si è stolti, o con il Signore o contro di Lui: "Gesù, vedendo che aveva risposto intelligentemente"... ovvero con discernimento, con sapienza, fissando il cuore della vita nel cuore della Scrittura. L'incipit del Decalogo, le Dieci Parole di Vita vergate con il fuoco dell'amore divino e rivelate sul Sinai, rammenta un'esperienza. L'ascolto è preceduto e accompagnato da un'esperienza: la liberazione dall'Egitto. Lo stesso incipit dello Shemà, il comandamento più grande: l'amore a Dio e al prossimo scaturisce dall'esperienza dell'unicità di Dio. Per questo prima di essere un comandamento, lo Shemà è un annuncio e una profezia, la rivelazione di un'identità: Ascolta Israele, il Signore è uno. Il comandamento più grande rivela la grandezza di Colui che comanda, la sua unicità. La missione affidata a Israele prima e alla Chiesa poi, l'incarico che costituisce la vita di ciascuno di noi, rivela l'identità di Colui che incarica e affida la missione. E nella sua identità è rivelata anche quella dell'apostolo, dell'inviato. Nella relazione di intima comunione tra Liberatore e liberato è gestato, nasce e si compie il comandamento più grande. Gesù e lo scriba sono entrambi figli di Israele, conoscono le vicende del proprio popolo. Egitto, Mitraym, in ebraico significa "angoscia, luogo dove l'umano è definitivamente incastrato e rinserrato". In Egitto il popolo ha vissuto nella condizione servile, incastrato nel servizio agli idoli, e forse si è esso stesso sottomesso all'idolatria, disordine che dissipa "cuore, mente e forze". "Disordine" in ebraico si dice "faraone": a lui asservito il Popolo santo aveva perduto la sua identità, l'arco scoccato stava fallendo il bersaglio, e la vita scorreva dissipata nella fatica della schiavitù. In questa situazione fallimentare è avvenuto l'impossibile, Dio stesso è sceso a liberare il Popolo per condurlo al bersaglio autentico, al compimento della sua missione. Il comandamento più grande, la sintesi di tutta la Torah e dei profeti, è quindi il sigillo e il segno dell'opera unica compiuta dall'unico che ne aveva il potere: "Il Popolo ebraico attesta, compiendo il primo comandamento, che "solo il Signore suo Dio" può fare questo. Testimonia che ne è beneficiario. Accetta e decide, per quanto possibile, di assumere la liberazione dalla servitù del faraone. Vuole servire il solo Signore, rendergli culto, orientare tutte le sue forze, tutto il suo cuore, tutta la sua anima, tutto il suo tutto, a questo solo culto" (Marie Vidal, Un ebreo chiamato Gesù). In quella prima Pasqua Dio era solo, non v'era con Lui alcun dio straniero; ha spiegato le sue ali e ha liberato il suo popolo rivelando se stesso nella forza incommensurabile del suo amore, l'unico che ha reso possibile l'impossibile. Non vi sono altri dei, non si allineano altri signori. E' uno. E' Dio. L'unica risposta alla questione che ci pone la vita è amarlo perché è unico: amarlo con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutte le forze è l'unica vita ragionevole, intelligente, sapiente.

