11 Luglio. San Benedetto da Norcia Abate




αποφθεγμα Apoftegma

Prima di tutto amare il Signore Dio 
con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze; 
poi il prossimo come se stesso. 
Rinnegare completamente se stesso per seguire Cristo; 
rendersi estraneo alla mentalità del mondo; 
non anteporre nulla all'amore di Cristo, 
pregare per i nemici nell'amore di Cristo.

San Benedetto










L'ANNUNCIO
Dal Vangelo secondo Giovanni 15,1-8. 

«Io sono la vera vite e il Padre mio e' il vignaiolo.
Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perche' porti più frutto.
Voi siete gia' mondi, per la parola che vi ho annunziato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non puo' far frutto da se stesso se non rimane nella vite, cosi' anche voi se non rimanete in me.
Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perche' senza di me non potete far nulla.
Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sara' dato.

In questo e' glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.









COME TRALCI UNITI ALLA VITE NULLA ANTEPORRE ALL'AMORE DI CRISTO NOSTRA LINFA DI VITA

"Senza" Gesù siamo uno zero assoluto. Ma con Lui la nostra vita, semplice o complicata, afflitta da malattie, da paure, ferita dalle debolezze, questa vita è stupenda, un'avventura irripetibile donataci per disseminare di "frutti" squisiti i nostri giorni, capaci di mostrare Dio e il Cielo a ogni uomo. Basta "rimanere in Lui", dimorare in Cristo, come sperimentò San Benedetto. Lasciarci amare, alzare bandiera bianca, gettare via da noi il pensiero "aiutati che Dio t'aiuta" che troppo spesso ci accompagna, aggrappati a Lui, alle sue braccia distese per amore, come la vite al tralcio. "Rimanere in Lui" non significa inventarsi chissà che cosa, è, semplicemente, essere crocifissi con LuiE' rimanere lì dove Lui ci conduce, nella storia concreta dell'unico oggi che ci appartiene, quello reale che siamo chiamati a vivere. Nell'obbedienza perché, come scriveva San Benedetto, era "il segno più evidente dell'umiltà è la prontezza nell'obbedienza. Questa è caratteristica dei monaci che non hanno niente più caro di Cristo". Il Signore non dice che, sforzandoci, impegnandoci, anche senza di Lui potremmo cominciare a metterci del nostro, qualcosa, che so? buone intenzioni o progetti o altro, qualcosa a cui Lui, poi, darebbe compimento. No, il Signore ci dice che senza di Lui nulla possiamo. Detto in altro modo: senza di Lui anche quello che facciamo è nulla, fumo che il vento porta via, perché senza la linfa del suo Spirito non vi è fecondità. Fratelli, proprio dal non accettarlo provengono tante sofferenze: dal tentare e ritentare di farcela da soli, liberi dal giogo della Croce, staccati dalla vite che sola può trasmetterci la vita e dare pienezza a ogni cosa. E così vediamo "seccarsi" i rapporti, e dobbiamo "gettare" nel "fuoco che brucia" quelli che sembravano eterni. Pensiamo al nostro matrimonio, al fidanzamento, allo studio, al lavoro, all'amicizia. Pensiamo a una passeggiata tra i boschi, a una visita al museo, alla spesa del sabato, a una cena in pizzeria con la fidanzata, come a una dolorosa degenza in ospedale, una notte di studio alla vigilia di un esame, una discussione con la figlia che non si riesce proprio a capire, pensiamo a qualunque momento della nostra vita, pensiamolo vissuto in Cristo, alla sua presenza, illuminato dalla sua Parola, sostenuto dalla sua forza; e pensiamolo chiuso in noi stessi, schiacciato sulle nostre forze, preda dei nostri impulsi e delle nostre ispirazioni. In Cristo tutto ha un sapore, una forza, un'autenticità impensabili. In Lui anche una semplice passeggiata è tutta un'altra cosa. Anche un viaggio, anche una partita allo stadio. In Cristo ogni parola, ogni pensiero, ogni gesto "porta un frutto che rimane", bello, buono, consistente. Per questo se stai sperimentando difficoltà e fallimenti, non mormorare. E' il Vignaiolo che sta "potando" i rami seccati dall'orgoglio, perché abbandoniamo finalmente l'inganno di ritenerci importanti e indispensabili. 


Coraggio allora, lasciamoci "potare" anche attraverso le cure della Chiesa, perché la nostra vita, libera e adulta nella fede, renda Gloria a Dio. Essa, infatti, brilla nel "frutto" squisito di un fidanzamento nel quale, "uniti a Lui come i tralci alla vite", due ragazzi possono lottare per custodire la castità: un fidanzamento "potato", tagliato nei rami secchi della concupiscenza e dell'egoismo impaziente, che cresce rispettoso, prudente, avvolto di santo timore, protetto dal pudore. Nel "frutto" di un matrimonio santo, aperto alla vita e nel dono libero e totale di sé, "potato" nei rami secchi dell'infedeltà quotidiana all'unica sposa e all'unico sposo che difende i propri criteri. Il "frutto" di un lavoro "potato" attraverso le difficoltà e le ingiustizie e, per questo, che diviene un'occupazione nella quale offrirsi per i colleghi, per i superiori e gli inferiori, rintracciando in ogni mansione il momento favorevole per aprirsi agli altri e far gustare il proprio sapore unico e inconfondibile dell'amore di Cristo. Il "frutto" dello studio "potato" della pigrizia e dell'idolatria di voti e risultati che lo fa offrire a se stessi, nel quale apprendere a non fare la propria volontà, a soffrire per compiere quella di Dio, la libertà di chi non è più schiavo del dover fare sempre e solo quello che piace, consola e costruisce se stessi; lo studio che prepara a un futuro di amore autentico, al lavoro e alla famiglia. Vivere nella Chiesa come San Benedetto ha scoperto e poi stabilito come fondamento per i monasteri: "ora et labora", prega, ascolta e fai la volontà di Dio. Che in ogni aspetto della nostra vita Dio ci doni di "diventare discepoli" che "orando" seguono il Signore; che, ascoltando e "osservando" umilmente le "sue parole" che ci "purificano" dall'idolatria, possiamo "lavorare" nella sua vigna "rimanendo" nel torchio della storia: stretti alla Croce di ogni giorno, pigiati completamente dalle difficoltà, dalle sofferenze e dagli imprevisti che, proprio perché ci spremono, costituiscono l'occasione perché il succo di vita che Cristo depone in noi possa scaturire come da una sorgente alla quale chi ci è accanto possa dissetarsi. Per questo, "tutto ciò che chiederemo", ovvero la salvezza di tuo figlio e di tua zia, l'incontro con Cristo per ogni uomo, "ci sarà donato", perché la volontà di Dio fluisce come linfa da Cristo a noi e al mondo attraverso il legno della Croce.









BENEDETTO XVI. CATECHESI SU SAN BENEDETTO DA NORCIA

Cari fratelli e sorelle, 
vorrei oggi parlare di san Benedetto, Fondatore del monachesimo occidentale, e anche Patrono del mio pontificato. Comincio con una parola di san Gregorio Magno, che scrive di san Benedetto: “L’uomo di Dio che brillò su questa terra con tanti miracoli non rifulse meno per l’eloquenza con cui seppe esporre la sua dottrina” (Dial. II, 36). Queste parole il grande Papa scrisse nell’anno 592; il santo monaco era morto appena 50 anni prima ed era ancora vivo nella memoria della gente e soprattutto nel fiorente Ordine religioso da lui fondato. San Benedetto da Norcia con la sua vita e la sua opera ha esercitato un influsso fondamentale sullo sviluppo della civiltà e della cultura europea. La fonte più importante sulla vita di lui è il secondo libro dei Dialoghi di san Gregorio Magno. Non è una biografia nel senso classico. Secondo le idee del suo tempo, egli vuole illustrare mediante l’esempio di un uomo concreto – appunto di san Benedetto – l’ascesa alle vette della contemplazione, che può essere realizzata da chi si abbandona a Dio. Quindi ci dà un modello della vita umana come ascesa verso il vertice della perfezione. San Gregorio Magno racconta anche, in questo libro dei Dialoghi, di molti miracoli compiuti dal Santo, ed anche qui non vuole semplicemente raccontare qualche cosa di strano, ma dimostrare come Dio, ammonendo, aiutando e anche punendo, intervenga nelle concrete situazioni della vita dell’uomo. Vuole mostrare che Dio non è un’ipotesi lontana posta all’origine del mondo, ma è presente nella vita dell’uomo, di ogni uomo. 
Questa prospettiva del “biografo” si spiega anche alla luce del contesto generale del suo tempo: a cavallo tra il V e il VI secolo il mondo era sconvolto da una tremenda crisi di valori e di istituzioni, causata dal crollo dell’Impero Romano, dall’invasione dei nuovi popoli e dalla decadenza dei costumi. Con la presentazione di san Benedetto come “astro luminoso”, Gregorio voleva indicare in questa situazione tremenda, proprio qui in questa città di Roma, la via d’uscita dalla “notte oscura della storia” (cfr Giovanni Paolo II, Insegnamenti, II/1, 1979, p. 1158). Di fatto, l’opera del Santo e, in modo particolare, la sua Regola si rivelarono apportatrici di un autentico fermento spirituale, che mutò nel corso dei secoli, ben al di là dei confini della sua Patria e del suo tempo, il volto dell’Europa, suscitando dopo la caduta dell’unità politica creata dall’impero romano una nuova unità spirituale e culturale, quella della fede cristiana condivisa dai popoli del continente. E’ nata proprio così la realtà che noi chiamiamo “Europa”. 
La nascita di san Benedetto viene datata intorno all’anno 480. Proveniva, così dice san Gregorio, “ex provincia Nursiae” – dalla regione della Nursia. I suoi genitori benestanti lo mandarono per la sua formazione negli studi a Roma. Egli però non si fermò a lungo nella Città eterna. Come spiegazione pienamente credibile, Gregorio accenna al fatto che il giovane Benedetto era disgustato dallo stile di vita di molti suoi compagni di studi, che vivevano in modo dissoluto, e non voleva cadere negli stessi loro sbagli. Voleva piacere a Dio solo; “soli Deo placere desiderans” (II Dial., Prol 1). Così, ancora prima della conclusione dei suoi studi, Benedetto lasciò Roma e si ritirò nella solitudine dei monti ad est di Roma. Dopo un primo soggiorno nel villaggio di Effide (oggi: Affile), dove per un certo periodo si associò ad una “comunità religiosa” di monaci, si fece eremita nella non lontana Subiaco. Lì visse per tre anni completamente solo in una grotta che, a partire dall’Alto Medioevo, costituisce il “cuore” di un monastero benedettino chiamato “Sacro Speco”. Il periodo in Subiaco, un periodo di solitudine con Dio, fu per Benedetto un tempo di maturazione. Qui doveva sopportare e superare le tre tentazioni fondamentali di ogni essere umano: la tentazione dell’autoaffermazione e del desiderio di porre se stesso al centro, la tentazione della sensualità e, infine, la tentazione dell’ira e della vendetta. Era infatti convinzione di Benedetto che, solo dopo aver vinto queste tentazioni, egli avrebbe potuto dire agli altri una parola utile per le loro situazioni di bisogno. E così, riappacificata la sua anima, era in grado di controllare pienamente le pulsioni dell’io, per essere così un creatore di pace intorno a sé. Solo allora decise di fondare i primi suoi monasteri nella valle dell’Anio, vicino a Subiaco.
Nell’anno 529 Benedetto lasciò Subiaco per stabilirsi a Montecassino. Alcuni hanno spiegato questo trasferimento come una fuga davanti agli intrighi di un invidioso ecclesiastico locale. Ma questo tentativo di spiegazione si è rivelato poco convincente, giacché la morte improvvisa di lui non indusse Benedetto a ritornare (II Dial. 8). In realtà, questa decisione gli si impose perché era entrato in una nuova fase della sua maturazione interiore e della sua esperienza monastica. Secondo Gregorio Magno, l’esodo dalla remota valle dell’Anio verso il Monte Cassio – un’altura che, dominando la vasta pianura circostante, è visibile da lontano – riveste un carattere simbolico: la vita monastica nel nascondimento ha una sua ragion d’essere, ma un monastero ha anche una sua finalità pubblica nella vita della Chiesa e della società, deve dare visibilità alla fede come forza di vita. Di fatto, quando, il 21 marzo 547, Benedetto concluse la sua vita terrena, lasciò con la sua Regola e con la famiglia benedettina da lui fondata un patrimonio che ha portato nei secoli trascorsi e porta tuttora frutto in tutto il mondo. 
Nell’intero secondo libro dei Dialoghi Gregorio ci illustra come la vita di san Benedetto fosse immersa in un’atmosfera di preghiera, fondamento portante della sua esistenza. Senza preghiera non c’è esperienza di Dio. Ma la spiritualità di Benedetto non era un’interiorità fuori dalla realtà. Nell’inquietudine e nella confusione del suo tempo, egli viveva sotto lo sguardo di Dio e proprio così non perse mai di vista i doveri della vita quotidiana e l’uomo con i suoi bisogni concreti. Vedendo Dio capì la realtà dell’uomo e la sua missione. Nella sua Regola egli qualifica la vita monastica “una scuola del servizio del Signore” (Prol. 45) e chiede ai suoi monaci che “all’Opera di Dio [cioè all’Ufficio Divino o alla Liturgia delle Ore] non si anteponga nulla” (43,3). Sottolinea, però, che la preghiera è in primo luogo un atto di ascolto (Prol. 9-11), che deve poi tradursi nell’azione concreta. “Il Signore attende che noi rispondiamo ogni giorno coi fatti ai suoi santi insegnamenti”, egli afferma (Prol. 35). Così la vita del monaco diventa una simbiosi feconda tra azione e contemplazione “affinché in tutto venga glorificato Dio” (57,9). In contrasto con una autorealizzazione facile ed egocentrica, oggi spesso esaltata, l’impegno primo ed irrinunciabile del discepolo di san Benedetto è la sincera ricerca di Dio (58,7) sulla via tracciata dal Cristo umile ed obbediente (5,13), all’amore del quale egli non deve anteporre alcunché (4,21; 72,11) e proprio così, nel servizio dell’altro, diventa uomo del servizio e della pace. Nell’esercizio dell’obbedienza posta in atto con una fede animata dall’amore (5,2), il monaco conquista l’umiltà (5,1), alla quale la Regola dedica un intero capitolo (7). In questo modo l’uomo diventa sempre più conforme a Cristo e raggiunge la vera autorealizzazione come creatura ad immagine e somiglianza di Dio.
All’obbedienza del discepolo deve corrispondere la saggezza dell’Abate, che nel monastero tiene “le veci di Cristo” (2,2; 63,13). La sua figura, delineata soprattutto nel secondo capitolo della Regola, con un profilo di spirituale bellezza e di esigente impegno, può essere considerata come un autoritratto di Benedetto, poiché – come scrive Gregorio Magno – “il Santo non poté in alcun modo insegnare diversamente da come visse” (DialII, 36). L’Abate deve essere insieme un tenero padre e anche un severo maestro (2,24), un vero educatore. Inflessibile contro i vizi, è però chiamato soprattutto ad imitare la tenerezza del Buon Pastore (27,8), ad “aiutare piuttosto che a dominare” (64,8), ad “accentuare più con i fatti che con le parole tutto ciò che è buono e santo” e ad “illustrare i divini comandamenti col suo esempio” (2,12). Per essere in grado di decidere responsabilmente, anche l’Abate deve essere uno che ascolta “il consiglio dei fratelli” (3,2), perché “spesso Dio rivela al più giovane la soluzione migliore” (3,3). Questa disposizione rende sorprendentemente moderna una Regola scritta quasi quindici secoli fa! Un uomo di responsabilità pubblica, e anche in piccoli ambiti, deve sempre essere anche un uomo che sa ascoltare e sa imparare da quanto ascolta. 