Nel dialogo tra lo scriba e Gesù si legge in filigrana tutta la storia di Israele che, proprio in quel momento, trova pienezza e compimento. E' il dialogo tra il Liberatore-Gesù e il liberato-scriba che si incontrano nell'amore. Per questo Gesù conclude congratulandosi con lo scriba dicendogli che non è lontano dal Regno di Dio: aderendo alle sue parole lo scriba riconosce in quel comando la missione della sua vita che consiste nell'esodo dalla condizione servile alla libertà, dall'Egitto alla Terra Promessa, dalla morte alla vita, dal peccato al compimento, all'amore totale e senza condizioni. La missione di Gesù e la missione dello scriba-discepolo coincidono! Gesù è, nello stesso tempo, Dio e il prossimo oggetti dell'amore esclusivo e geloso di cui il comandamento dello Shemà. Ma anche lo scriba è l'oggetto dello stesso amore "unico" da parte di Gesù, che per lui, come per ogni uomo, si è fatto obbediente sino alla morte di Croce: "Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono" (Eb 5,9). In ebraico i termini "ascolto" e "obbedienza" coincidono: così, nella parola dello Shemà, l'ascolto si fa obbedienza, nella quale l'amore si rivela autentico e incorruttibile. E' il paradosso che smaschera le menzogne di questa società che reclama autodeterminazione e false libertà: solo nell'obbedienza di chi si abbandona senza riserve all'amore di Cristo si compie il "comandamento più grande", il comandamento dell'uomo libero, e per questo capace di amare ad immagine e somiglianza del Dio libero che lo rigenerato nella misericordia. Non esiste vita autentica dove non esiste libertà, perché non esiste amore laddove permane la schiavitù. Dove regna il faraone vi è disordine e l'uomo vive dissipato: cuore, anima e forze si combattono conducendo l'uomo ad una schizofrenia interiore che lo distrugge. L'ascolto della sua Parola è l'unica possibilità offerta all'uomo per essere libero davvero, affrancato dal potere del demonio: "Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi". La Parola di Gesù è la Verità che annuncia la sua Croce gloriosa dove ha compiuto lo Shemà in una carne simile alla nostra; sulla Croce che ci attende ogni giorno il Signore ci offre il comandamento più grande come un dono gratuito nel quale ri-orientare la vita con cuore, anima e forze impiegate per amare. Allora, a chi consegnare se stessi se non a Gesù sul letto d'amore della Croce, dove Lui si è consegnato a noi? Dio infatti è "unico" perché il suo amore è l'unico che scende, con noi e in noi, nella sofferenza più profonda, nei dolori di un cancro, nelle angosce dei tradimenti e dei fallimenti, nei tormenti dei dubbi, in tutti gli istanti delle nostre vite. Lui è l'unico che ci ama così come siamo. Come dividere il nostro amore con idoli vani, inesistenti, incapaci di amare e di salvare? Tutto ha origine da un'esperienza nella nostra concretissima vita. Non si tratta di un impegno, di buona volontà, ma dell'amore che sorge dall'essere amato, dal quale sgorga, naturalmente, l'amore al prossimo, il dono totale che giunge sino al nemico. Nulla di sentimentale, erotico e passionale, ma un amore crudo, reale, totale, ragionevole e sapiente, amore unico per l'Unico amore. Per questo lo Shemà è il "comandamento più importante", la roccia su cui erigere l'esistenza, la stabilità nell'instabilità, la certezza nella precarietà. Lo Shemà crocifisso è il fondamento del matrimonio, della sessualità vissuta secondo la volontà di Dio, del fidanzamento, dell'amicizia, del lavoro, della Chiesa stessa. Lo Shemà irrora di eternità tutto il transitorio della vita generando la libertà di amare in qualunque circostanza, senza illusioni, nella santa indifferenza che sbriciola ogni preteso assoluto che vorrebbe rubare mente, anima e corpo. Non vi è argomento di discussione, non vi è problema, difficoltà o sofferenza, non vi è precarietà, non vi è differenza e attrito, non vi è male che abbia ragione dell'amore che compie lo Shemà. Esso incarna il Cielo in ogni questione della terra, mette in fila le priorità e i valori, illumina le questioni più intricate, sciogliendole dal laccio che le vorrebbe innalzare in un assoluto teso a nascondere il fondamento autentico. Lo Shemà è l'antidoto al fallimento dei rapporti: chi vive lo Shemà non dirà mai "non ti amo più, sono cambiati i miei sentimenti, non è più come prima", perché esso inchioda ogni relazione sul robusto Legno della Croce, il luogo della libertà che si fa dono, sia quel che sia, costi quel che costi. Lo Shemà è il sigillo della Grazia e dell'elezione a vivere sulla terra l'amore celeste, la missione affidata alla Chiesa e a ciascuno di noi.