Benedetto qualifica la Regola come “minima, tracciata solo per l’inizio” (73,8); in realtà però essa offre indicazioni utili non solo ai monaci, ma anche a tutti coloro che cercano una guida nel loro cammino verso Dio. Per la sua misura, la sua umanità e il suo sobrio discernimento tra l’essenziale e il secondario nella vita spirituale, essa ha potuto mantenere la sua forza illuminante fino ad oggi. Paolo VI, proclamando nel 24 ottobre 1964 san Benedetto Patrono d’Europa, intese riconoscere l’opera meravigliosa svolta dal Santo mediante la Regola per la formazione della civiltà e della cultura europea. Oggi l’Europa – uscita appena da un secolo profondamente ferito da due guerre mondiali e dopo il crollo delle grandi ideologie rivelatesi come tragiche utopie – è alla ricerca della propria identità. Per creare un’unità nuova e duratura, sono certo importanti gli strumenti politici, economici e giuridici, ma occorre anche suscitare un rinnovamento etico e spirituale che attinga alle radici cristiane del Continente, altrimenti non si può ricostruire l’Europa. Senza questa linfa vitale, l’uomo resta esposto al pericolo di soccombere all’antica tentazione di volersi redimere da sé – utopia che, in modi diversi, nell’Europa del Novecento ha causato, come ha rilevato il Papa Giovanni Paolo II, “un regresso senza precedenti nella tormentata storia dell’umanità” (Insegnamenti, XIII/1, 1990, p. 58). Cercando il vero progresso, ascoltiamo anche oggi la Regola di san Benedetto come una luce per il nostro cammino. Il grande monaco rimane un vero maestro alla cui scuola possiamo imparare l’arte di vivere l’umanesimo vero.




La SANTA REGOLA





Antonio   Maria  Sicar 
Ritratto di  san  Benedetto  da  Norcia
(480 ca. - 547 ca.)

Nel secolo V dopo Cristo, l'impero romano era in decomposizione.
Avevano cominciato i Vandali ad oltrepassare la frontiera del Reno con vere e proprie migrazioni d'intere tribù, con donne, bambini, greggi.
Nel 410 Roma era caduta, ed era stata saccheggiata per la prima volta dalle truppe d'Alarico, sotto gli occhi stupefatti del mondo.
Poi, nei primi tre quarti di secolo, si era compiuta la rovina.
A metà secolo c'era stata la terribile minaccia dì Attila ed i suoi Unni, provenienti dal Nord, e, subito dopo, un altro saccheggio di Roma da parte dei Vandali di Genserico che, avevano devastato la Spagna, le province d'Africa, ed erano risaliti dal mare, dopo aver conquistato la Sicilia e la Sardegna. Le città imperiali restarono, di conseguenza, prive di grano.
Nel 476 fu ucciso a Ravenna l'ultimo imperatore d'Occidente e il barbaro Odoacre prese il potere; il figlio minorenne dell'ucciso lo chiamavano per spregio Romolo l'imperatoruccio (Augustolo). Nel 490 Teodorico il Grande prende il potere e fonda a Ravenna il regno dei Goti d'Oriente, tentando una sintesi, anche culturale, di romanità e germanesimo. Ma l'impresa fallirà in una trentina d'anni, per l'incompatibilità tra la fede ariana dei Goti e quella cattolica dei Romani.
Benedetto nasce dalle parti di Norcia, verso il 480; è dunque bambino quando l'impero romano si dissolve. Roma, dove si reca adolescente per iniziare gli studi, è sopraffatta dalle sventure: ripetute carestie e inondazioni nel Tevere, epidemie, lotte intestine, disfacimento del tessuto sociale amministrativo e religioso.
Sembrava davvero una città agonizzante, anche se - dice un testimone del tempo - «Roma moriva ridendo», senza voler rinunciare ai piaceri e alle dissolutezze che spesso accompagnano la disgregazione.
Raccontare la vita di colui che sarebbe divenuto il Santo Patrono d'Occidente è impresa ardua: di lui non s'interessò la storia, e non conosciamo quasi nulla, se non i miracoli e la Regola che scrisse per i suoi monaci.
Qualche autore dice che il volto di Benedetto lo si vede male «per troppa luce». L'unico, che ci ha parlato di lui, lo ha inondato di chiarore soprannaturale.
Fu san Gregorio Magno a raccontarne la vita, a dedicargli un libro dei suoi Dialoghi, circa cinquant'anni dopo la morte del Santo Patriarca.
Dialoghi sono un'opera a metà strada tra la storia e la riflessione filosofico-teologica, ma il grande pontefice ci assicura d'avere avuto informazioni di prima mano da quattro abbati benedettini (tra cui il successore di Benedetto) che egli aveva ospitato a Roma, quando Montecassino era stata distrutta dai Longobardi (nei 587).
A noi moderni una vita raccontata a miracoli sembra poco documentata e poco interessante a dal punto di visita storico, ma l'idea di papa Gregorio Magno è ben definita: la storia è evidente nell'opera di Benedetto, nei suoi monasteri che vanno disseminandosi in Europa, nella Regola che accuratamente descrive un tipo umano inconfondibile, ma la persona di Benedetto è un'incarnazione della grazia di Dio.
Scrive perciò: «Benedetto, l'uomo del Signore, ebbe lo spirito di quell'Unico che, per mezzo della grazia della redenzione concessaci, riempì i cuori di tutti i suoi eletti; ed è di Lui che Giovanni dice: “Era la Luce che venne a illuminare ogni uomo che viene in questo mondo”;  e altrove dice: “Dalla sua immensa ricchezza noi tutti abbiamo ricevuto” »(D II,8).
Raccogliendo le testimonianze dei miracoli di Benedetto, raccontandoli e commentandoli con opportune riflessioni spirituali. San Gregorio è convinto di darci il vero ritratto di Benedetto. Conforme a quello di Cristo e dei suoi santi profeti e apostoli.
Anzi, i miracoli sono raccontati con l'intento di dimostrare, con la maggiore evidenza possibile, che in Benedetto agivano la forza e lo stile di Gesù, ma anche di Pietro, di Mosè, di Elia, di Eliseo, di Davide e così via, a seconda che i miracoli dì Benedetto attualizzassero quelli dei protagonisti biblici.
«A mio giudizio, è lo spirito di tutti i giusti che ha riempito questo nostro santo» (D II,8), avverte Gregorio, con la persuasione che un simile uomo non può essere raccontato con la cronaca, ma può essere soltanto «rivelato»: i miracoli ce lo rivelano, per l'appunto.
Affidiamoci allora alla sapienza di questo papa che non peccava certo di spiritualismo. Prima di essere eletto al pontificato aveva ricoperto la carica di prefetto di Roma, era stato ambasciatore a Costantinopoli e, da papa, si ritrovò a dover svolgere un'opera immensa: sociale, culturale, politica, religiosa. Era l'unica autorità rimasta, sia che si trattasse di intervenire spiritualmente su tutta la cristianità, sia che si trattasse di riorganizzare i rifornimenti e di amministrare la giustizia nel ducato di Roma, sia che si trattasse di ammansire i Longobardi, sia che si trattasse di progettare la conversione dei barbari fino nella lontana Inghilterra, sia che si trattasse di dare impulso all'organizzazione della Schola cantorum e della salmodia sacra (detta appunto «canto gregoriano»).
Per un uomo del genere, raccogliere testimonianze di miracoli non era evadere dalla realtà, ma scendere fin dentro il cuore della realtà.
«Ci fu un uomo Benedetto, di nome e per grazia..», così comincia il racconto di san Gregorio, presentandoci subito un adolescente che ha già - come piaceva a quei tempi - la saggezza di un uomo maturo.
Benedetto è un ragazzo di famiglia agiata che, dal territorio di Norcia, viene a Roma per dedicarsi agli studi letterari.
Ma la «città eterna» gli appare piuttosto come un abisso di perdizione in cui è facile perdersi, ed egli intuisce che deve anzitutto «cercare se stesso», realizzando quell'ideale di «abitare con se stesso» che è condizione primaria di salvezza, quando tutto sembra crollare.
Fugge dunque da Roma: quel mondo desolato che si abbevera agli ultimi piaceri gli sembra un deserto; preferisce perciò un deserto vero, secondo le più antiche e pure tradizioni monastiche.
Fugge, soli Deo placere desiderans («desiderando piacere soltanto a Dio»), inaugurando, con i fatti, una di quelle splendide massime spirituali di cui diventerà maestro.
E, riflettendo sugli studi di letteratura che Benedetto ha abbandonati, il santo pontefice crea un'altra massima di splendido sapore antico: «Se ne andò, sapendo di non sapere e sapientemente ignorante» (scienter nescius et sapienter indoctus) (D II, prol.).
Per tre anni Benedetto visse in un paesino a settanta chilometri da Roma, accompagnato e accudito dalla sua governante, abitando in una chiesa; e già lì diede inizio alla sua attività taumaturgica per risparmiare qualche dispiacere casalingo a colei che lo accudiva con tanto affetto.
Ma è difficile vivere in solitudine, quando si fanno miracoli, e Benedetto fuggì di nuovo - questa volta completamente solo - rifugiandosi in un inaccessibile speco a Subiaco.
Vi restò tre anni, assistito da un monaco del posto che gli portava periodicamente un po' di pane.
Fu Dio a decidere che quella solitudine dovesse cessare dopo tre anni: il giorno di Pasqua suggerì a un prete delle vicinanze, che si stava preparando il pranzato festivo, di andare a condividerlo con l'eremita della montagna.
Poi furono dei pastori che cominciarono a scambiare con lui del cibo: essi gli portavano il necessario, dai prodotti del loro gregge, e il giovane solitario ricambiava, offrendo il nutrimento della sua predicazione.
Stava per cominciare la missione pubblica di Benedetto, ma prima egli doveva essere provato dalla tentazione e definitivamente purificato.
Secondo i canoni antichi delle «tentazioni nel deserto», l'eremita si vide assalito dal ricordo bruciante di una bella ragazza che aveva intravisto nel breve soggiorno romano, e tanto bastò per incendiarsi il cuore. la mente e le membra.
Benedetto spense quel fuoco accendendone un altro più materiale, ma più tormentoso: si ravvoltolò nudo tra spine e ortiche, finché il corpo bruciò davvero: «Di fuori bruciò per lo strazio, e dentro si estinse il fuoco del peccato» - commenta il saggio pontefice.
Molti secoli dopo, in altra stagione, Francesco d'Assisi, per lo stesso problema, sceglierà di immergersi nella neve gelata.
Ambedue comunque dimostrarono d'avere una notevole intelligenza, dato che compresero che non si può mai curare l'ardore dei sensi affidandosi solo ad elevazioni spirituali.
La vittoria fu comunque definitiva. Nel racconto essa ha lo scopo esplicito di garantirci che Benedetto non diventò maestro di altri cristiani, senza prima aver imparato ad avere un completo dominio di sé.
Non trascorse molto tempo, che i monaci di Vicovaro (tra Subiaco e Tivoli) vennero a offrirgli la nomina a superiore. Benedetto accettò, dopo molte resistenze, ma i monaci se ne pentirono subito, non appena si accorsero che egli esigeva una vera osservanza regolare, (crearono un mezzo spiccio per liberarsene e decisero di avvelenargli, a pranzo, il bicchiere di vino.
Avevano però dimenticato che la consuetudine prescriveva (li benedire il bicchiere di vino prima di bere, e così - quando Benedetto tracciò il segno di croce - la coppa logicamente si spezzò, perché «la bevanda di morte non aveva potuto sopportare il segno della vita».