l modo esatto di amare il prossimo Agostino, De doctr. christ., 1, 26-29

Dunque, poich? non è necessario un ordine, perch? ognuno ami se, stesso e la propria persona, cioè, poich? ciò che noi siamo singolarmente e comunitariamente ci riguarda in modo partico-lare, amiamo con una legge fermissima che anche negli animali è stata estesa - infatti anche gli esseri inferiori amano s? stessi e i loro corpi - non rimaneva, e per quel precetto che è sopra di noi, e per quello che è presso di noi, che osservarlo, come sta scritto: « Amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, e con tutta la tua intelligenza » e, « Amerai il prossimo tuo come te stesso ». Da questi due comanda-menti dipende tutta la legge e i profeti (Mt. 22, 37-40). L'amore, infatti, è lo scopo del precetto, cioè, ambedue di Dio e del prossimo. Poich? se tu ti ami nella tua interezza, cioè nell'anima e nel corpo, e parimenti, il tuo prossimo, nell'anima e nel corpo -la persona umana, infatti, è composta di anima e di corpo - in questi due comandamenti non è tralasciata nessuna delle cose che bisogna amare. Precedento, infatti, l'amore di Dio ed apparendo prescritta la maniera di amarlo, tanto che le rimanenti cose sono comprese in esso, sembra che niente sia stato detto intorno al-l'amore di te stesso, ma, poich? si è detto: « Ama il tuo prossi-mo come te stesso » simultaneamente anche l'amore di te stesso non è stato disgiunto da te. Vive, infatti, una vita giusta e santa, colui che sa stimare rettamente le cose; questi inoltre, è colui che ha un amore ordinato, perch? o non ama ciò che è da amarsi, oppure non ama ciò che deve amarsi, o ama esageratamente ciò che deve amare di meno, oppure ama in maniera eguale ciò che deve amare o di meno o di pi?, poich? è da amarsi in maniera giusta. Ogni peccatore, in quanto è tale, non lo si deve amare, ed ogni uomo, in quanto è tale, deve essere amato per amor di Dio, ma Dio, per se stesso. E se si deve amar maggiormente Dio che ogni uomo, ognuno deve amare Dio più di se stesso. Parimenti si deve amare di pi? un altro uomo che la propria persona, poich? è a motivo di Dio che tutte queste cose si debbono amare, e un altro uomo può insieme con noi godere di Dio, ciò che non può il corpo, poich? il corpo vive per mezzo dell'anima, con la quale godiamo di Dio. Tutti gli uomini, inoltre, debbono amarsi in maniera giusta, ma poich? tu non puoi essere di utilità a tutti, devi provvedere in special modo a quelli che sono uniti a te pi? strettamente quasi con una certa sorte, dalle condizioni o dei luoghi, o dei tempi o di qualsiasi altra circostanza. Come, infatti, se tu fossi nell'abbondanza in qualche cosa, ciò che bisognerebbe dare a colui che non ha, non si sarebbe' potuto dare a due persone, se ti venissero incontro due, dei quali n? il primo n? il secondo supera l'altro o per indigenza o in qualche bisogno verso di te, [e cos? agendo] non faresti niente di pi? giusto che scegliere per sorte a chi si dovrebbe dare, poich? non è possibile dare a tutti e due, cos? negli uomini, ai quali tutti tu non possa provvedere, si deve giudicare che ognuno può esserti congiunto temporaneamente dalla sorte. Inoltre, fra tutti, quelli che con noi possono godere di Dio, in parte amiamo quelli che aiutiamo, in parte quelli dai quali siamo aiutati, in parte quelli del cui aiuto abbiamo bisogno ed alla cui indigenza siamo venuti incontro, in parte quelli ai quali n? abbiamo dato alcunch? di utilità e n? da quelli da cui attendiamo che venga elargito a noi. Dobbiamo, tuttavia, volere che tutti amino Dio insieme con noi, e deve tendere tutto a quest'uni-co scopo il fatto o che noi siamo loro di aiuto, oppure essi di giovamento a noi.