Forse il miracolo spaventò i monaci, ma Benedetto si convinse che era meglio per lui abbandonarli, perché non voleva «stremare le sue forze» nel tentativo di correggere «chi non voleva essere corretto».
Da allora furono monaci e postulanti ad accorrere da lui, ma accorrevano soltanto coloro che desideravano davvero d'essere spiritualmente guidati.
In breve, i discepoli furono tanti che Benedetto si trovò, quasi senza accorgersene, ad essere fondatore di dodici monasteri disseminati nella zona: ognuno abitato da dodici monaci.
Il numero perfettamente e sapientemente biblico (dodici per dodici) rappresenta anticipatamente «il disegno» della armoniosa architettura benedettina. Ed erano già monasteri in cui - secondo un uso rimasto a lungo - si accoglievano anche bambini, figli di nobili, da educare.
Comincia così la simpatica storia-leggenda (nel senso di una storia senza cronaca, maesemplare) del rapporto tra Benedetto, il «piccolo san Placido» e il «giovane san Mauro», discepoli che vengono da lui custoditi, educati, privilegiati e fatti crescere come suoi veri figli ed eredi.
Di questa prima «storia benedettina» (ancora Cassino non è stata fondata e la vera storia di Benedetto fondatore non s'è ancora precisata) l'agiografo ci tramanda alcuni episodi emblematici , oltre che prodigiosi.
C'è anzitutto la vicenda del monaco che non riesce a fare il monaco, non riesce cioè ad «abitare con se stesso»: nel momento della preghiera e del silenzio è tentato di vagare oziosamente.
Dietro la ferialità dell'episodio, si nasconde e si annuncia il grande dibattito che sta per cominciare tra il monachesimo benedettino, tutto fondato sulla stabilità dei membri, e il monachesimo preesistente, gravato ormai da una tara assai diffusa: l'instabilità e la vagatio materiale e spirituale dei monaci.
Solo Benedetto riesce a vedere che quel monaco distratto e vagante è in realtà trascinato via da un «demonio piccolo e nero», e l'abbate lo guarisce «con un buon colpo di verga, dato che non c'è altro modo di vincere la cecità del cuore». Il colpo lo riceve il monaco, ma lo sente il piccolo demonio tentatore che fugge via per sempre.
C'è poi l'episodio dei tre monasteri costruiti in località troppo scoscese per avere l'acqua a portata di mano, il che provoca il lamento dei monaci. È un lamento biblico, come quello del popolo eletto nel deserto, e Benedetto, come nuovo Mosè, fa scaturire per loro l'acqua dalla roccia. Egli, però, prima del miracolo, congeda i monaci «con dolci parole di conforto» e poi passa la notte in preghiera tra quelle aride rocce, aiutato nell'intercessione dal piccolo Placido, il monachello obbedientissimo.
Un altro episodio è quello del «goto sempliciotto» che chiede di essere accolto in monastero. Benedetto lo mette a disboscare i rovi sulla riva di un lago, e il barbaro mena grandi colpi, finché il ferro esce dal manico di legno e affonda nelle acque. Dietro l'episodio macchiettistico, si nasconde il problema della convivenza nei monasteri tra i latini civilizzati e capaci e i barbari rozzi e maldestri, il «goto sempliciotto» confessa al giovane Mauro la sua colpa e il danno arrecato alla comunità, e se ne sta lì tremebundus. Ma ecco che Benedetto interviene: immerge nelle acque il manico di legno e il falcetto di ferro risale ad infilarsi nel manico.
L'episodio, pieno di ingenua poesia, non solo insegna che Benedetto è un nuovo profeta Eliseo - dato che costui aveva fatto lo stesso miracolo tredici secoli prima (cfr. 2 Re 6,1-7) - ma permette all'agiografo di mettere in bocca al Santo Patriarca un'espressione che è quasi un invito e un abbraccio accogliente per tutti i barbari che giungevano ai monasteri: Ecce labora, et noli contristari: «Ecco lavora, e non rattristarti».
Un altro episodio ancora accade al piccolo Placido che, un po' spaventato, va attingere acqua nel lago, immerge il secchio con troppa foga e affonda nelle acque che lo trascinano via.
Benedetto lo vede in spirito dalla sua cella e manda in fretta Mauro che corre a salvarlo. Solo dopo aver trascinato a riva il piccolo confratello, Mauro si accorge di aver camminato sulle acque. Preso da sacro timore, il giovane racconta l'accaduto al santo abbate e Benedetto spiega che è tutto merito della pronta obbedienza dì Mauro. Costui ribatteva invece che era tutto merito del comando di Benedetto. Risolse il virtuoso dibattito il piccolo Placido: disse che lui aveva visto sul suo capo la mantellina dell'abbate ed aveva subito creduto che fosse Benedetto a trarlo fuori dall'acqua.
Così obbedienza e autorità si intrecciavano assieme armoniosamente, e i discepoli capivano che Benedetto era come un nuovo Gesù che poteva comandare a Pietro di camminare sulle acque.
Giustamente Gregorio conclude questo primo ciclo dicendo che quei luoghi si andavano infiammando, in lungo e in largo, d'amore, per nostro Signore Gesù Cristo» (D II, 8).
La storia di Montecassino inizia in seguito a un opportuno stacco voluto da Dio, anche se allora sembrò che fosse il demonio ad avere la meglio.
In breve, ci fu un prete «astioso di invidia» che fece di tutto per distruggere l'opera del Santo: prima gli mandò del «pane avvelenato» e Benedetto sventò la minaccia; poi organizzò nell'orto del monastero, con alcune ragazze, uno spettacolo lascivo per avvelenargli i monaci.
In conclusione Benedetto, comprendendo che l'astio era rivolto a lui, diede un definitivo ordinamento a quei monasteri, assegnò loro dei bravi superiori e poi li lasciò alla loro sorte, conducendo con sé solo pochi fratelli.
Inutile dire che, appena Benedetto si mise in viaggio, quel prete astioso e malvagio morì vittima di una disgrazia, ma il santo Patriarca rimproverò Mauro e gli impose una penitenza perché gli aveva portato la notizia con una certa soddisfazione. Lui provava invece un immenso dolore.
Non tornò indietro tuttavia, ma si incamminò verso Cassino, una rocca situata sul fianco di un alto monte, sulla cui vetta c'era ancora un tempio dedicato ad Apollo.
Quando Benedetto si diede a distruggere tempio e altare pagani e a predicare ai nativi la Buona Novella, la lotta con Satana esplose con violenza. I monaci dicevano di sentire un grido lamentoso: «Maledetto, non Benedetto, che cos'hai contro di me? Perché mi perseguiti?». Era l'annuncio che la nuova fondazione avrebbe contribuito alla distruzione del regno di Satana, ma dovevano attendersi prove su prove.
Durante la costruzione dell'abbazia, i monaci, come vedevano in ogni aiuto la mano provvidente di Dio, così vedevano nelle difficoltà più insormontabili la mano oppressiva di Satana.
Era infatti una terra seminata di idoli.
In questi casi Benedetto interveniva con la sua preghiera, sia che si trattasse di spostare un macigno che sembrava radicato nel terreno, sia che si trattasse di placare qualche allucinazione dei monaci, sia che un muro in costruzione crollasse improvvisamente su uno dei ragazzini affidati alla comunità.
Il potere del santo si estendeva allora fino a richiamare in vita il fanciullo morto per la cattiveria del demonio.
Altri miracoli gli occorrevano, poi, per aiutare i monaci a osservare la Regola. Così Benedetto sapeva, per divina ispirazione, se dei monaci in viaggio l'avevano trasgredita mangiando fuori del monastero o accettando regali.
Allo stesso modo egli metteva a nudo le intenzioni e le trame di chi cercava di ingannarlo o le interne mormorazioni di chi disobbediva nel cuore.
L'episodio rimasto celebre nella storia fu quello di Totila, il re goto, che scorrazzava impunemente per l'Italia e che si avvicinò a Montecassino incuriosito della fama di Benedetto.
Per mettere alla prova il santo, il re gli mandò un suo scudiero abbigliato da re, con tutte le insegne e la scorta dei nobili. Benedetto non lo lasciò nemmeno avvicinare. Da lontano gli gridò: «Figlio mio, levati quelle vesti che non ti appartengono!». Caddero tutti a terra, impressionati non perché l'inganno fosse stato scoperto, ma per la «velocità» con cui erano stati smascherati.
Quando Totila giunse in persona, non osava nemmeno avvicinarsi e se ne stava genuflesso lontano. Gli si accostò Benedetto, lo fece alzare e gli disse senza mezzi termini: «Il male che fai è molto, e molto ne hai già fatto. Metti fine, una buona volta, alle tue malvagità. Entrerai a Roma, passerai il mare, regnerai nove anni e nel decimo morrai».
Dicono che, da allora, fu un po' meno crudele.
«Al suo orecchio risuonavano perfino le parole solamente pensate», spiega l'agiografo, che narra anche «miracoli» più spirituali: intuizione dell'animo e delle debolezze altrui, premonizioni, sogni, autorevolezza sulle anime estesa fin quasi all'aldilà, forza di intercessione in terra e in cielo.
La formula usata per spiegare tutto è questa: ad agire è «la grazia di Benedetto». Il santo è talmente ricolmo di doni spirituali che può dispensarli con larghezza, in ogni direzione.
Poi ancora quei miracoli di guarigione e di «abbondanza», caratteristici di ogni «epoca messianica»: liberazione di indemoniati, guarigione di lebbrosi, sollievo di prigionieri e sofferenti, remissione di debiti, e abbondanza prodigiosa di provviste (pane, olio) in tempo di carestia.
Viene anche sottolineata la soccorrevole carità verso i più poveri, ai quali Benedetto si prefigge «di dare tutto in terra per non perdere nulla in cielo», tanto da innervosirsi quando il monaco dispensiere conserva gelosamente l'ultima ampolla d'olio.
Solo una volta Gregorio descrive Benedetto, nella sua dolente umanità: non mentre compie miracoli, ma mentre si abbandona a un dirotto pianto: così lo vede infatti un nobile ospite del monastero che entra improvvisamente nella camera dell'abbate.
A lui Benedetto confida: «Tutto questo monastero che io ho costruito e tutte le cose che ho preparato per i fratelli, per disposizione di Dio Onnipotente sono destinate a finire preda dei barbari, A gran fatica sono riuscito ad ottenere che, di quanto è in questo luogo, siano risparmiate almeno le persone».
E così accadde alcuni decenni dopo la morte del Patriarca, al tempo dell'invasione longobarda.
A nessun amico di Dio può infatti essere risparmiata la passione e la sua notte.
L'ultimo miracolo raccontato vede per la prima volta Benedetto quasi tremare di impotenza. Ha davanti un papà disperato che porta in braccio il corpicino del figlio morto. «Restituiscimi mio figlio, restituiscimi mio figlio!», grida insensatamente l'uomo, con la persuasone che, rivolgendosi a Benedetto, il grido raggiunga Dio.
«Te l'ho forse tolto io tuo figlio?», chiede confuso Benedetto, ma quando si accorge che gli viene chiesto un miracolo di resurrezione, subito manda via gli altri monaci: «Allontanatevi, fratelli, allontanatevi! Non sono miracoli per me questi! Solo i Santi Apostoli possono farli! Perché volete addossarmi un peso che non sono capace di portare?». Poi il miracolo accade, ma Benedetto lo chiede ti Dio «per la fede di quest'uomo che chiede di resuscitargli il Figlio».
Ora che l'agiografo ha toccato il vertice della sua narrazione, racconta anche, per la prima e unica volta, una sconfitta di Benedetto: «Ci fu qualcosa che, pur da lui desiderata, non riuscì ad ottenere».
Improvvisamente Benedetto esce dal suo alone misterioso e sublime, e veniamo a sapere qualcosa dei suoi affetti.
Scopriamo così che egli ha una sorella gemella alla quale è molto affezionato e che, come lui, si è consacrata a Dio fin dall'infanzia.
Scopriamo che il venerabile Patriarca le dedica un giorno all'anno: un'intera giornata in visita al monastero di lei, «a parlare assieme di argomenti santi», fino alla cena compresa.
Ed ecco che ci viene narrata l'ultima visita. Quando, a sera, giunge l'ora in cui Benedetto deve tornare in monastero (la Regula proibisce severamente di pernottare fuori), Scolastica chiede al fratello un'eccezione: «Questa notte non lasciarmi, te ne prego, così potremo fino a domani mattina parlare della gioia della vita celeste». Ma riceve un rifiuto quasi scandalizzato: «Che cosa dici mai, sorella!».
Il cielo non ha una nuvola. Scolastica pone le mani intrecciate sul tavolo e china la testa. In brevissimo tempo il cielo sì annuvola e scoppia una tale tempesta con lampi e tuoni e rovesci dì pioggia, che Benedetto, per tutta la notte, non può nemmeno metter piede fuori della soglia.
«Dio Onnipotente ti perdoni, sorella mia», disse Benedetto, «che hai fatto?». E Scolastica, con logica tutta femminile, rispose: «Vedi, ho pregato te, e tu non mi hai voluto ascoltare. Allora ho pregato il mio Signore e mi ha ascoltata. Ora esci pure, se ci riesci, torna in monastero!».
Così Benedetto si trovò a subire un miracolo.
Il motivo era duplice, spiega papa san Gregorio.
Il primo: nel cristianesimo tutto è questione d'amore. Dio stesso è amore, quindi fu cosa logica «che potesse di più colei che amò di più». Ed è con questo conclusivo giudizio che Gregorio relativizza in un colpo solo tutti i miracoli che ha raccontati e ne fa - anche a favore di Benedetto, si intende - una questione d'amore.
Il secondo: Dio sapeva che quell'incontro tra i due fratelli era l'ultimo. Scolastica morì dopo tre giorni. Benedetto mandò i suoi monaci a prenderne il corpo, per deporlo nel sepolcro clic egli aveva fatto preparare per sé. «Si ebbe perciò che, come in vita la loro anima era stata sempre una cosa sola in Dio, così in morte anche i loro corpi non furono separati neppure dalla tomba» (D II,34).
Siamo così giunti quasi al vertice della narrazione, e sentiamo perciò il bisogno di andare all'altra fonte della biografia di Benedetto, a cui san Gregorio rinvia il suo lettore scrivendo.
«Tra i tanti miracoli che resero famoso nel mondo quest'uomo di  Dio c'è da porre anche il luminoso splendore della sua dottrina. Scrisse infatti per i monaci una Regola, davvero notevole per la sua discrezione, e chiara e bella ("luculenta") nell'espressione. E se qualcuno vuole conoscere più a fondo i suoi costumi e la sua vita, nell'insegnamento della Regola può trovare gli atti con cui egli stesso visse il proprio magistero, perché egli non poté insegnare in maniera diversa da come visse» (D  II,36).
Che la Regola debba in qualche maniera rispecchiare la vita del nostro santo è evidente soprattutto là dove descrive le qualità e i compiti dell'abbate che - dice Benedetto - «sono già tutti indicati dal nome cori cui lo si chiama: “Padre!”».
Il cuore dell'avvenimento evangelico - la venuta sulla terra del Figlio di Dio e il dono del suo Spirito che ci rende capaci di invocare Dio col nome di Abbà («Padre!») - diventa così il cuore stesso del  monastero, tutto abitato da figli che si rivolgono con questo nome al loro Superiore.
Costui sa di dover trasmettere la volontà di Dio, con le parole e con la vita, ricordandosi sempre «del nome che porta»: sa di dover essere un padre «puro, sobrio, misericordioso» che lascia sempre «prevalere la misericordia sulla giustizia».
A lui Benedetto chiede il difficile equilibrio di un amore capace, a un tempo, di estendersi a tutti e di privilegiare ciascuno secondo le sue necessità.
Un padre riservato e indulgente, forte e saggio; non inquieto né ansioso, non oppressivo né geloso; capace di tenerezza e di infinita pazienza, ma anche di severità e di decisione.
Un padre che «preferisce sempre la misericordia alla giustizia», ma non trascura mai la correzione.
Un padre che osserva attentamente i suoi figli e la loro diversa indole in modo che   «i forti abbiano sempre un ideale a cui tendere e deboli la possibilità di non scoraggiarsi».
Gli aggettivi, le immagini, i proverbi si susseguono sotto la penna di Benedetto, a volte con un certo umorismo, come quando esorta l'abbate a non essere come quel pastore che «a forza di far correre il gregge fa morire tutte le pecore in un solo giorno», o quando gli consiglia «di stare attento a non spezzare il recipiente a forza di grattare via la ruggine».
Altri consigli hanno la bellezza di motti programmatici: «L'abbate curi più di essere amato che temuto» (studeat plus amari quam timeri); «sappia di dover giovare più che comandare» (magis prodesse quam preesse); «usi discrezione che è la madre di tutte le virtù».
Dietro molte espressioni si intravvedono le esperienze personali di Benedetto: le sue scoperte pedagogiche, i propositi di buon governo che deve aver elaborato nel corso degli anni, le delusioni che deve aver subito e i successi riportati con l'aiuto di Dio.
Ma la Regola è soprattutto descrizione dell'edificio che Benedetto va man mano costruendo. Si può dire che egli progetti una costruzione grandiosa, ma a suo modo incredibilmente semplice.
È un'epoca in cui tutto sembra sfaldarsi - sia la società ecclesiale che quella civile, sia la vita monastica che quella laicale - e Benedetto pensa in termini di «famiglia»: il monastero è un intera «società» gestita come una «famiglia».
Nella sua compiutezza, il monastero deve contenere tutto ciò che serve alla vita: «l'acqua, il mulino, l'orto e i locali dove si esercitano i vari mestieri».
Da un lato è il monaco che non ha più bisogno di girovagare per il mondo né di cercarvi il necessario per vivere, dall'altro - nei secoli bui che si avvicinano - sarà piuttosto il mondo che verrà a vivere all'ombra e sotto la protezione del monastero, cercandovi quella pace, quell'ordine, quella progettualità che sarà impossibile trovare altrove.
Nel monastero benedettino vengono a vivere, come fratelli sotto l'autorità di un unico Padre, tutti coloro che lo desiderano, purché promettano obbedienza e stabilità. Non si fa distinzione tra liberi e schiavi, né tra uomini d'arme e contadini, né tra ignoranti e dotti.
Non si fa distinzione di età: perfino i fanciulli sono ammessi; l'abbazia ha sempre una scuola in cui dei bambini - amati come figli - già si preparano alla vita monastica; la Regola vale anche per loro, anche se tocca all'abbate adattarla alla loro età e temperarla.
Non si fa nemmeno quella distinzione che più ci si attenderebbe: la previa valutazione delle disposizioni spirituali e l'attuazione di un discernimento vocazionale.
La Regola sembra dare per scontato, quasi in ogni pagina, che in monastero abitino, con lo stesso diritto, monaci obbedienti, capaci, pazienti, docili, virtuosi, intelligenti e altri caparbi, cattivi, orgogliosi, ribelli, turbolenti, arroganti, indisciplinati, inutili...