Amore di Dio e amore del prossimo Colombano Abate, Praecepta, 11, 1-4


Mosè scrisse nella legge: Dio fece l'uomo a immagine e somiglianza sua (Gen. 1, 26). Considerate, di grazia, la dignità di queste parole. Dio onnipotente, invisibile, incomprensibile, ineffabile, inestimabile, fa l'uomo con del limo, e lo nobilita con la dignità della sua somiglianza. Qual è il rapporto tra il limo e Dio? Quale, quello tra il limo e lo spirito? Dio infatti, è spi-rito (Gv. 4, 24). Enorme degnazione di Dio, il quale donò all'uomo l'impronta della sua eternità e la somiglianza dei suoi costumi! Enorme dignità per l'uomo la sua somiglianza con Dio, se questa vien conservata; ma anche poi tremenda rovina, qua-lora venga profanata l'immagine di Dio!... Tutte le virt? che Dio seminò in noi nella nostra condizione primitiva, ci ha insegnato, poi, coi suoi precetti, a restituirgliele. Questa è la prima: Amare il nostro Dio con tutto il cuore (Mt. 22, 37; Mc. 12, 30), perch? lui per primo ci ha amati (1 Gv. 4, 10), dal principio, prima ancora che fossimo. L'amor di Dio è la rinnovazione della sua immagine. Ama Dio chi ne osserva le leggi; disse infatti: Se mi amate, osservate i miei precetti (Gv. 13, 34). Il vero amore non è fatto di parole, ma di opere (cf. 1 Gv. 3, 28). Restituiamo perciò a Dio, nostro Padre, la sua immagine inviolata nella santità, perch? lui è santo (Siate santi, perch? io sono santo, Lev. 11, 44 e 1 Pt. 1, 16), inviolata nella carità, perch? lui è amore (1 Gv. 4, 8: Dio è amore), inviolata nella pietà e nella verità, perch? lui è pio e verace. Evitiamo di farci un'immagine diversa da quella di Dio; infatti sarebbe a immagine di un tiranno, chi fosse superbo, iracondo, feroce... Perch?, dunque, non ci diamo delle immagini di tiranni, dipinga in noi Cristo la sua immagine, lui che dipinse un'imma-gine, quando disse: Vi do la mia pace, vi lascio la mia pace (Gv. 14, 27). Ma che cosa vale sapere che la pace è un bene, se poi questa pace non è ben conservata? Di solito quanto pi? una cosa è buona, tanto pi? è fragile, e quanto pi? è preziosa, tanto pi? accortamente dev'essere custodita; è veramente troppo fragile ciò che si può sciupare con una sola parola o con un piccolo sgarbo... Purtroppo niente è più gradito agli uomini che interessarsi delle cose altrui, parlar di cose inutili e dir male degli assenti; perciò coloro che non possono dire: Il Signore mi ha dato una lingua raffinata, per sostener con la mia parola colui che è stanco (Is. 50, 4) tacciano e, se vogliono dir qualcosa, sia detto solo al fine di fomentar la pace... Chi non ama sta nella morte (1 Gv. 3, 14). Dunque, o non si deve far altro che amare, o non ci si può aspettar altro che la morte. La pienezza della legge, infatti, sta nell'amore (Rom. 13, 8). E che questo amore si degni ispirarci abbondantemente il Signor nostro e Salvatore Gesù Cristo, chi ci è stato donato da Dio, autore della pace e dell'amore. 



Chi ama Dio lo conosce (Agostino, De Trinit., 8, 8, 12)

Osserviamo quanto l'apostolo Giovanni ci raccomandi l'amore fraterno: Colui che ama il suo fratello, egli dice, dimora nella luce, e nessuno scandalo è in lui (1 Gv. 2, 10). È chiaro che egli ha posto la perfezione della giustizia nell'amore del fratello; perch? colui nel quale non c'è scandalo è perfetto. E tuttavia sembra aver taciuto dell'amore di Dio, cosa che non avrebbe mai fatto se nello stesso amore fraterno non sottintendesse Dio. Poco dopo infatti, nella stessa Epistola, dice in modo chiarissimo: Carissimi, amiamoci vicendevolmente perch? l'amore viene da Dio; colui che ama è nato da Dio, e conosce Dio. Chi non ama, non ha conosciuto Dio, perch? Dio è amore (1 Gv. 4, T8). Questo contesto mostra in maniera sufficiente e chiara che questo amore fraterno - infatti l'amore fraterno è quello che ci fa amare vicendevolmente -non solo viene da Dio, ma che, secondo una cos? grande autorità, è Dio stesso. Di conseguenza, amando secondo l'amore il fratello, lo amiamo secondo Dio. N? può accadere che non amiamo prin-cipalmente questo amore, con cui amiamo il fratello. Da ciò si conclude che quei due precetti non possono esistere l'uno sen-za l'altro. Poich? in verità Dio è amore (1 Gv. 4, 8.16), ama certamente Dio, colui che ama l'amore ed è necessario che ami l'amore colui che ama il fratello. Perciò poco pi? innanzi l'apo-stolo Giovanni afferma: Non può amare Dio, che non vede, colui che non ama il prossimo che vede (1 Gv. 4, 20), perch? la ra-gione per cui non vede Dio è che non ama il fratello. Infatti chi non ama il fratello, non è nell'amore e chi non è nell'amore non è in Dio, perch? Dio è amore (1 Gv. 4, 16). Inoltre chi non è in Dio non è nella luce, perch?: Dio è luce, e tenebra alcuna non è in lui (1 Gv. 1, 5). Qual meraviglia, dunque, se chi non è nella luce non vede la luce, cioè non vede Dio, perch? è nelle tenebre (1 Gv. 1, 9-11)? Vede il fratello con sguardo umano che non permette di vedere Dio. Ma se amasse colui che vede per sguardo umano, con carità spirituale, vedrebbe Dio, che è la carità stessa, con lo sguardo interiore con cui lo si può vedere. Perciò chi non ama il fratello che vede, come potrà amare Dio che non vede, precisamente perch? Dio è amore (1 Gv. 4, 8.16.20), amore che manca a colui che non ama il fratello? E non si ponga più il problema di sapere quanto amore dobbiamo al fratello, quanto a Dio. A Dio, senza alcun confronto, pi? che a noi. Al fratello poi tanto, quanto a noi stessi. Amiamo infine tanto pi? noi stessi quanto più amiamo Dio. 




L'amore fa abitare Dio in noi. Agostino, In Io. ep. tract., 8, 12


Nessuno vide Dio. Ecco, dilettissimi: Se ci amiamo vicende-volmente, Dio resterà in noi, e il suo amore in noi sarà perfetto. Incomincia ad amare e giungerai alla perfezione. Hai cominciato ad amare? Dio ha iniziato ad abitare in te; ama colui che iniziò ad abitare in te affinch?, abitando in te sempre pi? perfettamen-te, ti renda perfetto. In questo conosciamo che rimaniamo in lui e lui in noi: egli ci ha dato il suo Spirito (1 Gv. 4, 12-13). Bene, sia ringraziato il Signore. Ora sappiamo che egli abita in noi. E questo fatto, cioè che egli abita in noi, da dove lo conosciamo? Da ciò che Giovanni afferma, cioè che egli ci ha dato il suo Spi-rito. Ed ancora, da dove conosciamo che egli ci ha dato il suo Spirito? S?, che egli ci ha dato il suo Spirito, come lo sappiamo? Interroga il tuo cuore: se esso è pieno di carità, hai lo Spirito di Dio. Da dove sappiamo che proprio a questo segno noi cono-sciamo che abita in noi lo Spirito di Dio? Interroga Paolo apostolo: La carità di Dio è diffusa nei nostri cuori, per mezzo dello Spirito Santo che è dato a noi. 




La legge dell'amore. Giovanni Crisostomo, Comment. in Matth., 1, 5


Ges? Cristo ci insegna ciò che è giusto, onesto, utile, e tutte le virt?, in pochissime parole, chiare, comprensibili a tutti, come quando dice: In due comandi si riassumono la legge e i profeti (Mt. 22, 40), cioè nell'amore verso Dio e nell'amore verso il prossimo; oppure, quando ci dà questa norma di vita: Fate agli altri tutto ciò che voi volete ch'essi facciano a voi. Sta in questo la legge e i profeti (Mt. 7, 12). Non c'è contadino, n? schiavo, n? donna semplice, n? fanciullo, n? persona di limitata intelligenza che non riesca a comprendere facilmente queste parole: nella loro chiarezza, infatti, è il segno della verità, e l'esperienza ha dimostrato questo. 


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