Tutti assieme essi formano «il gregge dell'abbate», ed egli deve pascerli dando ad ognuno il giusto nutrimento e la giusta medicina. Alla fine del cammino (... alla fine della Regola) Cristo li prenderà tutti assieme e «assieme ("pariter") li condurrà alla vita eterna».
Nel prologo Benedetto definisce il suo monastero «una scuola per imparare a servire il Signore»; poco dopo dirà che è un'«officina» dove tutti lavorano, avendo a disposizione gli «strumenti delle buone opere».
Se si legge la lunga lista di questi «strumenti consigliati» (quasi 74) non ci si deve meravigliare di trovare elencati assieme i principali comandamenti (compreso quello di «non ammazzare» e «non commettere adulterio»), le opere di misericordia (compresa quella di seppellire i morti»), le tentazioni contro le quali bisogna resistere (tra cui «non dare sfogo all'ira», «non covare rancore», «non almanaccare l'inganno»), i vizi che bisogna eliminare (tra cui la raccomandazione di non essere «pigri», «beoni», «mangioni», «dormiglioni», «brontoloni»), e le virtù che bisogna coltivare (tra cui «venerare i più anziani» e «amare i più giovani»).
Il fatto che - Benedetto si attardi a enumerare raccomandazioni spesso grevi, ci dice che si ritiene normale anche in Vocazione di molti robusti e inveterati peccatori: i tempi sono tali che il monastero non può essere immaginato come rifugio di anime elette e spiritualmente affinate, ma come rifacimento e salvezza di tutto un mondo, solo in parte cristiano, che sembra inabissarsi,
Ma tra i tanti pesanti richiami risplendono indicazioni di altissima vita mistica, offerte come lampi di ideale a chi «può comprendere»: dal bellissimo «Affidare a Dio la propria speranza», al suggestivo «Desiderare la vita eterna con ogni concupiscenza spirituale», al conclusivo e pacificante «Non disperare mai della misericordia di Dio» (Et de Dei misericordia numquam desperare).
E non si può certo dimenticare quello splendido aforisma: «Non anteporre nulla all'amore di Cristo» che Benedetto mette all'inizio della Regola (Nihil amori Christi praeponere) e che riprende alla fine con un'assolutezza ancora maggiore (Christo omnino nihil praeponant).
Su tutto dovrà poi dominare l'obbedienza all'abbate, soprattutto quella prestata «senza indugio», che è propria di coloro «che ritengono di non avere per sé nulla di più caro di Cristo» e che porterà i fratelli a un desiderio umile «di obbedirsi reciprocamente.
L'esistenza che la Regola descrive e prescrive è tutta organizzata attorno a un duplice «lavoro» (opus): il lavoro per Dio e il lavoro delle mani. I monaci sono infatti «operai del Signore».
L'opus Dei (la preghiera comune di tutti i monaci) è un lavoro che dev'essere compiuto «al cospetto degli angeli» e scandisce le ore del giorno e della notte. Esso dà un orientamento verticale e purificatore a tutte le tensioni dell'esistenza.
Anche in questo caso deve valere una radicale decisione del cuore: Nihil operi Dei praeponatur(«non si deve anteporre nulla all'Opera di Dio»), così come non si deve anteporre nulla all'amore di Cristo.
L'opus manuum è il lavoro a cui tutti devono dedicarsi negli altri tempi della giornata. In un'epoca in cui il lavoro è affare di schiavi, Benedetto lo fa diventare questione di umana dignità, di fraterna solidarietà e di spirituale offerta.
Perfino gli strumenti di lavoro vanno trattati «come i vasi sacri dell'altare».
Perfino l'economo della casa deve curare l'amministrazione e deve tutto sorvegliare in base a un criterio di profonda umanità innervata dalla fede: anch'egli è tenuto a comportarsi «come padre, della comunità» e il suo compito deve tendere a che «nessuno si turbi o si rattristi nella casa di Dio».
Ora et Labora: il motto sintetico, che diverrà poi tradizionale, descrive il monaco che sa di lavorare con Dio e per Dio, ma sa che anche Dio lavora con lui e in lui.
Fu così che i monaci - guidati da questa Regola (che Benedetto, alla fine, definisce «piccolissima Regola da principianti») - impararono a rendere «eroica la vita quotidiana e quotidiana la vita eroica» con lo stesso ritmo con cui apprendevano «a dissodare terre e a darle alla civiltà», dopo aver dissodato e offerto a Dio il loro cuore.
Col passare dei secoli «l'Europa sarà rinserrata in una rete di fattorie modello, di centri di allevamento, di focolai di alta cultura, di fervore spirituale, di arte di vivere, di volontà di azione, in una parola: di civiltà ad alto livello che emerge dai flutti tumultuosi della barbarie. San Benedetto è senza alcun dubbio il Padre d'Europa. I benedettini, suoi figli, sono i padri della civiltà europea»: così ha scritto Léo Moulin. Egli amava ricordare che perfino le leggi del galateo che oggi rispettiamo a tavola (tovaglie, tovaglioli, fiori, silenzio, pulizia, sequenza dei cibi, cortesia reciproca, modo di comportarsi) furono inventate dai monaci che resero il cibo «una pietanza», qualcosa che è legata alla pietas: un cibo ricevuto e consumato con gratitudine e rispetto.
Ai tempi della prima abbazia di Montecassino il lavoro riguardava la stretta amministrazione della casa e dei suoi più vicini possedimenti.
Col tempo i monaci impareranno a dissodare terre, bonificare, irrigare, fino a gestire vere e proprie aziende agricole, allevamenti, vivai, serre sperimentali.
Impareranno e insegneranno la viticultura, lo sfruttamento delle foreste, l'uso delle piante medicinali.
Si preoccuperanno di ricopiare nei loro freddi scriptoria tutte le opere dell'antichità classica che oggi noi conosciamo soltanto per loro merito.
I monasteri diverranno perfino centri finanziari, e adempiranno per secoli anche alla funzione di banche di depositi e prestiti.
Dicono che in Europa non c'è luogo in cui non si trovino tracce dell'azione dei monaci, e molte città ebbero il loro primo nucleo in un'abbazia.
La Regola è all'origine di tutto questo: ha salvato e costruito l'Europa non perché offrisse un progetto dettagliato e credibile di ricostruzione, ma perché trasmetteva un modello di vita in cui «la dignità umana aveva un riconoscimento quotidiano» (Bernard de Jouvenel) e - aggiungiamo noi -tale dignità era riconosciuta in ogni azione del giorno, dalla più sacra alla più umile.
Lo scopo di Benedetto - e poi quello dei suoi monaci - non fu quello di supplire alle deficienze di una società in sfacelo, ma quello di poter semplicemente realizzare la vocazione che Dio dona all'uomo.
Benedetto credette, insomma, che era possibile anche nel deserto (geografico e morale) aprire una schola dominici servitii: «una scuola per imparare a servire il Signore»; ma comprese che, in quegli anni e in quei secoli. una simile «scuola» doveva semplicemente farsi carico di insegnare tutto, anche tutto l' «umano»: dalla cortesia al senso della misura, dalla tenerezza alla serietà, dall'onorare Dio all'onorare i propri fratelli e le proprie responsabilità.
Aveva poco più di sessant'anni, quando Dio gli fece l'ultimo regalo. Una notte in cui Benedetto pregava silenziosamente, stando alla finestra, una luce si diffuse lentamente fino a che tutto sembrò risplendere come in pieno giorno. Ed ecco che «durante questa visione si verificò un fatto prodigioso, come ebbe a dire in seguito lui stesso: davanti ai suoi occhi si presentò addirittura il mondo intero come raccolto sotto un unico raggio di sole».
Anche san Gregorio Magno, che racconta quest'episodio conclusivo, fa fatica a spiegare il significato e la possibilità stessa di una simile visione. Spiega tuttavia così: «Non furono la terra e il cielo a rimpicciolirsi, fu l'anima del veggente che si dilatò».
È questa una nota ricorrente nell'esperienza di molti santi, che merita di essere sottolineata: l'ultima preghiera, l'ultima visione riguardano Dio Creatore e la bellezza di tutte le creature.
Il primo articolo del Credo anche l'ultima verità pienamente creduta e gustata.
Ormai il Santo Patriarca sapeva d'essere giunto al termine del suo cammino. Si fece portare nell'oratorio del monastero, ricevette l'Eucaristia. e poi «con l'aiuto dei discepoli che sostenevano le sue deboli membra, rimase in piedi con le mani alzate verso il cielo, finché spirò mormorando un'ultima preghiera».
Moriva com'era vissuto, nella posizione dell'Orante, mentre alcuni monaci di lontani monasteri ricevevano la visione di una strada, tutta coperta di tappeti, che si innalzava dritta fino al cielo, verso Oriente, e una voce spiegava loro: «Questa è la via per la quale Benedetto, caro a Dio, è asceso al cielo».
Così finisce il racconto della vita di colui che fu «Benedetto di nome e per grazia».
Più avanti, in un altro libro dei suoi Dialoghi, san Gregorio aggiungerà ancora un episodio sul Santo Patriarca che può servirci come conclusione del racconto e ammonimento.
Il Pontefice narra la vicenda di un eremita del monte Morsicano che, in quegli stessi anni, viveva chiuso in una caverna e che, per restare fedele al suo proposito, aveva addirittura legato il suo piede alla roccia con una catena di ferro.
Benedetto, quando lo seppe, gli mandò a dire: «Se sei servo di Dio, a tenerti legato non deve essere una catena di ferro, ma la catena di Cristo».

Voleva dire - a lui e a noi - che l'unico legame indissolubile è l'amore di Gesù.



DISCORSI ED OMELIE DI BENEDETTO XVI SU SAN BENEDETTO
L’Europa nella crisi delle culture: l'ultima conferenza del cardinale Joseph Ratzinger(Subiaco, 1° aprile 2005)

«Con quale nome vuoi essere chiamato?» «Vocabor Benedictus XVI», «Mi chiamerò Benedetto XVI» (Udienza generale, 27 aprile 2005)

Il Papa: "San Benedetto sapeva che quando il credente entra in relazione profonda con Dio non può accontentarsi di vivere in modo mediocre all’insegna di un’etica minimalistica e di una religiosità superficiale" (Angelus, 10 luglio 2005)

Il Papa: "Per San Benedetto la preghiera è in primo luogo un atto di ascolto che deve poi tradursi nell’azione concreta" (Catechesi del Santo Padre su San Benedetto da Norcia, 9 aprile 2008)

Il Papa: "Sarebbe fatale, se la cultura europea di oggi potesse comprendere la libertà ormai solo come la mancanza totale di legami e con ciò favorisse inevitabilmente il fanatismo e l’arbitrio. Mancanza di legame e arbitrio non sono la libertà, ma la sua distruzione" (Discorso in occasione dell'incontro con il mondo della cultura al Collège des Bernardins di Parigi, 12 settembre 2008)

Il Papa: "In un’epoca segnata da una preoccupante cultura del vuoto e del "non senso", voi siete chiamati ad annunciare senza compromessi il primato di Dio"(Discorso del Santo Padre ai partecipanti al Congresso Internazionale degli Abati Benedettini, 20 settembre 2008)

Il Papa: "Quanto bisogno ha la comunità cristiana e l’intera umanità di assaporare appieno la ricchezza e la potenza della pace di Cristo! San Benedetto ne è stato grande testimone, perché l’ha accolta nella sua esistenza e l’ha fatta fruttificare in opere di autentico rinnovamento culturale e spirituale" (Parole del Santo Padre alla recita del Regina Coeli, in Piazza Miranda di Cassino, 24 maggio 2009)

Il Papa a Cassino: "La preghiera, a cui ogni mattina la campana di san Benedetto con i suoi gravi rintocchi invita i monaci, è il sentiero silenzioso che ci conduce direttamente nel cuore di Dio; è il respiro dell’anima che ci ridona pace nelle tempeste della vita" (Omelia in occasione della Concelebrazione Eucaristica in Piazza Miranda di Cassino, 24 maggio 2009)

Il Papa: "Non vivere più per se stessi, ma per Cristo: ecco ciò che dà senso pieno alla vita di chi si lascia conquistare da Lui. Lo manifesta chiaramente la vicenda umana e spirituale di san Benedetto, che, abbandonato tutto, si pose alla fedele sequela di Gesù" (Omelia del Santo Padre in occasione della Celebrazione dei Vespri con gli Abati Benedettini e Comunità di Monaci e Monache Benedettine nella Basilica dell’Abbazia di Montecassino, 24 maggio 2009)










Nessun commento: